I SISTEMI URBANI IN ITALIA

XXI Secolo (2010)

I sistemi urbani in Italia

Rosario Pavia

Il territorio come rete

I fenomeni urbani vengono interpretati sempre più frequentemente attraverso la nozione di rete. Il territorio appare come un sistema di reti: non solo urbane e insediative, ma anche infrastrutturali, ambientali, produttive. Reti fisiche e immateriali: dalla telematica all’informazione, alle filiere sociali e istituzionali. La rete evoca l’immagine del movimento, della continuità, della correlazione. Le città e i territori sono attraversati da flussi di merci, di persone, di informazioni, di transazioni economiche: è l’intensità dei flussi a caratterizzare l’identità e il rango delle aree urbane. Le reti mettono in relazione le città dei contesti locali e quelle dei circuiti della globalizzazione. Alcune città appartengono sia alla rete locale sia a quella globale. In questo nuovo scenario, l’interpretazione dei fenomeni urbani si è distaccata dall’analisi rivolta all’individuazione delle gerarchie tra i centri urbani, puntando invece al riconoscimento delle loro relazioni. La nozione di rete ha spostato così l’attenzione dalla statica geometria delle gerarchie a quella variabile e mobile definita dai flussi.

Il ricorso alla nozione di rete si lega alle profonde trasformazioni del territorio e della società italiana: a partire dagli anni Settanta si è passati dalla grande polarizzazione urbana, dall’economia della città-fabbrica, dalla verticalizzazione del ciclo produttivo, a un’economia che tende a esternalizzarsi, delocalizzandosi in una pluralità di piccole e medie imprese. Il decentramento produttivo, l’affermarsi dei distretti industriali in molte regioni del Paese, il recupero economico delle città intermedie e minori, insieme a un sostenuto decentramento residenziale, hanno prodotto l’immagine di un territorio che si va riorganizzando per sistemi urbani diffusi e filiere produttive e decisionali orizzontali. Alla diffusione urbana corrisponde un’organizzazione orizzontale dell’impresa e della società. Il processo produttivo si sta decentrando, e allo stesso modo si espandono e assumono autorevolezza il sistema delle autonomie locali e il protagonismo dei sindaci. Le immagini ricorrenti sono l’Italia delle cento città, la rivincita delle città intermedie, la piccola città come presidio di vitalità territoriale e centro di nuove microregioni. Al monocentrismo delle grandi città e alla centralizzazione dei poteri decisionali si sono sostituiti il policentrismo e la poliarchia. Il territorio molecolare della piccola e media industria è il motore della tenuta economica e dell’affermazione del made in Italy. La via allo sviluppo della Terza Italia, prefigurata negli anni Ottanta da Giorgio Fuà e Arnaldo Bagnasco, è divenuta un modello diffusivo da sostenere in realtà diverse, non solo nel Nord-Est e nel Centro, ma anche nel Nord-Ovest e nel Meridione. La tenuta sociale del Paese è quindi affidata alla vitalità dei distretti industriali, alla loro flessibilità, ma anche al loro legame con la cultura e le risorse endogene del territorio locale. L’immagine di un mosaico di microregioni coese al loro interno e in grado di interagire con le reti nazionali e internazionali è ancora presente nei primi anni del nuovo secolo. La diffusione urbana non è più vista come sprawl, come disordine e spreco, ma ha invece assunto la struttura di una vera città, diffusa, molecolare, ma tenuta insieme da una solida rete di relazioni economiche e sociali.

Tuttavia qualcosa, proprio nel sistema delle reti, sta già cambiando. La città diffusa vive una fase di forti sollecitazioni, legate alla riorganizzazione del settore manifatturiero di fronte ai nuovi livelli di competizione del mercato internazionale e al ridimensionamento dei consumi interni. I distretti industriali si contraggono, molte piccole imprese scompaiono, la polverizzazione produttiva sembra aver fatto il suo tempo. Il sommerso rivela ora la sua insufficienza. Nei distretti più vitali si assiste a una sorta di concentrazione imprenditoriale in poche aziende leader capaci di innovarsi e competere sul mercato internazionale. Le imprese minori stentano a inserirsi nella nuova fase del ciclo economico. È proprio la nuova dimensione dei mercati a far emergere le contraddizioni latenti della città diffusa. Il territorio non appare più come un sistema reticolare virtuoso, ma come un intreccio di reti sconnesse e insufficienti. Sono le reti infrastrutturali a rivelare per prime la loro inadeguatezza: autostrade, ferrovie, viabilità urbana, nodi portuali e aeroportuali sono del tutto insufficienti. L’incrementalismo degli anni precedenti, l’intervenire cioè sul patrimonio infrastrutturale esistente con investimenti parziali, con azioni di adeguamento e migliorie, non funziona più. Manca per le grandi opere pubbliche e le infrastrutture una strategia di sistema, un progetto di nuova modernizzazione del Paese.

L’immagine di un territorio molecolare sembra entrare in crisi anche tra i suoi primi sostenitori, il Paese appare invischiato da una ‘mucillagine’ complessa fatta di una moltitudine di centri decisionali, di apparati burocratici, di interessi corporativi. Lo sviluppo delle imprese leader e la vitalità delle aree più forti non riescono a diffondersi e a trasmettere i loro effetti positivi. La comunità locale, che aveva esteso orizzontalmente la coesione tra i soggetti pubblici e privati dello sviluppo, appare sempre più fragile ed esposta a pressioni. Roberto Saviano, riferendosi non solo alle regioni meridionali, ha spesso rilevato l’attenzione dei circuiti economici della criminalità organizzata nei confronti degli equilibri elettorali locali.

Nonostante la ‘mucillagine’, l’inerzia del sistema, l’insufficienza delle reti infrastrutturali, il degrado ambientale, la congestione delle aree urbane, il territorio e le città nel loro insieme si espandono ancora. Nei primi anni del 21° sec. il territorio nazionale sembra registrare due movimenti: un assestamento delle forme della città diffusa, con una densificazione delle reti insediative, e un ritorno alla grande città, non più polarizzata nel suo nucleo centrale ma espansa in un agglomerato urbano di dimensione metropolitana. I due movimenti non sono in contraddizione: entrambi sembrano essere il risultato di una densificazione delle reti, in particolare delle reti insediative, in seguito all’intensa produzione edilizia degli ultimi anni.

Diffusione

Negli ultimi decenni del Novecento, l’Italia è passata da una struttura fortemente polarizzata, incentrata sulle grandi città investite dallo sviluppo degli anni Sessanta, a una espansione urbana diffusiva che ha interessato non soltanto le corone esterne delle aree metropolitane, ma anche, e in modo ancora più intenso, i territori delle città intermedie e di quelle minori. Le nuove forme dello sviluppo urbano sono emerse in diversi ambiti territoriali: nel Nord-Est, lungo il corridoio adriatico tra Marche e Abruzzo, in Toscana tra Firenze e Prato, lungo la direttrice emiliana e, più in generale, nella Pianura Padana, nella quale Eugenio Turri ha individuato i germi di una megalopoli (La megalopoli padana, 2000).

Il processo di urbanizzazione diffusa è ancora in corso, ma ha assunto, nei diversi contesti territoriali, forme specifiche d’insediamento a seconda della specializzazione funzionale delle imprese e della diversa combinazione tra industrie manifatturiere e territorio. Da un’urbanizzazione periferica dai caratteri informali e individualistici, che via via si espandeva nei territori ancora rurali dei centri intermedi e minori, si è passati a un’organizzazione urbana più strutturata, al punto da apparire non più come anticittà, ma come città a tutti gli effetti con crescenti dotazioni di servizio e centralità ben definite (i centri commerciali, gli outlet, i multiplex e i parchi tematici collocati alle intersezioni delle grandi reti stradali hanno finito presto per divenire i nuovi luoghi del collettivo territoriale). La diffusione urbana non era soltanto spinta dalle dinamiche del mercato immobiliare e dai nuovi stili di vita (il minore costo delle abitazioni e l’attrattività della casa unifamiliare), ma si legava organicamente ai processi di decentramento in atto. La controurbanizzazione corrispondeva infatti a una fase di deconcentrazione e di dispersione territoriale delle imprese, delle unità locali, dell’occupazione e della popolazione. La diffusione delle attività produttive, come risposta alla crisi della grande industria, si legava a sua volta alle risorse endogene di particolari contesti locali in cui una tradizionale vocazione manifatturiera, una relativa dotazione infrastrutturale, una radicata cultura del lavoro, insieme a una economia agricola sufficiente a integrare i salari industriali, avrebbero consentito alle piccole e medie imprese di affermarsi rapidamente. L’industrializzazione senza fratture delle Marche, del Veneto, dell’Emilia Romagna, della Val d’Arno, è divenuta ben presto un modello da promuovere e sostenere sull’intero territorio nazionale. Il distretto industriale si affermò negli anni Ottanta, e la sua evoluzione ha condizionato gran parte delle trasformazioni insediative delle città intermedie e minori.

