I sestieri popolari

Storia di Venezia (2002)

I sestieri popolari

Alessandro Casellato

Il caso è di quelli che si dicono da manuale: un gruppo dirigente, coeso e influente, mette mano a una città e prova a ridarle forma secondo un progetto che, incubato per decenni, giunge a compimento tra gli anni Venti e Trenta, grazie al maturarsi congiunto di precondizioni locali e nazionali. Alla fine di quel ciclo, l’esponente più rappresentativo del gruppo veneziano, Giuseppe Volpi, ne ripercorre, con orgoglio e compiacimento, il disegno di fronte a una platea straniera:

È sorta così — per il concorso unanime dei veneziani e del Governo Fascista — una più animata costruzione di bellezza. La quale abbraccia due Venezie. Da una parte l’antica, la storica, l’immortale: quella che deve serbare per sempre inviolato il suo sacrario di monumenti e il suo museo vivo di splendori, fra l’incanto del cielo ed il murmure delle acque, eternamente cara ai fedeli della bellezza. E dall’altra parte, una Venezia nuova, protesa sui margini della laguna, intenta alacremente alle attività febbrili e mercantili; insomma una grande città industriale, solcata da profondi canali, percorsa da ampie strade, popolata da sonanti officine(1).

Obiettivo di questo saggio è vedere come quel progetto di una nuova Venezia, più grande e moderna, abbia fatto i conti con la città abitata, con le vite dei veneziani — e soprattutto della loro grande maggioranza, appartenente alle classi popolari — chiamati al più a fungere da spettatori, talvolta interessati e partecipi, spesso passivi, sofferenti o riluttanti, della grande trasformazione di quella che era la loro città.

I demiurghi della «più grande Venezia» dovevano cimentarsi non solo con un passato alto e ingombrante, che si era sedimentato in una sublime concrezione di monumenti e di memorie — la città di pietra e il suo mito postumo — certamente difficili da gestire in chiave moderna e attivistica, ma anche con un corpo vivo e non meno resistente ad essere manipolato, cioè con la presenza collettiva dei veneziani che in quella città avevano sviluppato una propria identità — fatta di cultura materiale, mestieri, pratiche dell’abitare, forme di socialità — che solo in parte poteva venire ricondotta alle mitologie colte della venezianità(2).

Nel corso dei primi due decenni del Novecento, anzi, quella Venezia plebea — la Venezia dei sestieri popolari, degli arsenalotti e delle impiraperle, la Venezia affollata e vociante nelle calli, nelle osterie e nelle migliaia di alloggi precari e insalubri, in affitto e in subaffitto —, quella Venezia plebea e tumultuante, che stava talvolta fisicamente fianco a fianco alla più celebrata, omonima, città patrizia e decadente, aveva trovato propri canali di espressione anche politica, dietro le insegne socialiste, marcando stretto e infastidendo non poco — anche nella gestione del potere — i concorrenti delle classi alte al governo della città(3).

Progettare una nuova Venezia — ridislocando in terraferma le strutture economiche e produttive, e procedendo insieme ad un restyling in chiave turistica e monumentale del centro storico — significava incidere in quel tessuto sociale fatto di un coacervo pressoché inestricabile di legami locali (il rapporto con un proprio pezzo di città, fisicamente determinato, e insieme con le trame familiari e di vicinato e con i mestieri che lo innervavano) che facilmente — sollecitati dal contesto — trascoloravano in più riconoscibili forme di appartenenza di classe e politica.

Dal ‘rosso’ al ‘nero’

Se la Grande guerra — con l’esodo di massa seguito a Caporetto, che svuota la città e sradica dalle isole lagunari più di centomila persone — sembra prefigurare la fragilità del «guscio-Venezia» per quella «gran parte degli appartenenti al ceto popolare [che] non avevano, per così dire, mai messo il naso fuori dalla città e talvolta persino dal sestiere»(4), è lo squadrismo fascista a farsi carico, nell’immediato dopoguerra, di portare a fondo l’attacco ai grumi montanti di venezianità dissidente che nei sestieri si annidavano e che avevano trovato rappresentanza nelle sedi del movimento operaio e socialista. Così ricorda Girolamo Li Causi quella ‘sua’ Venezia nel primo anno dopo la guerra:

Anche a Venezia, a causa della mancanza di derrate alimentari, la folla prendeva d’assalto i negozi e a un determinato momento furono gli stessi bottegai che venivano a consegnare le chiavi dei loro negozi alla Camera del lavoro, onde le derrate venissero distribuite alla popolazione dai sindacalisti. Per circa un mese l’esperimento andò avanti con esito abbastanza positivo, pur tra comprensibili incertezze ed errori. Fu possibile ottenere una certa disciplina grazie alla presenza dei dirigenti socialisti delle leghe, che erano conosciuti ed apprezzati perché, in una città come Venezia, nei sestieri ci si conosce tutti e di tutti si sanno meriti e difetti; in questo modo si riuscì a soddisfare i bisogni più impellenti della popolazione, regolando la distribuzione di quel poco che si poteva requisire o avere dalle botteghe(5).

Lo squadrismo mirerà presto alla rottura di simili trame di socialità e solidarietà politica a carattere sovversivo: non solo colpirà i leaders dei partiti antagonisti, non solo distruggerà le sedi politiche e sindacali, ma si proporrà anche di intaccare quella sorta di autarchia dissidente a base territoriale che gli stessi fascisti epidermicamente percepivano e con altre parole descrivevano:

A Santa Margherita ‘La Repubblica’ come viene chiamato il bolscevico quartiere, quotidianamente si debbono registrare imboscate, violenze, sopraffazioni. La Camera del Lavoro è vicina ed inoltre i due caffè situati nel campo e la trattoria ‘Capon’ sono il ricettacolo della delinquenza rossa. Cannaregio, Castello e Dorsoduro, sono i tre quartieri della città più intossicati dal bolscevismo, il teatro delle coraggiose gesta della teppaglia rossa. E nonostante le continue e sistematiche incursioni delle squadre d’azione, la vita dei fascisti che vi abitano è ben dura e difficile. Data anche la particolare struttura della città che si presta come nessuna altra, alle imboscate ed agli agguati, non è cosa facile per lo squadrista, generalmente bene conosciuto, raggiungere le viuzze di Castello, di Cannaregio e le calli vicine alla Camera del Lavoro, senza fare pericolosi incontri o peggio ancora senza udirsi fischiare all’orecchio qualche colpo di rivoltella(6).

Le cronache di quegli anni restituiscono le dinamiche della conflittualità di strada, la contesa dello spazio urbano nella quale i fascisti giocano all’attacco, in un crescendo di trasgressioni anche territoriali che li porta a violare, una dopo l’altra, le frontiere interne alla città, in una sorta di piano di riconquista di Venezia e dei veneziani. Le ripetute provocazioni in via Garibaldi, con il pretesto dell’omaggio patriottico al monumento dell’eroe; le scritte notturne tracciate dai fascisti nei sestieri popolari alla vigilia delle elezioni del 1920; le ronde serali di perlustrazione del territorio; gli attacchi ai ritrovi spontanei della sociabilità sovversiva; la guerra per bande che si combatte con i «rossi», aspettandosi e inseguendosi tra calli e sottoporteghi, finiscono per mettere in crisi il senso di sicurezza, di protezione, che la comunità di vicinato era riuscita a garantire anche sul piano politico.

Con il 1921, tuttavia, quelle forme di identità collettiva cominciano a subire non solo un attacco proveniente dall’esterno — da parte di chi, cioè, a livello popolare è sentito istintivamente come antagonista politico e di classe: studenti, ufficiali, ginnasti, uomini del ceto medio che rappresentano la base sociale del primo fascismo —, ma sono interessate anche da una sorta di sfaldamento al loro interno che intorbidisce i confini e rende — per così dire — meno netta la percezione della distanza tra il «noi» ed il «loro».

Nell’autunno del ’21, sulla scena pubblica veneziana compare una nuova associazione dal nome tenebroso — i Cavalieri della morte — formata da fascisti dissidenti guidati da un ras di grande esperienza, importato dal Friuli, come Gino Covre, ma tuttavia capace di reclutare i propri militanti soprattutto tra i giovani e giovanissimi del proletariato urbano, attratti dal fascino dell’azione diretta, dallo spirito di squadra (la divisa con camicia nera ornata di un grande teschio bianco) e da certo ribellismo con venature classiste e insieme antisindacali (gli espropri in negozi e in trattorie, la protezione agli sfrattati, ai disoccupati e ai lavoratori precari legati al sottobosco dell’«industria del forestiero»). Muovendosi ai confini tra microcriminalità e radicalismo politico, i Cavalieri della morte riescono ad intercettare culture, umori e aspirazioni dei ceti marginali e finiscono per trovare cittadinanza all’interno degli ambienti più popolari della città, attirando nella loro orbita anche gruppi che fino ad allora avevano gravitato attorno al partito socialista — e comunista, dopo la scissione — e che ora, a metà del 1922, possono trovarsi a loro agio, scamiciati e tatuati, ai tavoli di un’osteria in via Garibaldi, nel cuore di Castello, a bere e cantare inni di guerra e patriottici (7).

È il sintomo di una più vasta crisi che coinvolge — anche sul piano sindacale — la rappresentanza socialista delle classi lavoratrici cittadine: le azioni squadriste contro le sedi del movimento operaio nel corso del 1921 e del 1922, se trovano sempre una energica e organizzata resistenza popolare, contribuiscono però ad incrinare la compattezza — spesso corporativa, quindi particolarmente esposta in una situazione di elevata disoccupazione — delle organizzazioni sindacali rosse, già attraversate dalla spaccatura tra socialisti e comunisti e insieme sottoposte alla pressione del concorrenziale proselitismo fascista, che fa leva proprio sulle categorie sindacalmente meno tutelate dei lavoratori (avventizi del porto, disoccupati).

Durante il 1922 si assiste ad un rapidissimo viraggio dal rosso al nero di alcuni pilastri del socialismo veneziano, come le associazioni dei ferrovieri e dei portuali(8). In aprile, nella ‘rossa’ Murano — l’isola dei vetrai(9) — l’intera sezione socialista passa al Fascio(10). Pochi mesi dopo, anche «Il Secolo Nuovo» — il settimanale dei socialisti veneziani — attacca quei «disertori» che «hanno gettato la bandiera rossa per vestire la camicia nera»(11).

Crollano le iscrizioni e la partecipazione alla Camera del lavoro. Il 1° settembre il cuore simbolico del socialismo veneziano, dopo essere stato per mesi difeso con successo dai ripetuti attacchi squadristi, ospita un controverso dibattito tra comunisti e fascisti. Due settimane dopo la Cooperativa Casa del popolo è sciolta e liquidata per volontà degli stessi dirigenti sindacali; il fascista Giuriati, per spregio, chiede al prefetto che «la Casa del Popolo, tenuta presente la crisi degli alloggi, sia adibita ad abitazione operaia»(12). Finalmente espugnata anche fisicamente da una colonna di fascisti all’indomani della Marcia su Roma, essa finirà per ospitare, dalla fine del 1922, la sede della Confederazione dei sindacati fascisti(13).

Seguirà, come nel resto d’Italia, la repressione mirata che allontana anche fisicamente i leaders popolari dagli ambienti sociali di cui erano espressione: Anita Mezzalira, la capofila delle «tabacchine», è arrestata nel ’23; «forse gioverebbe di più un suo trasloco fuori di Venezia [scrive il direttore dello stabilimento], fuori del suo ambiente perderebbe ogni importanza»; due anni dopo verrà espulsa dalla Manifattura e consegnata al controllo della polizia(14). Igino Borin, leader dei portuali, segretario della federazione socialista e poi comunista, è arrestato una prima volta nel ’23, condannato definitivamente dal Tribunale speciale nel 1927 e quindi ridotto al confino dal 1936 alla caduta del regime(15). Sorte analoga per Arturo Brustolon, falegname, segretario della Lega dei lavoranti in legno, il quale, dopo un primo arresto sempre nel ’23, tenta la riorganizzazione sindacale tra «la maggior parte dei lavoranti in legno, che il Brustolon non ha mai abbandonati né scompaginati», per finire condannato al confino per cinque anni nel novembre 1926(16). E poi, chirurgiche perquisizioni ed epurazioni dei «pochi caporioni» e degli «elementi deleteri» annidati tra i ferrovieri ed i portuali, le quali, insieme alla «emigrazione [testimonia una relazione comunista del 1926] di molti compagni a causa della reazione e della mancanza di lavoro», assottigliano progressivamente la presenza organizzata dei ‘sovversivi’ all’interno della città(17).

Educare i veneziani alla venezianità

Il fascismo agisce come una sorta di grimaldello nei confronti di quella magmatica cultura sovversiva espressa dalle classi popolari veneziane: ne scardina le impalcature tramite l’azione diretta e violenta ma opera congiuntamente anche un tentativo di penetrazione e riconversione politica di quegli ambienti alla causa nazional-fascista. A gestire questa duplice strategia è il Fascio veneziano che — dietro al suo leader Piero Marsich — raccoglie uomini di estrazione piccolo-borghese e di cultura radical-democratica, prima interventisti e poi dannunziani, e vagheggia una rivoluzione insieme antisocialista e anticapitalistica. Si tratta di un ceto legato per molti aspetti alla tradizione risorgimentale veneziana, il quale ha però sofferto negli ultimi decenni la crescente autonomia politica delle classi popolari cittadine che dalla fine dell’Ottocento — con l’affermarsi del socialismo — sfuggono ai vecchi canali di controllo e mediazione di tipo notabilare e paternalistico(18). Il modello a cui guardare — per i fascisti veneziani — è la ‘rivoluzione’ di Daniele Manin, alla quale il popolo sia sì chiamato a partecipare attivamente, ma sempre in posizione subalterna, sotto la ferma guida di un capo che conduce e controlla(19). Marsich teorizza l’attacco frontale alle organizzazioni di classe non per farne un deserto, ma quale presupposto per la fondazione di un nuovo sindacalismo, nazionale e corporativo.