Nella fase iniziale, il distretto industriale era profondamente radicato al contesto locale: le unità produttive di una pluralità di imprese di piccola e media dimensione si coordinavano fra loro, distribuendosi non solo in aree funzionali (le zone industriali), ma anche all’interno dei tessuti edilizi e degli ambiti residenziali (le case-laboratorio di molti centri marchigiani, veneti e campani). Il processo produttivo si dispiegava attraverso filiere orizzontali di lavorazione, la cui flessibilità e adattività consentivano alle aziende di reagire positivamente alle variazioni del mercato. Il territorio del distretto iniziava a organizzarsi come un sistema reticolare in grado di integrare fasi di lavoro, competenze, risorse, infrastrutture, forniture e canali di esportazione. Il territorio-rete appariva in questa fase molto circoscritto al suo interno: le maglie erano ancora larghe; prevalevano gli aspetti produttivi su quelli terziari; la campagna urbanizzata era ancora lontana dall’affermarsi come città diffusa.

Negli anni Novanta, il distretto si è terziarizzato: sono aumentati gli addetti ai servizi alle imprese e sono diminuiti quelli direttamente occupati nell’industria manifatturiera. È in questa fase che la diffusione urbana si è strutturata in forma più compiuta. Lo sviluppo delle attività di servizio alle imprese e al consumatore ha dato alla diffusione urbana una nuova prospettiva. Al centro urbano capoluogo fa ora riscontro nel territorio una pluralità di centralità di servizio (dal terziario per le industrie al commercio, alla cultura, al tempo libero). La dispersione insediativa è divenuta città. La diffusione urbana ha assunto una conformazione più stabile, si è radicata nel territorio, nelle comunità locali ha acquisito identità, spessore. In qualche misura si è storicizzata, cessando di essere l’atopico territorio dei non luoghi.

In termini generali, la diffusione urbana può essere colta anche attraverso l’aumento relativo della popolazione, delle frazioni distaccate e dei nuclei abitati (si pensi, in tal senso, alle nuove realtà insediative dei fondovalle tra Marche e Abruzzo). I dati del censimento del 2001 confermano come, a fronte di una flessione demografica dei centri maggiori, si sia avuta una sensibile crescita dei centri tra i 5000 e i 20.000 abitanti. L’incremento demografico di questi ultimi è relativo non solo ai centri inseriti nelle aree metropolitane, ma interessa anche quelli, più numerosi, localizzati nei sistemi urbani dell’industrializzazione decentrata. Per avere un quadro dei caratteri economici e insediativi del territorio nazionale, è utile far riferimento ai sistemi locali classificati dall’ISTAT (Istituto nazionale di Statistica) sostanzialmente in base agli spostamenti giornalieri per motivi di lavoro. Gli ambiti individuati erano 955 nel 1981, 783 nel 1991, 680 nel 2001.

La forte contrazione dei sistemi urbani tra il 1981 e il 2001 sta a dimostrare come i processi di ristrutturazione industriale e l’espansione delle attività di servizio abbiano ridisegnato la geografia dei posti di lavoro e della residenza. I dati rilevati dai censimenti generali dell’industria e dei servizi degli anni 1981, 1991 e 2001, evidenziano una consistente riduzione degli addetti all’industria manifatturiera (la loro incidenza sul totale degli addetti alle imprese passa dal 41,8% del 1981 al 35,8% del 1991 e al 31,2% del 2001) e un forte incremento degli addetti al settore dei servizi alle imprese (la loro incidenza sul totale passa dal 4,5% del 1981 all’8,1% del 1991 e al 14,3% del 2001).

La combinazione di attività industriali e terziarie fa emergere nei sistemi locali il loro diverso livello di concentrazione urbana. È, di conseguenza, l’alto numero dei sistemi locali urbani a disegnare la nuova geografia delle città italiane. I sistemi locali urbani sono più diffusi nel Centro-Nord: in Abruzzo e nelle Marche lungo la costa e nei fondovalle; in Toscana nella Val d’Arno e sulla costa tra Livorno e Marina di Carrara; in Emilia-Romagna lungo il corridoio emiliano, con penetrazioni verso il Nord, Nord-Est e, sul versante opposto, verso il riminese e il ravennate; in Umbria lungo la strada europea E45; nel Veneto tra Verona e Venezia Mestre e nel bellunese; nel Friuli-Venezia Giulia con i poli di Udine e Pordenone; nel Trentino lungo l’asse Rovereto-Trento; in Lombardia e in Piemonte intorno ai poli di Milano e Torino, e nell’area pedemontana centrale e occidentale con i nodi emergenti di Varese e Cuneo.

Nel Mezzogiorno, i sistemi locali con caratteristiche urbane sono decisamente meno numerosi, ma in alcuni di essi, a partire dagli anni Novanta, si registra un processo di specializzazione, in particolare nel settore del made in Italy. In Puglia si affermano i sistemi locali urbani a nord e a sud di Bari (le Murge e il Salento), con sconfinamenti fino a Matera; in Campania emergono il vasto territorio urbano da Caserta a San Giuseppe Vesuviano, e con minore intensità i sistemi urbani del salernitano e dell’avellinese; in Calabria e nelle isole i sistemi urbani di maggiore consistenza comprendono i comuni capoluoghi.

L’economia dei distretti industriali si è sensibilmente contratta negli ultimi anni, ma la sua cultura si è trasmessa ad altri settori come il turismo, i beni culturali, l’enogastronomia, la nautica. La stagnazione economica, la competizione internazionale, il calo delle esportazioni hanno innescato un processo di trasformazione del modello tradizionale del distretto industriale. Si sono rafforzate le imprese leader, è aumentato il peso delle attività di servizio a forte valore aggiunto (dalla progettazione al design, alla ricerca); nel contempo molte attività lavorative sono state decentrate nei Paesi fornitori o direttamente in quelli destinatari dell’export. Nelle aree più attive del Centro-Nord, le imprese leader sono il motore di processi di concentrazione aziendale, con effetti di densificazione delle reti locali, le quali, per la prima volta, interiorizzano i flussi finanziari, informativi, conoscitivi e di relazione del circuito globale.

Cosa significhi tutto questo sul piano insediativo e della qualità urbana è ancora presto per dirlo. Alcuni segnali confermano che il processo di riconcentrazione – il quale, come vedremo, ha investito i grandi agglomerati metropolitani – è rintracciabile anche in molti sistemi urbani locali. Lo dimostrano la tenuta demografica dei comuni con meno di 50.000 abitanti, l’intensa attività edilizia di questi ultimi anni, la crescita del settore dei servizi (al consumatore molto più che all’impresa). Ma al di là degli aspetti quantitativi, riscontrabili in molte regioni del Paese, occorre riconoscere che i segnali più interessanti relativi all’innovazione, alla competitività, all’internazionalizzazione, alla produttività, si concentrano solo in poche aree del Centro-Nord. Qui alcune aziende leader hanno promosso non solo una riorganizzazione delle filiere produttive delle imprese minori, ma un’intensificazione dei rapporti tra imprese, amministrazioni locali, centri di ricerca, università. In queste aree assistiamo a una densificazione qualitativa delle reti insediative: lo percepiamo attraverso i numerosi investimenti nell’architettura degli edifici aziendali e dei poli tecnologici (si pensi, per es., alla sede Guzzini, 2002, a Recanati, dello studio Mario Cucinella, e al parco scientifico e tecnologico Kilometro rosso, 2004, a Bergamo, di Jean Nouvel), la diffusione di edilizia bioclimatica, l’impegno di molte amministrazioni nella produzione di energia rinnovabile, nello smaltimento dei rifiuti (come a Belluno, Bolzano, Brescia), nel miglioramento della mobilità locale (il Minimetrò, 2008, a Perugia, di Nouvel).