Il fascismo ‘d’azione’ finisce per entrare in conflitto con le componenti più moderate della società veneziana, intimorite non solo dalle puntate antiparlamentari e anticapitalistiche di Marsich, ma anche infastidite dal clima di diffusa violenza urbana che ne pregiudica gli interessi commerciali e turistici. Già nel giugno del 1922 il Fascio veneziano viene normalizzato e ricondotto ad una politica più moderata, in sintonia con il quadro nazionale e con gli interessi strategici degli ambienti del nuovo capitalismo veneziano — rappresentati da Giuseppe Volpi — che nel fascismo avevano trovato un efficace strumento di governo a sostegno della propria strategia industriale(20).

All’interno del partito, tuttavia, la sostanziale egemonia politica di Volpi convisse — almeno fino a metà degli anni Trenta(21) — con la presenza attiva di ampie componenti legate alla matrice originaria, dannunziana, del fascismo veneziano, e raccolte attorno al loro esponente più rappresentativo, Giovanni Giuriati. È ancora a quegli uomini della prima ora, alla loro esperienza politica e alle loro velleità populistiche e pedagogiche, che i gruppi dirigenti implicitamente delegano la gestione del rapporto con le classi popolari, che erano state appena mondate da pericolose resistenze e concorrenze politiche e di cui ora si poteva tentare di pilotare l’integrazione nella nuova Venezia in costruzione.

In particolare, i sindacati fascisti furono costretti a far fronte ai costi della ristrutturazione industriale (il ridimensionamento dell’Arsenale militare, del Cotonificio e delle altre industrie cantieristiche, meccaniche e del vetro) e poi anche della crisi economica degli anni Trenta. La vasta disoccupazione nel centro storico (che passò dalle 4.239 unità nel 1926 alle 13.172 nel 1931) non veniva che in minima parte assorbita dal nuovo polo industriale di Marghera, per il quale si preferiva di gran lunga (oltre il 90%) la più docile e flessibile forza lavoro reclutata tra i ceti rurali dell’entroterra. Questa situazione accentuava da una parte le chiusure corporative degli occupati («Il fatto notevole è però lo spirito che ormai anima le maestranze portuali. I lavoratori hanno corrisposto in ogni circostanza alle esigenze del lavoro con disciplina, assiduità e capacità tecnica»(22)) e alimentava, nei disoccupati, il risentimento nei confronti della manodopera rurale(23).

I sindacati fascisti e gli esponenti politici legati a Giuriati, come il segretario del Partito Nazionale Fascista Giorgio Suppiej e gli onorevoli Vittorio Umberto Fantucci e Iginio Maria Magrini, entrarono per questo in conflitto con Volpi ed il suo gruppo, accusati di non tutelare sufficientemente gli interessi commerciali, industriali e marinari del centro storico, ma non riuscirono mai ad influire sulle vere leve di comando. La loro vis polemica finì per indirizzarsi così verso l’anello più debole del meccanismo sociale messo in piedi da Volpi, cioè contro «il cenerentolo dei campi», il lavoratore rurale avventizio che gira a òpare e si adatta ai lavori più faticosi(24). Le posizioni «neoinsulari» di Giuriati e del suo entourage (ostili, significativamente, anche alla costruzione del ponte automobilistico, all’immigrazione dalle campagne e, più in generale, alla politica di espansione in terraferma che costringeva i veneziani a «fare dietro front» e separava Venezia «dalla sua più grande sorgente di vita e di ricchezza, dal mare»(25)) fomentavano ad arte tentazioni isolazionistiche e umori anticampagnoli che allignavano da tempo nella cultura delle stesse classi popolari veneziane e che l’attuale competizione per scarse risorse occupazionali aveva riattivato. In tale contesto, il ‘localismo’ virtuoso e progressivo, che era stato capace nei sestieri popolari di integrare vari strati fluttuanti di immigrati, fornendo loro un comune codice di autoriconoscimento sia comunitario che politico(26), si volgeva ora a elemento di discriminazione e di chiusura.

Scriveva un gruppo di operai veneziani al «Gazzettino», nella primavera del 1927:

È veramente doloroso e deplorevole constatare come in pieno sviluppo di primavera, decine e decine di muratori cittadini si trovino disoccupati e assolutamente incapaci di trovar lavoro; e ciò perché le imprese danno la precedenza alla manodopera dei dintorni e delle provincie vicine. […] devesi preporre il lavoratore nato in città o comunque domiciliatovi da parecchi anni, lavoratore che paga fitto e costo della vita necessariamente in misura superiore al terrafermiere, e che a differenza di questo non può avere altri proventi su cui fare affidamento(27).

Pochi mesi dopo, a Mestre, operai dimostrano sotto la sede del sindacato gridando: «pane, lavoro, morte ai contadini, cosa fa il governo Mussolini»(28). Anche ‘dal basso’ si alzavano barriere che separavano città e campagna, che complicavano il rapporto tra Venezia e terraferma, alimentando reciproche diffidenze, ostacolando la comunicazione all’interno della stessa nuova classe operaia in formazione e facilitando così il controllo della forza lavoro nelle fabbriche(29). Alla fine del 1928, un informatore della polizia segreta riferiva che nelle fabbriche di Marghera «la massa operaia in maggioranza proveniente dai paesi e frazioni limitrofe si mantiene assai appartata e non mi consta che almeno per il momento si interessi di politica»(30): una certa ‘venezianità insulare’ finiva anche per impedire la trasmissione dei superstiti fili di memorie e pratiche sovversive. Persino i comunisti rimasti nei sestieri popolari, negli anni della grande crisi — quando la fame di lavoro morderà con più forza sia in campagna che in città — guarderanno con fastidio alle proteste collettive inscenate dai disoccupati in terraferma, affermando — come riportano le solite spie fasciste — «che si tratta in gran parte di mano d’opera proveniente dalla campagna e che viene in città per fare la concorrenza agli operai», alla quale «è bene sia rifiutato il lavoro negli stabilimenti per lavorare nei campi»(31).

Privati dal regime di propri autonomi spazi di organizzazione, i lavoratori veneziani erano bombardati dal Dopolavoro fascista di insistenti messaggi che enfatizzavano la loro natura di «figli di quella Venezia che trasse dal mare la sua ricchezza e la sua possanza», come ebbe a pronunciare l’alacre direttore del Dopolavoro provinciale negli anni Venti, Antonio Pellegrini(32). Ancora una volta era Giuriati — presidente del sodalizio — a dettare la linea:

Le iniziative del Dopolavoro non devono infatti mirare allo sciatto passatempo ed al semplice divertimento: devono mirare alla più elevata educazione dello spirito e dei muscoli, devono tendere a scopi precisi di pubblica utilità. A Venezia il problema essenziale consiste nell’educare i cittadini alla passione del mare dalle cui vie sterminate soltanto possono venire ad una città marinara la ricchezza e la potenza(33).

All’insegna della vocazione imperiale che i gruppi dirigenti attribuivano alla città, il Dopolavoro parteciperà alla elaborazione di una nuova immagine, spettacolare e turistica, di Venezia, che veniva proposta non solo ai veneziani ma anche al più ampio bacino nazionale. Venezia divenne così fondale pregiato per le coreografie del regime, volte a divulgare e moltiplicare messaggi di unità e concordia nazionale. In tali circostanze, come in occasione del grande raduno nazionale dei costumi d’Italia organizzato dal Dopolavoro nell’estate del 1928, il popolo veneziano cedeva anche il proprio posto di spettatore:

un pubblico elegantissimo, fra cui numerosissimi erano i forestieri, occupò le migliaia di sedie disposte attorno alla pedana, che girava tutt’intorno alla Piazza, sulla quale dovevano sfilare le rappresentanze delle più tipiche regioni di tutta Italia, occupò le sedie dei caffè, s’assiepò nei posti in piedi e gremì le finestre delle Procuratie.

Evidente la sintonia di simili iniziative con gli obiettivi di rilancio turistico della città perseguiti da Volpi, ma declinati dal Dopolavoro in versione ‘popolaresca’ (negli anni Trenta, Venezia conoscerà le prime forme di turismo di massa proprio nelle migliaia di dopolavoristi che ogni domenica i «treni popolari» provenienti da mezza Italia scaricheranno in città). Le classi popolari risultavano infatti non solo le destinatarie delle attività dopolavoristiche, ma rappresentavano anche un bacino cui attingere alla ricerca di usi, costumi e tradizioni veneziane da reinventare e riproporre sul nascente mercato del turismo di massa. La vedova di Piero Marsich, Nahyr Vezzani, che collabora con il Dopolavoro come «direttrice tecnica per il folklore», partecipa, ad esempio, al programma di «rinascita del Carnevale di Venezia» cercando nei libri le tracce di un carnevale che «poco a poco era morto di consunzione, e già da una cinquantina d’anni riposava nella tomba fiorita della memoria dei più vecchi». Lo spirito che la guida in questa vera e propria invenzione a tavolino della venezianità si rivela in certi dettagli della coreografia di quella che vuol essere una «festa di popolo»:

Sfondo e contorno a tutte le manifestazioni carnevalesche era il gruppo dei cento arsenalotti che con un costume copiato scrupolosamente dal Codice Gradenigo dei costumi, avevano il compito di scortare il corteo e difenderlo dalla folla(34).

C’è forse un elemento di verità generalizzabile in questo episodio in cui il popolo veneziano (in una delle sue componenti più rappresentative, pregne di storia e sull’orlo dell’estinzione professionale, come gli arsenalotti) è chiamato a fare da comparsa nella propria città ridotta a scena, in un copione scritto da altri e rivolto ad altri, recitando la parte di se stesso, ma in costume anticato, proprio nel momento in cui se ne decreta per altre vie la scomparsa dalla Venezia reale. Ma siamo all’interno di un gioco di specchi tutto veneziano, dove è davvero difficile distinguere il teatro dalla realtà, sapere chi fosse realmente presente nelle folle interclassiste che assistevano agli spettacoli e capire quale presa ebbe effettivamente sui veneziani quella politica dell’effimero, con le sue mitologie ma anche con le ricadute commerciali e turistiche che portavano linfa anche ai circuiti più bassi della società.

Il Dopolavoro svolgeva per altri canali una funzione di ammaestramento dolce ai valori del decoro e del benessere cui erano sensibili non solo la piccola borghesia degli impieghi, del commercio e dei servizi (è questa la base del primo sindacalismo fascista che transita subito, nel 1926, nel Dopolavoro), ma anche le fasce alte, tutelate, del proletariato urbano che partecipavano alle escursioni popolari in mare e in montagna, ai corsi per la «domestica cura di piccoli orti e piccoli giardini» e ai concorsi per il «balcone fiorito», alle occasioni di piccolo consumo domestico, come in questa Mostra del mobilio popolare del 1927:

Ciò che, intanto, piace subito della originale Mostra è l’interesse con cui il pubblico di lavoratori esamina, giudica, chiede, informandosi, dei prezzi: ed in questo vivo interessamento è già parte del successo della prova. Risorgere da un troppo lungo periodo di decadimento si deve — e così dovrà essere — per la letizia dell’umile casa(35).

E di queste lezioni, all’interno dei sestieri popolari, vedrà impietosamente gli effetti, alcuni anni dopo, uno dei cantori della Venezia minore, defilata e svirilizzata:

Ora [scrive Ugo Facco De Lagarda] gli ultimi arsenalotti abitano in prevalenza a Castello, poco lontano dalla turrita sede di lavoro; un lavoro di riassetto e raddobbo, pressoché di ordinaria manutenzione; taluni sono inventori di ingegnose macchinette e di accendisigari a sorpresa che regalano volentieri ai capi servizio e ai comandanti. Le loro minime case di bambola sono tenute a lucido e riflettono il senso dell’ordine che essi hanno nel sangue ed è tramandato di generazione in generazione; sono lindi appartamentini, per lo più a un piano rialzato, con le tendine azzurre e le piante di gerani ai davanzali, ove non manca nulla. Non pochi di certi indovinati mobilucci sono opera delle loro stesse mani. Tutto è smaltato in bianco, abbondano i portacenere e i vasi d’ottone, ricavati con arte da vecchi bossoli di granate scariche. Non manca la vetrina delle memorie, con una certa bandiera stinta, le medaglie, i brevetti(36).

I luoghi della città plebea

La riscrittura a più mani che si stava tentando dell’immagine di Venezia, in chiave monumentale, turistica e nazional-fascista, si scontrava però con la concretezza della città reale che sembrava difficilmente recuperabile ai destini di rappresentanza d’alto bordo cui la si voleva destinare.

All’indomani della prima guerra mondiale, Venezia si confermava infatti come una città sostanzialmente premoderna, gravata da problemi strutturali di lunga durata che le amministrazioni prefasciste non erano state in grado di risolvere: sovraffollamento, abitazioni insalubri, carenze igieniche, esposizione ad epidemie di larga parte della popolazione erano i mali di Venezia che da decenni venivano analizzati e discussi(37).

All’inizio del secolo erano state rilevate 80 stalle a Venezia, 26 delle quali erano collocate nel centro storico(38); la rete fognaria era primitiva e convogliava i rifiuti nei rii, dove si accumulavano e imputridivano a causa della scarsa corrente lagunare. In molte zone della città, alti edifici si addossavano gli uni sugli altri, separati da vicoli stretti che ostacolavano la penetrazione della luce ed il ricambio dell’aria, soprattutto nelle abitazioni a pianterreno dove alloggiavano le famiglie più povere, esposte spesso anche ai disagi dell’umidità e dell’acqua alta. Nel 1909, una celebre inchiesta sulle abitazioni condotta da uno dei tecnici più valenti del paese, l’ufficiale sanitario del Comune Raffaele Vivante(39), aveva censito 3.596 abitazioni sovraffollate, nelle quali viveva un quinto della popolazione veneziana; una popolazione che per un terzo era costretta alla promiscuità del subaffitto, in case che per il 46% erano prive di acqua potabile. Quasi la metà delle abitazioni di Venezia aveva la latrina in cucina e priva di acqua. I disagi si addensavano nelle aree più povere dei sestieri di Castello (parrocchia di S. Pietro) e Dorsoduro (parrocchia dell’Angelo Raffaele), dove allignavano in forma endemica la tubercolosi e la febbre tifoide, e dove nel 1911 aveva mietuto più vittime l’ultima epidemia di colera di cui scrisse Thomas Mann ne La morte a Venezia(40).