I segnali positivi, tuttavia, in una fase di grande incertezza nelle prospettive di sviluppo, non hanno ancora innescato un generale processo di trasformazione qualitativa del territorio. Le imprese medie e minori hanno difficoltà nell’emulare i modelli innovativi delle aziende leader, le reti produttive e di servizio ristagnano, la densificazione delle reti insediative si realizza attraverso tipologie e sistemi costruttivi tradizionali di basso livello qualitativo. Le risorse pubbliche sono scarse, il partenariato pubblico privato stenta ad affermarsi, i grandi programmi di infrastrutturazione procedono con lentezza. La crescita degli investimenti nel settore delle costruzioni, concentrata soprattutto nell’edilizia residenziale, non si è tradotta (tranne poche eccezioni) in una diffusa qualità urbana, né nelle città medie e minori, né nei grandi agglomerati metropolitani.

A ben vedere, gli eccezionali investimenti nell’edilizia possono essere letti come un ritorno alla rendita, con una distrazione di risorse finanziarie dai settori più impegnativi e rischiosi (dalla produzione di beni strumentali e di tecnologie avanzate, all’energia, alle grandi infrastrutture, alla ricerca scientifica). I segnali positivi ci sono, ma per radicarsi e diffondersi nella società e nel territorio avrebbero bisogno di un’organica politica di governo nazionale e locale in grado di sviluppare una reale strategia di modernizzazione strutturale del Paese.

Ritorno al centro

Dopo un lungo periodo, le grandi città metropolitane italiane tornano a crescere demograficamente, non soltanto nei centri urbani delle corone esterne, ma anche all’interno del comune capoluogo. Il ciclo di vita delle città, analizzato nelle aree metropolitane dei Paesi più avanzati d’Europa e scandito dalle fasi di urbanizzazione (crescita), suburbanizzazione (crescita delle corone e calo demografico del comune centrale) e riurbanizzazione (recupero demografico del centro capoluogo), si è attuato con tempi e modalità diverse, anche all’interno dell’Italia. Mentre la controurbanizzazione ha accompagnato la crescita delle città intermedie e minori, sostenendo l’affermarsi della città diffusa, la riurbanizzazione sta a indicare un ritorno al centro con nuove funzioni produttive e di servizio, nuovi residenti e city users, nuovi investimenti in opere edilizie e infrastrutturali. Nelle città maggiori, in particolare a Milano e a Roma, si registrano peraltro crescenti flussi di immigrati stranieri.

La riurbanizzazione coincide, da un lato, con la trasformazione delle aree industriali dismesse, dall’altro con interventi di recupero urbano e di nuove edificazioni. A dire il vero, nelle grandi città il declino demografico degli anni Ottanta non aveva interrotto il processo di espansione in termini di consumo di suolo e di crescita edilizia. L’aumento del numero delle famiglie, delle persone sole, la forte domanda di fabbricati per uffici e il commercio avevano consentito alle grandi città di espandersi, contro ogni previsione. È in questa fase che, per la prima volta in Italia, si è iniziato a sperimentare il recupero edilizio e urbano, promuovendo programmi di concertazione pubblico-privato.

Nel periodo che va dagli anni Novanta al primo quinquennio del 2000 la fase espansiva ha assunto, tuttavia, un carattere completamente nuovo. L’espansione è aumentata, legandosi ai processi di trasformazione dei grandi agglomerati metropolitani in termini di specializzazione economica, di crescita demografica, di boom immobiliare. Il CRESME (Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l’Edilizia e il territorio), attraverso una specifica metodologia (soglie di densità della popolazione, degli occupati, degli addetti, contiguità spaziali, soglie di dimensione), tra gli ambiti territoriali con caratteri metropolitani ne ha individuati cinque (i sistemi lombardo, veneto, emiliano, romano e, con alcune differenziazioni, campano) in cui si sta concentrando una dinamica positiva di sviluppo non riscontrabile nelle altre aree metropolitane del Paese. Mentre in questi cinque si registrano «tassi di crescita del reddito, incremento della popolazione, flussi di immigrazione straniera, nelle altre aree metropolitane si sono continuate a sviluppare dinamiche deboli, assimilabili a quelle degli anni Ottanta: perdite di popolazione, hinterland stanco, performance contenute» (PARC - Direzione generale per la qualità e la tutela del Paesaggio, l’Architettura e l’arte Contemporanee, Ministero per i Beni e le Attività culturali, Ricerche e indagini per la qualità urbana. Elementi di sintesi, 2008, p. 4). All’inizio del 21° sec., il Paese appare, dal punto di vista insediativo, molto differenziato: un gruppo di aree metropolitane in sviluppo, con movimenti di concentrazione; una persistente deriva della città diffusa nei territori dei distretti industriali, con segnali di densificazione in quelli più dinamici; una consistente presenza di grandi città in declino.

Il nuovo assetto insediativo conferma il divario crescente tra le aree del Centro-Nord e quelle del Meridione, ma anche una grande varietà di modelli di sviluppo urbano; mentre in alcune parti del Paese sono in corso processi di riurbanizzazione, in altre sopravvive la controurbanizzazione; in altre ancora (in particolare nel Sud) sono presenti processi sia di disurbanizzazione sia di urbanizzazione.

Nel decennio 1991-2001, nei cinque grandi sistemi metropolitani la popolazione residente è cresciuta del 2,9%, mentre gli addetti alle imprese e alle persone, il principale motore della crescita occupazionale, hanno avuto un incremento di circa il 20%, quasi il doppio di quello registrato negli altri comuni del Paese. Il calo degli addetti nel settore industria e artigianato (particolarmente sensibile nei sistemi lombardo e romano) è stato in buona misura contenuto dallo straordinario sviluppo del settore delle costruzioni, che ha registrato un incremento di quasi 100.000 addetti (+21%). Il boom immobiliare ha fatto sentire i suoi effetti occupazionali anche nel settore dei servizi, in particolare quelli professionali e di intermediazione (le attività immobiliari hanno avuto infatti un’impennata di quasi il 200%). La forte crescita dei servizi non è tuttavia riconducibile al solo settore immobiliare: in tutti i maggiori sistemi metropolitani si è affermato infatti un articolato settore terziario, che ha consolidato il ruolo delle grandi città come centralità economiche di rango nazionale e internazionale. Sono cresciuti i settori delle comunicazioni e dell’informatica, delle attività professionali, dei servizi alla produzione e alla distribuzione, delle attività turistiche e culturali. Nei sistemi metropolitani più dinamici, come quelli lombardo e romano, sono emerse con maggiore vigore le funzioni più propriamente rivolte all’internazionalizzazione (servizi di supporto alla produzione e al finanziamento, attività assicurative, scientifiche, di formazione, paradiplomatiche). È la presenza di queste funzioni ad aprire i sistemi metropolitani alla rete delle grandi città europee e alle reti ancora più complesse della globalizzazione. Non c’è contraddizione tra la spinta alla concentrazione e la rete globale in cui le distanze vengono annullate; anzi, è proprio questo annullamento a rivalutare la prossimità, la densità degli scambi e delle comunicazioni dirette.

Ma qual è il livello di sviluppo delle aree metropolitane italiane? Secondo il CRESME, che ha messo in relazione il movimento demografico con il peso degli addetti alle unità locali, sono sistemi metropolitani in piena crescita quelli di Milano e Roma; di crescita relativa quelli di Torino, Firenze, Bologna, Genova, Venezia; di crescita equilibrata quelli di Bari e Cagliari; in crisi quelli di Napoli e Catania, dove la crescita demografica è molto più accentuata dell’incremento occupazionale; in recessione i sistemi metropolitani di Palermo e di Messina, dove a una stagnazione occupazionale si associa un consistente incremento della popolazione. Se osserviamo l’andamento della popolazione residente nei grandi comuni delle aree metropolitane, abbiamo un’ulteriore conferma dell’inversione di tendenza. Mentre nel decennio 1991-2001 la popolazione decresce ovunque (con la sola eccezione di Messina), nel periodo più recente torna a crescere in alcune grandi città del Centro-Nord, come Venezia e Trieste, mentre in altre il calo demografico si attenua, e in altre ancora, come Roma, si stabilizza. Anche nelle città meridionali il recupero demografico è sensibile, ma mentre nel Centro-Nord la ripresa è dovuta al saldo migratorio positivo, causato dal consistente afflusso di immigrati stranieri, nel Mezzogiorno è soprattutto il risultato della dinamica naturale positiva.