Le indagini degli anni Venti confermavano lo stato di degrado urbanistico della città: il censimento del 1921 aveva anzi rilevato un aumento della popolazione veneziana di quasi 10.000 unità rispetto a dieci anni prima, un incremento che — a causa dei vincoli ambientali che impedivano l’espansione edilizia e dell’intangibilità del patrimonio architettonico tradizionale — aveva finito per ingrossare la «piaga del subaffitto» che coinvolgeva ormai il 28,6% delle abitazioni cittadine e per far aumentare il numero dei giovani costretti anche dopo il matrimonio a convivere insieme ai genitori(41). «San Isepo, dove i dorme a do per leto», si diceva proverbialmente per indicare la parrocchia di S. Giuseppe, cioè la zona più povera ed infelice di Venezia, nel sestiere di Castello, all’estrema periferia della città, ormai quasi in laguna. Nel 1921 erano state censite oltre 20.000 persone che vivevano in abitazioni «sovraffollate» (cioè con più di 2 persone per locale, comprese le cucine), mentre 9.412 individui alloggiavano in 1.948 alloggi a piano terra dichiarati «inabitabili» per grave umidità(42).

Non esisteva a Venezia una rigida compartimentazione sociale del territorio urbano: le ristrutturazioni urbanistiche avviate nel corso dell’Ottocento non avevano infatti eliminato la tradizionale mescolanza di condizioni sociali e abitative(43). A Venezia — notò Egle Renata Trincanato in uno studio pionieristico di storia urbana — «alla periferia come al centro, sempre e dovunque, il palazzo del patrizio è vicino al palazzetto del cittadino e alla casa del popolano»(44). Anche indagini analitiche condotte sui documenti dell’anagrafe postunitaria confermano l’eterogeneità di ceti che si poteva riscontrare all’interno di uno stesso aggregato urbano gravitante intorno ad un singolo campo, con il rapido passaggio dalle abitazioni benestanti di chi godeva la vista sul campo o sul canale, ai tuguri dei poveri che si aprivano nelle calli cieche e nelle corti interne(45).

Se anche nelle zone centrali e più ricche di Venezia — le parrocchie di S. Maria del Giglio, S. Marco, S. Luca e S. Salvatore — si rilevavano nel 1921 ampie quote di famiglie proletarie («operai, salariati e agenti di negozio» e «braccianti, marinai e contadini» erano pari a circa un terzo dell’intera popolazione residente), era tuttavia ai margini della città che i ceti popolari si addensavano più compattamente, formando degli agglomerati socialmente omogenei. Come già evidenziato dall’indagine di Vivante nel 1909, le parrocchie periferiche — collocate cioè a ridosso della laguna, nei sestieri di Castello (S. Giuseppe, S. Pietro, S. Martino e S. Francesco), Cannaregio (S. Cristoforo e S. Geremia), Dorsoduro (Angelo Raffaele) e nell’isola della Giudecca (S. Eufemia) — risultavano ai primi posti in tutti gli indicatori di subalternità sociale (censo, condizione professionale, analfabetismo, insalubrità abitativa, sovraffollamento)(46).

Erano state queste, come si è detto, le aree di maggior radicamento socialista prima e subito dopo la guerra («a storia sarìa picoeta [sintetizzava Nane Rossi, ricordando le origini della sua militanza comunista a Castello] i poveri, tutti i poveri, tutti quei che ghe tocava a vivar del proprio lavoro, bisognava che i fosse de sinistra»(47)), e continuavano ad essere queste — anche negli anni del regime — a destare maggiore preoccupazione agli occhi delle classi dirigenti cittadine. Al di là di un’identità politica ‘sovversiva’ ormai sempre più difficile da esibire e forse anche da coltivare, questi ambienti conservavano, rispetto alla Venezia-bene, una profonda alterità sociale e morale che si esprimeva innanzi tutto nei comportamenti quotidiani.

Ricordava, ad esempio, Armando Gavagnin negli anni della Resistenza la sua giovanile, particolare belle époque proletaria a Castello:

Corsi, in quei tempi, un grave pericolo. Ho già detto le ragioni dell’attrazione che esercitavano su di noi i ‘borsaioli’ che erano spesso o nostri compagni o nostri rivali di gioco. Se facevi a pugni ne buscavi, se giocavi al calcio venivi battuto, se ti cimentavi nelle gare di nuoto ti lasciavano lontano. All’attività svolta apertamente ne univano un’altra meno chiara, per la quale avevano formato una congrega chiusa ai non iniziati. Tuttavia qualcosa trapelava e inoltre troppe volte facevano tinnire le tasche. Dirigenti erano i più grandicelli, che degli altri si servivano non solo nelle ruberie, ma anche nella soddisfazione di istinti anormali. Una ragazza, che era a disposizione di tutti gli affiliati, faceva parte della benemerita associazione. Non temevano nulla. Erano prepotenti, fumavano, bevevano e ripetevano il luogo comune che l’uomo non è uomo se non è andato in galera e non ha sofferto certe malattie. […] Nonostante queste buoni ragioni, per un breve periodo fui anch’io sul punto di credere che veramente l’uomo ideale fosse il delinquente, ma per fortuna cambiai in tempo opinione. Il risultato di tale cambiamento fu una serie di partite a pugni durante le quali non so se più ne ho prese o più ne ho date. Intanto però quei maledetti erano sempre liberi, pieni di quattrini e non andavano a scuola. Soprattutto non andavano a scuola(48).

L’analfabetismo era in effetti il frutto di una pratica diffusa di abbandono scolastico: «la responsabilità di questo increscioso fenomeno [segnalava opportunamente un funzionario del Comune] risale quasi unicamente alle famiglie, che, versando in condizioni di disagio o di reale miseria, adibiscono i ragazzi a lavori di ogni genere»(49). Anche molti parroci — in occasione della prima visita pastorale del cardinale La Fontaine tra il 1917 e il 1920 — confermavano il legame che intercorreva tra la bassa condizione sociale ed il proliferare del «vizio», soprattutto tra i giovani: «la parte di popolazione che meno corrisponde è il ceto povero», scriveva il parroco di S. Martino, mentre il vicino collega di S. Pietro — la parrocchia che era stata definita «la più infetta di socialismo e la più irreligiosa»(50) — ribadiva che «oltre la bestemmia, la profanazione della festa, predomina la disonestà della gioventù, causa la pochissima istruzione religiosa e la nessuna vigilanza dei genitori»(51). Persino lo stesso La Fontaine, nell’ultimo capitolo della relatio ad limina del 1921, aveva fatto suo questo aspro giudizio sulla moralità del popolo veneziano:

il popolo ignaro, sperduto, religioso e blasfemo, devoto alla Madonna ed iscritto alla camera del lavoro, vive alla giornata, tripudia ne’ dì lieti e si fa accattone nei giorni neri: senza dignità, senza fierezza, ha il culto del Dio ventre e acclama e porta in auge chi ne appare più largo ministro(52).

Le cronache dei giornali cittadini — prima della stretta totalitaria che con il procedere degli anni Trenta imbriglia e ingrigisce anche le pagine locali — non sono avare di descrizioni dei piccoli, vitalissimi e picareschi contromondi plebei che si aprivano nelle maglie della città, preoccupando non poco i detentori di un’altra idea di venezianità. Gli scherzi cruenti di due ubriachi; Una baraonda ai Bari. Casa devastata. Sei arresti; Ferito dalla moglie non vuole dirlo e va a farle compagnia in carcere; Gemma adopera il rasoio; In mezzo a tre indemoniate; Un pugno per una canzone; Cade dalla finestra dove s’era addormentato; Continuano i furti con scalata. Veneziani e tedeschi derubati nel sonno; La baruffa delle vetraie… e quella dei selciatori; Una legnata senza motivo; Le ire della trippaia; Un colpo di zoccolo in luogo della diminuzione del fitto; Dopo una partita a carte insegue con il coltello i compagni(53). Dietro titoli come questi stava spesso una prosa sgangherata ma anche esilarante:

Lo Scarpa ha raccontato che trovandosi a bordo di un trabaccolo carico di legna, ormeggiato alla Punta della Salute, nel Canale della Giudecca, di essersi imbattuto verso le 22 nel marittimo Saulich Giovanni di Giovanni di anni 20 da Castel Nuovo d’Istria (Pola) abitante a Carizza, imbarcato sulla goletta Fabiola, pure carica di legna e colà ormeggiata, e quindi si accompagnava con lui per bere un bicchiere di vino all’osteria di Calle Lanza n. 149. Lo Scarpa che era sceso a terra per cercare il figliolo di otto anni, assentatosi dal trabaccolo per qualche istante, si fermò con il Saulich a giocare le carte nell’osteria predetta. Ad essi si unì anche un altro marittimo, certo Zagabria Gaspare di Giovanni di anni 30 imbarcato sul veliero Diana. Dopo la partita a carte i tre uscirono in istrada portandosi a bere ancora una volta in una osteria in Calle Costantini n. 83. Qui sostarono […]; usciti in istrada per portarsi a bordo delle loro imbarcazioni, ubriachi tutti e tre, si posero a litigare, per questioni che a mente serena non seppero nemmeno precisare. Si seppe poi che il Saulich nell’osteria stessa ruppe due bicchieri e una sedia. A un certo punto il Saulich menò un terribile pugno contro lo Scarpa addentandogli quindi l’indice sinistro; lo Scarpa cercò di reagire, ma il Saulich più forte di lui lo gettava a terra colpendolo ripetutamente a pugni ed a calci. […] Anche lo Zagabria, intervenuto per calmare lo Saulich, fu da questi malmenato. A un certo punto anzi, il Saulich, accecato dall’ira, saliva a bordo della sua goletta, ed armatosi di un coltellaccio da cucina, ritornò a terra inseguendo lo Zagabria e gli Scarpa padre e figlio, che impauriti si diedero alla fuga per il rio terà dei Catecumini. Alle grida di soccorso dei fuggiaschi si aggiunse anche la signora Stella Gomirato che abita in via dei Catecumini al n. 98. Il forsennato Saulich, alle grida della donna, non potendola raggiungere con le sue minacce da terra, cercava di dare la scalata al primo piano, dove da una finestra la Gomirato invocava aiuto. Le grida della signora furono udite dalle guardie di Finanza di servizio alla Dogana, le quali si portavano sul posto, riuscendo a trarre in arresto il Saulich e fermando gli altri per le indagini del caso(54).

La ricorrenza di storie analoghe a base di «pugni, morsi, calci, graffi, strappo di capelli», ma anche di più allegre serenate collettive e chiassate notturne in barca con canti, chitarre e mandolini, testimonia la continuità di comportamenti collettivi ben radicati negli ambienti più popolari della città, legati alla cultura della ‘piazza’, ai suoi mestieri, ai suoi canoni e alla sua lingua(55).

Usano i barcaiuoli [aveva osservato Cesare Musatti sr] specie conversando tra loro al traghetto, insaporare per giunta la propria parlata di certo gergo, il quale, come quello d’altri mestieri, riproduce bene spesso la lingua così detta furfantina; di che è nemmeno a sorprendersi, per poco si rifletta ai frequenti contatti ch’essi ebbero in ogni tempo, per ragione professionale, con ribelli, fuggiaschi, istrioni, contrabbandieri, e meretrici(56).

Monelli e ladruncoli, borsaioli e topi d’albergo, giocatori, baruffanti e bestemmiatori, «mendicanti accaniti» e «ubriachi molesti e ripugnanti» sono i personaggi quotidiani di questa Venezia in cronaca che a fatica poteva essere ricondotta ai rassicuranti clichés del pittoresco. Essi erano invece la prova di una certa propensione popolare ad usare la propria città, i suoi luoghi aperti e pubblici, come un prolungamento dello spazio domestico e familiare. Già i parroci e i patriarchi dell’Ottocento indicavano nella natura loci di Venezia — con le sue calli fuori mano, i sottoportici semibui e le case addossate e promiscue — un invito ad «amoreggiamenti ed altri disordini», e vedevano nella strada, nella barca e nella taverna i luoghi capitali del vizio e della bestemmia(57). Dai giornali di cent’anni dopo sappiamo che in fondamenta, all’attracco delle barche, durante una pausa di lavoro, tra garzoni e «sfaccendati» si può ancora fare la lotta o giocare d’azzardo, alle carte, a testa o croce, o alla «zecchinetta»; mentre anche il sagrato di una chiesa è un luogo buono per dormirci o per improvvisarvi una scalata al colonnato, magari alla ricerca di un nido o di qualche pertugio da cui penetrare in una casa vicina; ed ogni occasione può diventare fonte di scontro con i vigili, per prenderli a sassate o a male parole («ve tagio a testa, toco de cani»(58)), o per fuggire da essi con un tuffo in canale o una corsa attraverso «callette cuerte» e «corti sconte».

Nella fitta trama abitativa che caratterizzava la città, anche le liti familiari finivano talvolta per coinvolgere l’intera comunità di vicinato: in calle Testoni, a Cannaregio, una donna «ubriaca fradicia, dopo un litigio con il marito […] era caduta senza aver più la forza di rialzarsi nella calle stessa, richiamando l’attenzione dei curiosi che sostavano davanti ad essa, lanciandole lazzi e contumelie»(59). La convivenza gomito a gomito sprigionava tra familiari e vicini, tra inquilini e proprietari, tensioni che degeneravano spesso in scontri fisici nei quali le donne non avevano un ruolo secondario: coltelli, forchette e mestoli da brodo, zoccoli e rasoi, forbici e spilloni, bottiglie e attizzatoi erano gli strumenti del lavoro quotidiano e domestico che in certe occasioni si trasformavano anche nelle mani femminili in armi adatte a regolare conti e consumare vendette, dentro e fuori le pareti di casa. Tutto materiale ghiottissimo per i cronisti e il loro pubblico di lettori:

Veder la rivale, munirsi di un grosso legno e correrle incontro per… ringraziarla, urlando un sacco d’invettive, fu tutt’uno. La disgraziata corse a rifugiarsi nel negozio d’erbivendola ai piedi del ponte della Commenda, e in un attimo oltre duecento persone si radunarono in quel luogo divertendosi poco caritatevolmente alle minacce pittoresche della carbonaia che voleva la rivale in istrada, e cioè fuori dalla trincea di ceste di pomodoro e patate, per legnarla a modo suo, ed alle querimonie e deboli difese della moglie del falegname che supplicava d’essere protetta e lasciata viva(60).