Al di là degli aspetti demografici, è l’attrattività occupazionale a marcare lo scollamento tra le due Italie. Nelle aree metropolitane del Centro-Nord il rapporto tra addetti e occupati residenti è infatti sensibilmente superiore alla media nazionale. Le grandi città tornano ad attrarre per le loro opportunità di occupazione, ma anche per la loro rinnovata centralità sociale, direzionale e culturale.

Gli investimenti nel settore delle costruzioni sono, soprattutto nelle grandi città, imponenti. Un lungo ciclo edilizio ha privilegiato in particolare il settore delle abitazioni. Milioni di metri cubi di nuove costruzioni (mediamente ogni anno circa 200) hanno densificato le aree periurbane e quelle periferiche. Un’intensa attività di recupero e di ristrutturazione edilizia, articolata, in larga misura, in una moltitudine di interventi di piccole dimensioni, ha rinnovato progressivamente l’immagine del centro città e di interi settori urbani. Parte del patrimonio abitativo delle aree centrali ha cambiato destinazione d’uso per la forte domanda di spazi per le attività professionali e di servizio. L’erosione dello stock di abitazioni e gli alti costi d’acquisto e di locazione hanno prodotto uno spostamento consistente di popolazione verso quartieri economicamente più accessibili e aree periferiche, dove dagli anni Novanta è stata avviata una pluralità di programmi complessi (i programmi di riqualificazione urbana, i piani di recupero urbano, i programmi integrati e così via). La città si sta ricompattando, le aree riservate al verde pubblico sono controbilanciate da nuovi insediamenti residenziali ad alta densità. A Roma gli interventi si sono concentrati intorno alle nuove centralità urbane sorte accanto ai nodi della mobilità e ai grandi centri commerciali; a Milano si sta procedendo, invece, con la progressiva riconversione di molte aree industriali dismesse in nuovi quartieri residenziali con quote consistenti di terziario e commerciale.

I milioni di metri cubi realizzati non hanno finora elevato la qualità urbana delle grandi città. I pochi interventi di interesse architettonico non sono stati sufficienti per rappresentare il cambiamento in corso. Ci sono però delle eccezioni. Torino e Genova, anche in seguito a efficaci piani urbanistici (Torino) e a pragmatiche strategie urbane (Genova), sono riuscite, nell’arco di 10-15 anni, a rinnovarsi in modo significativo. Entrambe le città hanno saputo legare il processo di riurbanizzazione a consistenti programmi di riqualificazione e trasformazione urbana promossi in occasione di importanti eventi culturali. A Genova, l’Expo del 1992 (Colombiadi) e le manifestazioni per Genova capitale europea della cultura (2004) sono stati gli acceleratori delle strategie del rinnovamento urbano. La riqualificazione del porto antico, con gli interventi di Renzo Piano (1992), è l’unico esempio di riqualificazione di waterfront in Italia. Dal porto, trasformato in un grande spazio pubblico per la cultura e il tempo libero, la riqualificazione urbana sta oggi investendo l’intero centro storico.

Torino è stata rilanciata a livello internazionale prima dal piano regolatore di Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi (approvato nel dicembre 1993), che prevedeva l’abbassamento e la copertura di parte del tracciato ferroviario e la realizzazione al suo posto di un sistema di assi urbani (le ‘spine’) come strategia strutturale per dare ordine e direzionalità alla città postfordista, e poi dalle opere pubbliche realizzate per le Olimpiadi invernali del 2006. Torino è oggi sempre più orientata a qualificarsi come centro di eccellenza per la ricerca, il turismo culturale, l’enogastronomia (il complesso di Eataly, aperto nel 2007 e progettato dallo studio Negozio blu, ha riportato nel centro della città la cultura dello slow food dell’hinterland). È evidente una relazione tra il circuito delle città globali e le strategie di rinnovamento urbano legate ai grandi eventi culturali e sportivi. Sono questi ultimi a proiettare le città e i loro territori nella rete della comunicazione e dello spettacolo globali. Sono questi grandi eventi, più di ogni altra cosa, ad accelerare i processi di trasformazione urbana, concentrando in tempi contenuti investimenti pubblici e privati in opere pubbliche, infrastrutture residenziali e attrezzature di servizio. È l’eccezionalità dell’evento a modernizzare le burocrazie amministrative, affiancandole con strutture specifiche di gestione e controllo. A ben vedere, proprio qui sta la differenza rispetto ai complessi programmi sperimentati in questi anni in Italia. I programmi eccezionali di Torino e Genova si basano su consistenti investimenti infrastrutturali e su una strategia complessiva dello sviluppo urbano; quelli ordinari, invece, nonostante prevedano una concertazione tra pubblico e privato per la realizzazione di infrastrutture, sono stati, da questo punto di vista, poco efficaci. I programmi complessi, al di là dell’enfasi con cui sono stati promossi, restano sostanzialmente interventi conformati dall’edilizia residenziale. Il ritorno pubblico dei programmi concertati è stato ovunque al di sotto delle attese (in genere opere di urbanizzazione e cessioni gratuite di aree). Non esiste un bilancio dettagliato, ma l’impressione prevalente è che la concertazione fra pubblico e privato dei programmi complessi abbia favorito, soprattutto nelle grandi città, consistenti operazioni di speculazione immobiliare.

Rispetto alle grandi città europee che in questi anni hanno efficacemente interpretato e sostenuto il proprio cambiamento (da quelle di rango nazionale come Barcellona, Parigi, Londra, Berlino, a quelle di livello regionale come Valencia, Lione, Monaco), le città italiane sono in ritardo. Mentre nelle prime la riurbanizzazione ha coinciso con grandi investimenti nella modernizzazione complessiva del sistema urbano (infrastrutture, mobilità, servizi e immagine architettonica), nelle città italiane la ricentralizazzione non ha ancora avviato un reale processo di trasformazione. Roma, dopo il leggero restyling del Giubileo (2000), ha solo di recente avviato i lavori per un ampliamento della sua rete metropolitana. La capitale non è riuscita a qualificare architettonicamente e funzionalmente le sue molteplici centralità periferiche. La riqualificazione del nodo ferroviario di Tiburtina, delle aree dismesse dei mercati generali di Ostiense e della ex fiera deve ancora decollare. I nuovi programmi di EUR SpA (tra cui il Centro congressi Italia di Massimiliano e Doriana Fuksas, in costruzione dal 2009), le opere costruite per i Mondiali di nuoto del 2009, il tentativo di qualificare la città come nuova capitale del cinema, la riscoperta delle risorse del litorale, alludono a un progetto di trasformazione non ancora ben definito. Al momento il modello di città policentrica, delineato dal Piano regolatore (approvato solo nel 2008) trova le sue maggiori criticità sia nell’insufficienza delle reti d’interconnessione tra le diverse centralità urbane, sia nella loro modesta qualità architettonica.

In modo diverso anche Milano, che con una strumentazione urbanistica più aperta e negoziale ha avviato con anticipo notevoli interventi di trasformazione urbana all’interno del suo nucleo centrale, non ha ancora prodotto un’immagine urbana adeguata al suo ruolo economico e culturale. La riqualificazione negli anni Ottanta delle aree dismesse della Pirelli alla Bicocca e in seguito la trasformazione di numerose zone industriali (tra cui la Pompeo Leoni, Pietrasanta, la Maserati-Rubattino, Pitteri, Crespi) sono più note per il loro controverso appeal architettonico e per la loro densificazione edilizia che non per aver giocato un ruolo strategico nel riordino della città. Anche i recenti progetti sulle aree dismesse della Falck, della vecchia Fiera, di Santa Giulia, attraverso le griffe di star internazionali (Piano, Zaha Hadid, Norman Foster, Daniel Libeskind e Arata Isozaki) appaiono come grandi operazioni immobiliari. Solo ora, con la conferma di Milano come sede dell’Expo del 2015, i numerosi progetti di riqualificazione urbana potranno forse trovare una più efficace collocazione strategica.

A Napoli, il ‘rinascimento’ culturale che in qualche modo aveva segnato il governo del sindaco Antonio Bassolino sembra essersi arrestato. La cura per la città, iniziata in occasione dell’incontro del G8 del 2001 e promossa su vasta scala attraverso il riordino e la riqualificazione del sistema della mobilità su ferro e dei suoi nodi (la progettazione delle stazioni metropolitane è stata affidata ad architetti di fama, da Gae Aulenti ad Álvaro Siza), si è bloccata di fronte all’emergenza crescente dei rifiuti. I grandi programmi di bonifica e di riqualificazione delle aree dismesse di Bagnoli e di Napoli orientale sono pressoché fermi. A Bagnoli, la Città della scienza (2003, di Pica Ciamarra associati) è soltanto un piccolo anticipo dell’enorme lavoro che resta da fare. In un clima di profonda incertezza, anche l’ambizioso progetto di riqualificazione del waterfront in corrispondenza dell’area monumentale del centro storico rischia di non passare a una fase operativa. In realtà proprio a Napoli, con un porto (il più grande d’Italia) che confina con la città per circa 20 km, si era intuito che la tradizionale frattura tra porto e tessuto urbano poteva essere superata facendo convivere le due parti attraverso un progetto condiviso di integrazione e correlazione.

Con l’eccezione di Genova e di Trieste, dove l’attività portuale è stata in gran parte decentrata in aree esterne al centro abitato, i porti italiani restano operanti all’interno delle città. È questa specificità a rendere la riqualificazione dei fronti marini un’operazione estremamente complessa. I porti italiani sono separati dalle città da barriere, vincoli, amministrazioni distinte e differenti piani regolatori.

Mentre nelle più importanti città portuali europee, da Barcellona ad Amburgo, da Rotterdam a Marsiglia a Liverpool, la riqualificazione è stata preceduta da imponenti processi di delocalizzazione e infrastrutturazione, nelle città portuali italiane la riorganizzazione dei fronti marini deve confrontarsi con realtà portuali attive e con crescenti esigenze di espansione e ristrutturazione.

Il waterfront, come area di contrapposizione e conflitti, rende difficile la realizzazione di nuove centralità urbane. Ciò nonostante, negli ultimi anni si sono moltiplicati i concorsi e le iniziative per recuperare a favore delle città porzioni di aree portuali: così a Napoli, Salerno, Bari, Brindisi, Palermo, Cagliari, La Spezia. Occorrerà ancora del tempo per trasformare i progetti in opere e realizzazioni. I processi di trasformazione urbana in Italia sono straordinariamente lenti. Il ritorno al centro è accompagnato da una diffusa consapevolezza che nelle grandi città si giocheranno le sfide del futuro, in termini di competizione, di conoscenza, di direzione, di attrazione di flussi di capitali, di informazione, di ricerca, di modelli di comportamento. Le città competeranno non solo per le attrattività occupazionali e culturali, ma anche per la compatibilità ambientale, la sicurezza, la qualità spaziale e architettonica.

Oggi in Italia non c’è una carenza di progetti urbani e probabilmente neanche di risorse finanziarie (il boom edilizio, seppure ora in via di ridimensionamento, lo dimostra): manca piuttosto un progetto complessivo di modernizzazione qualitativa del Paese in grado di potenziare le reti e trasformarle in un sistema coerente; manca un progetto di governance che restituisca responsabilità e competenza ai diversi livelli decisionali, che snellisca e acceleri i processi attuativi. Il tempo non lavora a favore delle nostre città. I prossimi anni saranno decisivi, soprattutto per il Mezzogiorno, dove nel periodo 2007-2013 saranno disponibili per l’ultima volta i fondi strutturali europei.

Tra Europa e Mediterraneo

Con la dichiarazione conclusiva della Conferenza di Barcellona (che nel novembre 1995 aveva riunito i ministri degli Esteri di 37 Paesi) si avviava una nuova fase nei rapporti tra i Paesi dell’Unione Europea e quelli delle rive sud ed est del Mediterraneo. L’obiettivo era ambizioso: estendere al Sud la prosperità del Nord attraverso l’incremento degli scambi commerciali e delle relazioni economiche. Il percorso avrebbe dovuto portare all’eliminazione graduale delle barriere tariffarie, per pervenire entro il 2010 alla formazione di una zona di libero scambio. A distanza di un quindicennio, il percorso per la liberalizzazione dei mercati si è rivelato difficile e di complessa attuazione: molto verosimilmente il termine del 2010 sarà spostato più avanti. Il Mediterraneo resta, dal punto di vista economico, un’area ancora periferica. Lo è in parte anche per l’Italia che, secondo un’immagine tradizionale, è un ponte geografico e naturale tra il Mediterraneo e l’Europa. Nel 2005 le importazioni dell’Italia dal bacino mediterraneo incidevano per il 9,9% sul totale, mentre le esportazioni si attestavano solo sull’8,7%. L’economia del Mediterraneo, nonostante la sua centralità geografica e trasportistica, è ancora fortemente squilibrata nei confronti dei Paesi europei. Nel 2003 il PIL dei Paesi mediterranei africani e asiatici rappresentava rispettivamente il 15% e il 17% di quello dei Paesi mediterranei europei; il loro reddito pro capite, a sua volta, era circa il 10% di quello medio dell’Unione Europea. Il divario non è solo nei confronti dell’Europa, ma è all’interno del bacino mediterraneo stesso. Forti squilibri tra i diversi Paesi delle rive meridionali e orientali (l’Algeria e la Libia crescono grazie all’esportazione degli idrocarburi; in Egitto e in Turchia, a causa del loro peso demografico, si concentra circa il 40% e il 65% del PIL, rispettivamente, del versante africano e asiatico del Mediterraneo) e persistenti tensioni politiche e religiose fanno di questo mare, soprattutto sul versante orientale, un’area di crisi permanente.

Il Mediterraneo è un mare di circolazione di merci, ma anche di importanti flussi migratori. Mentre la popolazione dell’arco latino è stagnante, lo sviluppo demografico dei Paesi nordafricani e mediorientali si mantiene intenso, con alti tassi di fecondità (tra il 2000 e il 2005, mentre nei Paesi mediterranei europei l’indice medio è stato dell’1,5, in quelli asiatici e africani è stato rispettivamente del 3,1 e del 2,7). Soprattutto le coste dell’Italia (Puglia e Sicilia in particolare) e della Spagna sono le destinazioni di transito dei flussi migratori. Un movimento costante, con provenienze diverse (anche esterne al bacino mediterraneo), destinato a intensificarsi nei prossimi anni, quando la popolazione del Mediterraneo, senza alcun apporto da parte dell’arco latino, passerà dagli 874,7 milioni del 2005 ai 995 del 2020. I sistemi urbani dell’arco latino, da Barcellona a Marsiglia a Genova, fino a quelli più deboli dell’Italia meridionale, negli scambi commerciali rimangono saldamente legati all’Europa, mentre lo sono soltanto parzialmente al Mediterraneo.

L’ampliamento dell’Unione Europea ai Paesi dell’area balcanica e la crescita di forme di partenariato con la Turchia (in vista di un suo inserimento nell’Unione), lo sviluppo degli interessi europei nel Medio Oriente, in Egitto, nei Paesi del Maghreb, e la costante crescita dell’importazione di materie prime energetiche, delineano uno scenario in evoluzione, certamente importante, ma non ancora prioritario per le strategie dell’Unione Europea, fortemente orientate a promuovere l’allargamento verso Est e a rafforzare i sistemi urbani del Centro-Nord. Del resto è sufficiente riferirsi allo Schema di sviluppo dello spazio europeo (SSSE), ai piani di investimento per le reti infrastrutturali transeuropee (Trans-European network transports, TEN-T) e alle visioni dell’European spatial planning (ESP), per avere la misura, anche a livello di rappresentazione cartografica delle strategie territoriali, della perifericità del Mediterraneo. La cosiddetta Blue banana, che estendendosi da Londra a Milano interseca l’arco latino, individuando nell’alto Tirreno la parte terminale del grande sistema urbano europeo, è forse ancora oggi la rappresentazione più efficace del divario tra il Nord e le regioni euromediterranee. Il Corridoio n° 5 dei TEN-T, che attraversa trasversalmente l’Italia al di sotto delle Alpi, segna una sorta di spartiacque tra due differenti geografie. Più recentemente, nella prospettiva di potenziare le relazioni transnazionali, l’Unione Europea ha promosso programmi di sviluppo e visioni spaziali che coinvolgono più direttamente il bacino mediterraneo (si tratta dei programmi Interreg IIIB MEDOCC e, in particolare, dei progetti Archimed, CADSES e Western Mediterranean).

Nella revisione delle modalità di programmazione dei fondi europei destinati a tali programmi per il periodo 2007-2013, l’orientamento a sviluppare una strategia unitaria per l’affermazione di una regione euromediterranea sembra essersi fortemente ridimensionato. Le strategie di coesione si sono infatti differenziate, concentrando il loro interesse sull’area adriatico-balcanica e sulla Turchia. L’allargamento dell’Europa a 27 Paesi ha indubbiamente marginalizzato il Sud del continente e l’area mediterranea.