Dopo tutto, era la stessa infima qualità delle abitazioni che spingeva i ceti popolari ad uscire per strada: non appena il clima lo consentiva, le porte delle case — i «pianterreni inabitabili» — si aprivano sulle calli e le calli si riempivano di sedie; le donne potevano lavorare alla luce, stare in compagnia, controllare collettivamente i piccoli e condire il tutto con quelle forme caratteristiche di sociabilità veneziana che sono il comarò o il gioco della tombola(61). I campi più vasti ospitavano nei soleggiati pomeriggi invernali centinaia di bambini che sgusciavano dalle «umili casette» per praticare i giochi di strada (a pallone, al salto della corda, a massa e pindolo, campana, piera alta…)(62). Dall’alto delle abitazioni più signorili che davano sul campo, i figli della borghesia osservavano con un po’ d’invidia i giochi dei loro coetanei ‘piazzaroli’ con i quali era proibito mescolarsi. Il gioco — che si trasformava presto, con il crescere dell’età, in più ardite monellerie (nuotate nei canali, guerre simulate, fughe ai margini della città nel regno selvaggio della laguna) — rappresentava infatti un apprendistato all’ambiente cittadino e alla socializzazione proletaria, uno strumento per imparare a riconoscere — dell’uno e dell’altra — regole, confini e gerarchie(63). Ed è forse anche a queste esperienze che si deve guardare per comprendere certe componenti della lotta politica — non più simulata — scatenata all’indomani della guerra per il controllo della città.

L’osteria — il bàcaro della tradizione veneziana(64) — è invece il luogo tipico (ma non esclusivo, a Venezia, dove anche le donne ed i bambini frequentano le osterie) della socializzazione maschile adulta. Qui è abitudine consumare il pasto o, più spesso, un rapido spuntino:

Negli intervalli fra i pasti, i portuali, con una certa frequenza, usano acquistare presso osterie e friggipesce o presso rivenditori ambulanti i cibi più svariati, dalla polenta al pesce fritto, dalla trippa, muso o zampe di vitello lessati, ai polipi pure lessati, dalle patate americane lesse alla zucca al forno, ai frutti di mare e così via. Assai spesso vengono acquistati già pronti presso i suddetti rivenditori anche gli alimenti che compongono i pasti principali(65).

Ma in osteria gli uomini soprattutto concludono la giornata di lavoro, insieme agli amici, dando spesso fondo ai guadagni della settimana.

A me mario el ghe piazeva tanto la compagnia. Sicome che a Muran, ’desso ghe xe tute boteghe de veri, ma ’na volta ghe gera tute ostarie e ’lora, co’ finiva da lavoro veniva a farse beo, lavarse, cambiarse e ’ndava via co’ i so amighi. Praticava, metemo, su una parte qua de Muran — perché, ciò, xe grandeto, no? — tute le ostarie gera sue e ’lora veniva casa e gera più imbriago che…(66).

Capitava in quelle circostanze che fossero le donne, le mogli, a farsi carico a una certa ora di riportare a casa i propri uomini guidandoli a spinte e improperi lungo le calli fino alla porta di casa. In altre situazioni — non proprio infrequenti, a giudicare dalle cronache — osterie e trattorie diventavano teatro di sfide, diverbi e prove di forza che potevano finire in risse furibonde.

Nel 1921 si riscontravano a Venezia il consumo di vino più alto tra le città italiane e la presenza di un rivenditore di alcoolici (tra osterie, bettole, bottiglierie, bar e caffè) ogni 163 abitanti: una mappa pubblicata nella «Rivista Mensile della Città di Venezia» evidenziava — come ebbe a commentare Vivante — «il numero enorme di essi e la loro stretta contiguità nelle strade di maggior movimento così da segnare meglio di una guida il percorso delle vie di comunicazione fra i centri principali della città». Erano gli indici della diffusione e del radicamento della ‘cultura del vino’ tra i veneziani: un’indagine del 1924 aveva rivelato che il 75% degli alunni delle scuole elementari aveva dimestichezza con il vino (di questa quota, più della metà ne beveva abitualmente). Il fenomeno aveva una chiara connotazione di classe, poiché coinvolgeva soprattutto i figli delle famiglie più povere: tra gli alunni delle scuole di Castello e Cannaregio, circa un terzo era solito frequentare le osterie già all’età di sette e otto anni(67).

Legata molto spesso simbioticamente a un’osteria era un’altra istituzione informale, diffusissima a Venezia e in tutto il Veneto, come la cassa peota: si trattava di una sorta di cooperativa di risparmio e di credito gestita in forma autonoma da un gruppo di persone legate da relazioni di lavoro, di vicinato o di clientela, le quali si impegnavano a versare settimanalmente una quota che dava diritto — in caso di necessità — ad ottenere prestiti a interesse; a fine anno gli utili venivano ridistribuiti tra tutti gli iscritti. C’erano casse peote maschili e femminili; le osterie erano spesso sede di una o più casse (c’era allora nel locale un piccolo scaffale con tante cassettine dove i soci depositavano le quote), ma ne esistevano anche presso abitazioni private (era il caso delle mistre, cioè le referenti del lavoro delle perle di vetro a domicilio, che spesso gestivano anche una cassa tra le impiraperle a loro sottoposte(68)) e senza sede fissa (le peote dei remegoni).

Un’apposita commissione d’inchiesta voluta da Luigi Luzzatti nel 1913 aveva censito a Venezia 385 casse peote che coinvolgevano 11.487 soci (con una media quindi di circa 30 soci per ogni cassa): il conteggio — che era stato eseguito visitando tutti i locali pubblici della città — risultava probabilmente approssimato per difetto, a causa della difficoltà di quantificare un fenomeno così poco formalizzato e praticamente semiclandestino(69). Alla fine degli anni Cinquanta, un’indagine pubblicata sul «Gazzettino» da Giuseppe Dell’Oro stimava addirittura in più di 1.000 le casse peote presenti in città(70).