Il Mediterraneo sembra allontanarsi dall’Europa: è il divario infrastrutturale tra il Nord e il Sud a confermarlo. Al di sotto delle Alpi, il Corridoio trasversale n° 8, verso la Grecia, i Balcani e il Mar Nero, procede con estrema lentezza, mentre i corridoi longitudinali, lungo il Tirreno e l’Adriatico, che avrebbero dovuto connettere il Mediterraneo del Nord con quello del Sud, sono per lunghi tratti inefficienti e discontinui.

L’immagine di un’Europa dai contorni deformati, dalla diversa velocità delle tratte ferroviarie e autostradali, mostra una penisola italiana sempre più allungata e un Mediterraneo sempre più lontano. Eppure proprio il Mediterraneo, come grande via d’acqua di collegamento delle rotte oceaniche, può rappresentare oggi lo scenario in cui è possibile promuovere la riorganizzazione dei sistemi urbani e il riscatto delle economie locali del Sud. La dimensione globale e planetaria dei flussi marittimi del Mediterraneo potrebbe innescare una profonda riorganizzazione delle città portuali del Mezzogiorno d’Italia, aprendo il loro localismo verso le economie delle città-porto delle rive meridionali e orientali, ma anche, e con maggiore prospettiva, verso quelle più solide e in espansione dell’Estremo Oriente (tra il 1995 e il 2004, Cina, India e Giappone hanno accresciuto la loro quota sul commercio mondiale dal 10,3% al 12,2%). La crescita del traffico marittimo mondiale trova nel Mediterraneo una via obbligata. È questa la ragione dello sviluppo recente della portualità mediterranea e della sua ripresa nei confronti dei grandi porti dell’Europa settentrionale. Nel quinquennio 2000-2005 il traffico merci è aumentato nell’Unione Europea del 10,7% (da circa 3 miliardi di t a 3,3), con una crescita nei Paesi mediterranei del 13,3%, contro il 9,9% dei Paesi del Nord.

Nel 2010 il traffico container nei porti dovrebbe raggiungere i 105,9 milioni di TEU (Twenty-foot Equivalent Unit; +42,7% rispetto al 2004), suddivisi in 56,3 milioni nel Nord Europa e 49,6 milioni nel Sud Europa. Lo scenario è quindi largamente positivo, e la domanda di traffico marittimo nel Mediterraneo dovrebbe continuare a crescere nei prossimi anni con un tasso annuo del 6%. In tale nuovo contesto, i porti italiani maggiori hanno reagito in una prima fase in modo positivo. Il porto di Gioia Tauro, realizzato negli anni Settanta come scalo al servizio di un polo siderurgico mai attuato, da grande fallimento è divenuto negli anni Novanta, grazie alla sua ampiezza, ai suoi fondali profondi e all’intervento di un grande gruppo imprenditoriale della logistica, la Contship, il più grande porto del transhipment mediterraneo.

Nel 2000 i porti italiani riuscivano a intercettare il 50% del traffico container destinato ai mercati europei. Negli anni più recenti il quadro è cambiato rapidamente. Nel 2005 la quota del traffico container movimentato dai porti italiani è scesa al 43%, mentre Gioia Tauro ha ceduto il suo primato ad Algeciras. Non solo la portualità spagnola avanza più rapidamente di quella italiana, ma in tutti i maggiori porti del Mediterraneo, da Porto Said a Damietta, dal Pireo a Malta, sono in atto imponenti processi di ristrutturazione e ampliamento. A Tangeri, appena dopo Gibilterra, è in costruzione un porto transhipment in grado di competere in pochi anni con la vicina Algeciras.

Si ha l’impressione che in Italia non si siano comprese appieno le opportunità economiche e territoriali legate alla portualità. Sono mancati adeguati investimenti non solo nelle infrastrutture portuali, ma anche nelle reti autostradali e ferroviarie, negli interporti e nelle piattaforme logistiche. Mentre in Spagna è stata avviata negli ultimi anni una politica nazionale tesa a costituire sistemi portuali integrati (è in via di realizzazione una rete ferroviaria dedicata da Algeciras a Perpignan in Francia), in Italia si è incredibilmente fermi. In realtà proprio i porti, per il crescente traffico marittimo nel Mediterraneo, potrebbero costituire i nodi su cui riorganizzare i sistemi urbani di molte aree costiere. Il porto come centralità urbana e territoriale (i porti italiani sono per la maggior parte inglobati nelle città) e come piattaforma per il rilancio dell’economia locale, dal turismo al commercio al settore industriale, è una prospettiva del tutto trascurata.

In Italia, i grandi hubs del transhipment si trovano nel Mezzogiorno (Gioia Tauro, Taranto, Cagliari): qui avviene il trasbordo dei container sulle navi feeder per il loro smistamento nei porti tirrenici e adriatici. Le merci vengono trasferite senza nessun rapporto con il territorio locale. Proprio intorno ai grandi porti-hub occorrerebbe invece realizzare delle aree industriali per l’elaborazione dei prodotti e dei semilavorati trasportati via mare. I porti maggiori potrebbero divenire nodi di scambio con le realtà locali attraverso la realizzazione di piattaforme logistiche e distretti produttivi, zone franche e waterfronts integrati alla città. Il trend positivo del traffico marittimo nel Mediterraneo consentirebbe il rilancio delle aree portuali italiane anche in questa direzione. In fondo, nel Mediterraneo coesistono due dimensioni, due identità: una locale, legata ai luoghi e alla cultura di un mare antico, e una globale, che dilata il nostro mare verso economie e culture lontanissime. Oggi è la dimensione globale che domina, ed è proprio rispetto a essa che i nostri sistemi urbani e portuali dovrebbero aprirsi.

Territori al futuro

Dal 2004 il DICOTER (Direzione generale per lo sviluppo del territorio, in passato Direzione del Coordinamento Territoriale), organismo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha tentato a più riprese di legare la pianificazione degli investimenti per le opere infrastrutturali e le reti insediative ai programmi per lo sviluppo economico del Paese nell’ottica delle nuove linee delle politiche di coesione europee. Il tentativo di coordinare le scelte del Ministero per lo Sviluppo economico con quelle del Ministero delle Infrastrutture rispondeva all’esigenza di programmare e valutare gli effetti territoriali degli investimenti coerentemente con il futuro assetto del Paese. Il risultato di maggior rilievo in questa direzione è rappresentato dal rapporto del Ministero delle Infrastrutture e del DICOTER intitolato Reti e territori al futuro, presentato nel febbraio 2007. Il documento fa esplicito riferimento al Progetto ’80, che il Ministero del Bilancio e della Programmazione economica aveva promosso nel 1968, in vista del piano quinquennale degli investimenti 1971-1975. Il Progetto ’80 aveva un forte contenuto ideologico e culturale ed esprimeva in pieno la tensione riformista di uomini come Antonio Giolitti (ministro) e Giorgio Ruffolo (segretario generale dell’ISPE, Istituto di Studi per la Programmazione Economica). Pur tenendo in considerazione i suoi limiti, ha avuto il merito di imporre alla politica una riflessione critica sulla stretta interrelazione tra lo sviluppo economico e lo sviluppo territoriale. In quella occasione, per la prima volta gli investimenti infrastrutturali venivano correlati alla formazione dei sistemi urbani in una prospettiva di consolidamento delle realtà locali più forti nel Centro-Nord e di riequilibrio di quelle più deboli nel Meridione.

Il Progetto ’80 poneva tra gli obiettivi prioritari il superamento del divario tra Nord e Sud: per questo prevalevano le direttrici di sviluppo longitudinali, rispetto a quelle trasversali, e per questo, a ben guardare, la proposta del nuovo assetto territoriale si configurava come uno schema chiuso, tutto interno alle dinamiche regionali, piuttosto che aperto verso il continente europeo e il bacino del Mediterraneo. Il Progetto ’80 è stato un episodio isolato; nei decenni successivi si è fortemente radicata nel Paese una pratica operativa che separava la programmazione economica da quella infrastrutturale e urbanistica.

Il citato documento Reti e territori al futuro ha ri-proposto con forza l’esigenza di superare tale frattura, in un momento di grave ritardo del Paese nei confronti della maggiore competitività e della più avanzata infrastrutturazione ed efficienza urbana delle regioni più industrializzate dell’Unione Europea. Il documento è calato fortemente nello scenario europeo, da cui trae le linee guida per il riordino e la coesione delle reti infrastrutturali, produttive e insediative. Allo stesso modo del Progetto ‘80, il documento propone uno sguardo tecnico, ma mentre il primo riuscì a suscitare all’interno del sistema politico una forte tensione ideologica, il secondo non ha ricevuto il necessario consenso da parte dei ministeri interessati. Nonostante questo limite, che fa del documento più un’operazione tecnocratica che un vero strumento di indirizzo delle politiche economiche e infrastrutturali, tuttavia le ricerche sviluppate dal DICOTER costituiscono un quadro conoscitivo e un riferimento istituzionale di indubbio interesse.

Nel documento, il territorio è visto come una stratificazione di flussi e di reti, di ambienti insediativi locali classificati in relazione ai loro caratteri identitari e al loro livello di competitività, di direttrici di sviluppo, di piattaforme strategiche, i cui telai infrastrutturali aprono il sistema insediativo urbano verso relazioni interregionali e transnazionali. Le identità degli ambienti insediativi locali, le loro risorse culturali e produttive, le loro reti di attori vengono attraversate e trasformate da flussi di merci, persone, relazioni, informazioni, che possono essere di corto raggio o su scala internazionale. Le diverse intensità dei flussi e delle reti infrastrutturali trasformano e sviluppano le identità locali; nello stesso tempo le infrastrutture producono progetti di territorio finalizzati a rendere i sistemi urbani più coesi, più attrezzati, più competitivi.

È questa attenzione al locale e nello stesso tempo alla dimensione transnazionale che porta il documento a enfatizzare il ruolo di una governance orizzontale dei diversi momenti decisionali, di una sussidiarietà virtuosa tra i molteplici livelli istituzionali. Spetta al nuovo sistema infrastrutturale connettersi alle reti europee e alle aree transnazionali, innervando i territori attraversati. Sono individuate in tal modo le direttrici di sviluppo, i territori snodo e le piattaforme strategiche. Queste ultime danno efficienza logistica e struttura a estesi territori, aumentandone la massa critica nel confronto competitivo con le aree forti d’Europa. I programmi di potenziamento delle reti infrastrutturali dovrebbero, secondo la prospettiva tracciata dal documento, sostenere lo sviluppo dei distretti produttivi, promuovere una pluralità di progetti di territorio in cui sviluppare l’esperienza acquisita dai programmi complessi avviati negli ultimi 15 anni dal Ministero delle Infrastrutture. Accanto ai programmi complessi, per così dire tradizionali, il documento colloca, per il loro rilievo, i piani, i progetti, gli studi di fattibilità e gli investimenti in opere finanziati dal CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) e dall’Unione Europea. Nella nuova progettualità, un ruolo strategico viene assegnato ai corridoi infrastrutturali, ai nodi della mobilità, alle aree transnazionali individuate dai programmi europei interregionali. Emerge in questa prospettiva una strategia articolata per assi di sviluppo e piattaforme strategiche di diversa intensità relazionale (dal livello interregionale a quello transnazionale) con una pluralità di territori-snodo localizzati nelle intersezioni delle reti infrastrutturali.

Tali piattaforme strategiche intercettano le aree più vitali del Paese da Nord a Sud: quella del Corridoio n° 5-Ovest e del Corridoio n° 5-Est, che comprendono da un lato i territori del Piemonte e della Liguria, dall’altro il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia, entrambi determinanti per aprire le regioni italiane verso l’Europa occidentale e orientale; il Corridoio dei due mari, che rafforza le connessioni tra Genova e Rotterdam; l’asse Tirreno-Brennero, che sottolinea il ruolo strutturale dei collegamenti tra La Spezia, il Brennero e l’Europa centrale; la piattaforma dell’Arno e quella romagnolo-adriatica, per la riorganizzazione delle aree produttive tra Livorno e Firenze e quelle comprese tra Modena, Bologna, Ferrara e Ravenna; le piattaforme trasversali del Tirreno-Adriatico, quella che propone una forte connessione tra i nodi di Civitavecchia e la portualità adriatica, e quella più a Sud, tra Napoli e Bari; la piattaforma adriatica sud-orientale, che connette trasversalmente la Campania, la Basilicata e la Puglia con il Corridoio n° 8; la piattaforma tirrenica-ionica, come terminale del Corridoio n° 1 che da Berlino si estende fino a Palermo. Lungo la dorsale appenninica sono individuate due piattaforme di rilevanza interregionale: la prima tra l’Umbria e il Molise, la seconda tra la Campania e il Metapontino. Il quadro territoriale che ne deriva è di grande complessità: nonostante l’impostazione selettiva (basata sul riconoscimento degli ambienti insediativi locali più dinamici), le azioni e gli investimenti previsti si distribuiscono diffusamente sul territorio, perseguendo il difficile obiettivo di realizzare un assetto territoriale reticolare strutturato su una pluralità di sistemi urbani.

Per l’estensione del programma, la proiezione temporale al 2020 individua un intervallo oggettivamente breve. Emerge chiaramente la consapevolezza che occorre far presto, per riallineare il Paese sui livelli medi europei di infrastrutturazione, efficienza e competitività. Il riferimento a una governance virtuosa, in grado di coinvolgere, attraverso accordi di programma-quadro, Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, il ricorso a complessi processi di compartecipazione pubblico-privato non trovano tuttavia riscontro nella realtà operativa del Paese. La govern-ance orizzontale è ostacolata dall’inerzia e dalla vischiosità della macchina burocratica, dagli alti costi dell’apparato politico, da un sistema normativo esuberante e contraddittorio, dall’estensione del potere dei veti locali. Iter decisionali e di approvazione complessi e di lungo termine hanno reso finora problematica l’attuazione dei programmi nei tempi previsti. Solo recentemente il successo dell’Osservatorio ambientale per il Treno ad alta velocità (TAV) in Val di Susa sembra indicare nuove modalità operative per la condivisione delle scelte progettuali.

L’obiettivo di infastrutturare il territorio per aumentarne la coesione e la competitività si scontra con una condizione persistente di stagnazione economica e di bassa produttività, con un’estrema scarsità di risorse pubbliche, con alti costi attuativi, con sprechi, errori, ritardi abnormi che minano nel profondo l’operatività del disegno tracciato dal documento. È sufficiente riferirsi ai ritardi e ai costi della legge Obiettivo (21 dic. 2001 n. 443) per la realizzazione, nell’arco di un decennio, delle opere infrastrutturali ritenute prioritarie e necessarie per la modernizzazione del Paese, per avere la misura delle difficoltà operative del programma delineato dal DICOTER. A fronte di un costo previsto di 125,9 miliardi di euro nel 2001, i costi della legge Obiettivo sono lievitati a 264 miliardi nel 2005; il numero delle opere è aumentato da 117 a 235, ma la loro ultimazione è pressoché irrilevante (solo lo 0,01%). Risorse adeguate, tempestività attuativa, efficienza decisionale, coesione degli operatori pubblici e privati, sono condizioni necessarie, ma difficilmente attuabili nel breve-medio periodo. Per questo il documento Reti e territori al futuro è, forse più del Progetto ’80, un’utopia, uno scenario per il futuro, affascinante, auspicabile, ma di difficile attuazione. Come il Progetto ’80 sembra, tuttavia, destinato a orientare a lungo il dibattito e l’attività di pianificazione.

Reti contro

Il territorio appare sempre più come un intreccio di flussi, non un sistema ordinato, ma un groviglio di reti diverse, separate, inefficienti, contraddittorie, sconnesse. La nozione di rete è in ogni caso ancora fertile. Il livello di competitività dei territori e dei sistemi urbani si misura attraverso la qualità, la densità e il grado di efficienza delle reti; per questo il piano e il progetto perseguono la loro integrazione e continuità. Nonostante il disordine e l’insufficienza delle reti, nonostante il degrado dell’ambiente e la congestione urbana, la città diffusa e le grandi aree metropolitane crescono ancora.

Questa capacità delle città di resistere e di svilupparsi comunque porta ad assimilare la rete urbana a una rete biologica, a un organismo vivente. Un tale riferimento sta a significare quanto radicato sia il convincimento che la realtà urbana, per la sua inesauribile vitalità, possa riprodursi di continuo. La città appare come un organismo in continua evoluzione, che continua le sue metamorfosi, una great coral reef, come la definì nel 1915 il pioniere dell’urbanistica Patrick Geddes (Cities in evolution, p. 26).

I sistemi urbani come forme dinamiche sono stati fino a oggi in grado di assimilare ogni cosa, dalla stratificazione della storia all’espansione delle periferie, alle recenti trasformazioni dell’economia globale, che con le sue reti immateriali ha rotto definitivamente i limiti della dimensione territoriale. Le città, come aree centrali, fanno parte di una rete instabile. Le reti che le attraversano e legano si infittiscono, si sovrappongono, si intersecano, in un intrico di relazioni e di connessioni contraddittorie.

Il sistema urbano, caratterizzato nella sua realtà fisica e nella sua morfologia sociale da una moltitudine di soggetti, è oggi un labirinto in cui dominano ancora i processi lenti di trasformazione, in cui le derive appaiono più evidenti dei cambiamenti e delle innovazioni. Nella dimensione locale ha ancora senso parlare di spazio, di distanza, di centralità, di indicatori della crescita e dello sviluppo. Nella dimensione globale della città possiamo cogliere contemporaneamente, invece, una molteplicità di scale diverse. In tal modo la città globale è senza tempo e senza centro, ed è proprio questa assenza di riferimenti spaziali e temporali a farne un labirinto.

È solo con questa consapevolezza che possiamo continuare a parlare di sistemi urbani. La loro nuova realtà risulta dalla compresenza della dimensione locale con quella globale, dal loro intreccio. In tale nuovo contesto è ancora possibile confidare nell’inesauribile vitalità delle reti urbane, nella loro capacità di riprodursi come un organismo vivente? Come nel sistema biologico, anche nel territorio sono presenti reti positive e negative, anticorpi e virus aggressivi. Come un organismo malato, il territorio è oggi prossimo al collasso. Reti infrastrutturali insufficienti, un ambiente inquinato e compromesso sul piano idrogeologico, il rischio paesaggio e la congestione urbana, il costo crescente dell’energia, l’esaurimento delle falde idriche, il difficile smaltimento dei rifiuti delineano infatti scenari oscuri e minacciosi.

Il precario equilibrio su cui poggia l’intreccio delle reti urbane può dissolversi a causa del numero crescente di reti in crisi. Il sistema infrastrutturale stradale non è più sufficiente; in particolare, le reti viarie minori che strutturano la città diffusa sopportano carichi di flusso che eccedono la loro capacità. I flussi premono sulle reti stradali, producendo vischiosità e strozzature che rischiano di far collassare il sistema.

Occorrono nuove grandi infrastrutture autostradali e un più equilibrato rapporto tra le reti maggiori e quelle minori. Ma non basta: quote crescenti di traffico dovranno essere trasferite su ferro e via mare. Gli investimenti necessari vanno enormemente oltre le previsioni del Documento di programmazione economica e finanziaria per il periodo 2008-2012 (gli investimenti programmati ammontano a 109 miliardi di euro). Il Paese è minato da reti edilizie abusive che oltraggiano le coste, aumentano la congestione delle città, in particolare quelle meridionali, incrementando l’inquinamento dei suoli. Dal 2000 al 2006 sono stati costruiti 193.000 edifici abusivi, oltre l’11% del totale.

Le fonti e le reti energetiche sono insufficienti (nel 2004 in Italia veniva importato, secondo i dati Eurostat, l’84,5% del fabbisogno di energia). Non solo mancano investimenti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili e del risparmio dei consumi, ma anche concreti programmi per la realizzazione delle infrastrutture necessarie per la diversificazione delle forniture. In particolare, le opere per l’ampliamento dei rifornimenti del gas (gasdotti e rigassificatori) procedono con difficoltà e lentezza. Nel breve periodo, per il problema energetico non ci sono soluzioni. Lo scenario più attendibile si basa su un assetto delle produzioni di energia molto variegato, dal nucleare al fotovoltaico, al solare, all’eolico, alle biomasse, all’idrogeno, alla razionalizzazione dei sistemi di combustione delle centrali termiche, alla diffusione dei produttori autonomi, all’autosufficienza dei sistemi insediativi. Uno scenario complesso, che fin d’ora esige interventi di programmazione, determinazione e una nuova capacità di integrare le reti e le fonti energetiche al paesaggio e ai sistemi urbani.

Carlo Cattaneo, agli albori della modernizzazione del Paese, esaltava con orgoglio l’efficienza idraulica della Lombardia; oggi il controllo del regime dei fiumi, il problema dell’inquinamento delle falde idriche, del drenaggio delle acque meteoriche, l’efficienza degli impianti di depurazione sono questioni aperte. Il controllo complessivo del ciclo dell’acqua non è ancora una linea d’intervento prioritaria nelle politiche urbanistiche e di risanamento ambientale. Gran parte del Paese, e non solo Napoli, rischia di essere sommersa dai rifiuti. Le reti per il loro smaltimento e il loro riciclaggio sono sempre più determinanti per l’equilibrio e la salute del territorio. Fino a ieri la città è sempre stata il risultato di un ciclo in cui costruzione e demolizione, consumo e produzione di scarti, accumulazione e riciclo dei rifiuti, distruzione e recupero erano fortemente interrelati. Oggi tale equilibrio sembra essersi ridotto e, in alcune regioni, sembra entrato in crisi profonda. Le aree idonee per le discariche si sono esaurite, molte di esse sono illegali e inquinate. In un territorio diffusamente urbanizzato, non c’è più spazio per nuovi siti in cui accumulare i rifiuti crescenti della produzione e del consumo (ogni giorno in Italia si producono oltre 30 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani). La soluzione è legata al contenimento dei consumi, al recupero dei materiali riciclabili e all’impiego dei rifiuti come combustibile per produrre energia. Non più i tradizionali inceneritori in cui riversare il pattume indifferenziato con l’esito di produrre polveri e fumi nocivi, ma nuovi inceneritori più efficienti alimentati da scarti ad alto contenuto calorico. In Italia, il termovalorizzatore di Brescia, ubicato nel centro abitato, è un buon esempio: bruciando 1600 t di rifiuti al giorno consente di riscaldare 100.000 famiglie e di produrre 361 milioni di kW elettrici. Il termovalorizzatore si pone al termine di un ciclo industriale di raccolta e selezione dei rifiuti, è lo snodo conclusivo di una rete continua ed efficiente.

La prospettiva è tracciata, ma i ritardi sono enormi. Secondo i dati dell’APAT (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici), in Italia erano in funzione nel 2006 51 inceneritori, 43 dei quali nel Centro-Nord, ma è stato stimato che ne occorrerebbero almeno 100. Il contributo energetico dei rifiuti è tra i più bassi d’Europa (circa il 10%); non a caso la raccolta differenziata oscillava nel 2006 (sempre secondo i dati APAT) tra il 10,2% del Sud e il 39,9% del Nord. Per dare efficienza e continuità alla rete dei rifiuti occorre di conseguenza promuovere una vera rivoluzione culturale nei comportamenti e una nuova logistica dello scarto. All’interno della rete dei rifiuti, oscura, negletta, invisibile, si gioca la sopravvivenza e il riscatto del territorio.

La rete dei rifiuti è un virus aggressivo che infetta il territorio, è un paradigma che riassume in sé la negatività e la forza dirompente di tutte le reti contro. Il territorio come rete è a rischio. Per l’efficienza del suo funzionamento le reti devono concorrere tutte insieme all’equilibrio del sistema, altrimenti si innesca una crisi irreversibile. Ma non è solo l’assetto fisico e infrastrutturale del territorio a essere attraversato dalle reti contro: la sua crisi, la sua difficoltà a farsi soggetto di sviluppo dipendono anche, e fortemente, da nuove paure sociali, da un diffuso sentimento di insicurezza e di pericolo, dal rifiuto di confrontarsi con le realtà prodotte dall’immigrazione, dalla nuova povertà, dal disagio degli esclusi. Il territorio non produce più coesione sociale, le sue comunità si chiudono, si separano, richiedono misure di controllo e dispositivi per la sicurezza. Un territorio inefficiente e una comunità che non dialoga difficilmente potranno restituire al sistema la coesione e la fiducia necessarie per una nuova fase di sviluppo. È questo, in fondo, il nodo che bisognerà sciogliere nei prossimi anni: come reintegrare le reti contro, sia quelle infrastrutturali, sia quelle sociali e comportamentali.

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