La tradizione delle casse peote aveva probabilmente origine nelle fraglie, nelle confraternite o associazioni di mestiere più o meno ufficiali che svolgevano nella città di antico regime una funzione di mutua assistenza e integrazione sociale. Gli statuti raccolti nel 1913 evidenziavano diverse tipologie di casse in relazione alle categorie associate (maschili o femminili; a base professionale o miste) e allo scopo dichiarato, che poteva essere quello del solo risparmio e credito, quello del mutuo soccorso in caso di malattia o quello della scampagnata e del lieto simposio tra amici. Le casse avevano ampia diffusione in tutta la città, ma raggiungevano la concentrazione più alta nei sestieri popolari di Cannaregio (128 società), Castello (73) e Dorsoduro (56). Nondimeno, alcune casse (le peote-banche) coinvolgevano anche esponenti della piccola borghesia (commercianti, impiegati, professionisti) interessati in primo luogo a farne uno strumento per capitalizzare i loro risparmi: anche i nomi con cui questi sodalizi venivano battezzati tradivano la composizione sociale e culturale dei loro soci: «Stella Liberale», «Fratellanza», «Dante», «Pace», «Tripoli», «20 Settembre». Gli operai dell’Arsenale, della Manifattura Tabacchi e degli stabilimenti maggiori interpretavano la cassa come forma di mutuo soccorso tra i soci in caso di prestito o di malattia (da cui i nomi di «Fratellanza», «Provvidenza», «Concordia», «Della Salute»), non disdegnando però di ricavare a fine esercizio anche un gruzzolo per il pranzo di Natale (peote del Bisatto) o per una gita in autunno; le peotine invece erano quasi delle collette che si facevano in vista di un obiettivo particolare (una festa, una gita, il 1° maggio, il sostegno ad un compagno…). Per le donne le peote rappresentavano molto spesso uno strumento di gestione dell’economia domestica, una risorsa finanziaria nei momenti di difficoltà, ma conservavano anche per esse la componente godereccia della fragia, cioè del banchetto o della scampagnata che chiudevano la gestione annuale (una variante era quella delle quarantene, della durata di quaranta giorni e finalizzate al solo pranzo sociale).

A distanza di anni, è quest’ultimo l’aspetto su cui più volentieri si sofferma la memoria:

…na volta se faseva i pransi. Se ’ndava a Padova, a Treviso in carossa, so ’ndada do tre volte che gera in cassa qua da mia cugnada Panisson, che gera famegie de becheri, che lavorava in becaria e che ga la botega de becheri. E alora gerimo tute cugnae, e ’na volta o do l’ano, co i schei che se fasseva su, se ’ndava far ’na magnada a Treviso, a Carpeneo, in carrossa a cantar: i faseva tutti fora da le boteghe: ‘Xe qua i Venessiani, xe qua queli de la cassa’. E i omeni beccheri gaveva la cassa anca lori i stava via anca ’na settimana perché lori i ’ndava a Treviso, a Feltre, de qua e de là, i stava via…(71).

Le «casse magnatutto» — diffuse «nell’ambiente degli operai, facchini, barcaiuoli che guadagnano una buona giornata, dei negozianti, imprenditori, specialmente in Cannaregio» — erano quelle che avevano come unico scopo il divertimento, la crapula gioiosa e liberatoria, il pantagruelico «pranzo della cassa» che è diventato proverbiale:

Le cominciava dal risotto a la sbiraglia, che saria sta el risoto de polo col quarto de polo sora e queo saria sta l’antipasto; dopo le magnava bigoli in salsa, la pasta e fagioli… insomma, i famosi pranzi de la cassa che le magnava finché — digo — ghe s-ciopasse la panza! Ghe digo che de le volte, co gavemo gente, go sempre paura che ghe manca, ’lora fasso come ’staltra sera, che po’ go butà via tuto, e me fio Giuliano el me dize: ‘Maria mama, ti gà fato el pranzo de la cassa?’… eco, xe restà el deto… el pranzo de la cassa, quando li dize i pranzi lauti, abondanti, ma no fini, proprio ’na abufada, insomma...(72).

Anche i nomi di queste casse («Magnatutto», «Su e via», «Sempre Allegria», «Dei Scroconi», «Dei Mocolosi», «Dei Bastardi»), insieme alle tante altre tessere fin qui accumulate, fanno almeno intuire il sistema di una cultura popolare — comica e corporale, ambivalente di lunghe miserie e improvvise sfrenatezze — che era stata capace di scorrere al di sotto di cambi di regime e di insegne di partito, rimandando a strati più profondi, agli echi di un carnevale premoderno e plebeo di cui ora possiamo misurare la distanza e l’irriducibilità rispetto alle sue pallide, postume reincarnazioni turistiche e dopolavoristiche.

Nascondersi

Sarà certo complice la stessa forma urbis, labirintica e frattale, molteplice e insulare, ma Venezia pare predisposta più di altri luoghi a coltivare le virtù dello svicolo, del nascondimento e dell’infratto. Città porosa, essa consente — a chi lo desidera, a chi ne ha necessità — di ricavarsi una nicchia, di porsi al riparo dalla storia maiuscola, specie quando diviene sgradevole. E la cosa non va solo a vantaggio di chi vi si esilia volontariamente, appartandosi — come fecero non pochi, par di capire, dopo l’8 settembre, negli anni della guerra civile e della persecuzione antiebraica — in uno dei suoi solai, doppiofondi o mezzanini; ma può diventare risorsa di sopravvivenza anche per chi la abita quotidianamente, da sempre, come quella centenaria che «defilandosi accortamente nell’angolo morto di Venezia» ne attraversò tutta la storia senza accorgersene:

Passarono i decenni e le guerre e i rivolgimenti politici. Le donne e gli uomini di casa seguivano docilmente — meglio, defilandosi accortamente nell’angolo morto di Venezia — l’andazzo bizzarro dei tempi, senza compromettersi troppo e accontentandosi, negli anni più brutti, delle tessere e di qualche infimo contrabbando alimentare al solo scopo di stare in piedi e di ingegnosamente sopravvivere(73).

A Venezia, dice qualcuno, «smarrirsi è l’unico posto dove vale pena di andare»(74). Ma lo smarrimento può diventare anche premessa di un intimo ritrovamento, occasione per un incontro capace di «aprire una porticina» attraverso la quale recuperare il contatto con quella realtà — esistenziale e politica — che pareva essersi ritirata ai margini della città:

Era la Venezia dei poveri; così diversa da quella dei turisti nelle brevi e affollate stagioni estive che avrebbero dovuto fornire alla città di che vivere durante il resto dell’anno, mentre le davano appena di che sopravvivere. Era il risultato inumano di una lenta eredità di decadenza che il ‘Regime’ nella sua pavida immobilità assurdamente perpetuava, con quella sua economia in vaso chiuso che, quasi insensibile in centri di prosperità tradizionale come Milano, negava qui tranquillamente ogni speranza ai diseredati(75).

Tra questi due poli — tra la Venezia che «se ritira par le sconte»(76) e quella che svela «uno spontaneo antifascismo degli umili»(77) — pare scorrere la vita nei sestieri popolari negli anni del fascismo. Alcuni storici hanno colto opportunamente in questi atteggiamenti e umori i segni di uno «sdegnoso non-rapporto con il regime»(78), quasi che le classi popolari — espropriate di quelli che erano stati i loro simboli e canali di partecipazione politica — non avessero potuto che ritrarsi a coltivare la propria separatezza e le proprie autonomie culturali e locali. È lo stesso senso di autarchia sociale e psicologica che ci comunicano le storie di vita quotidiana raccolte tra le vecchie popolane di Venezia:

Quando che ghe gera la staìa gera triste, ah, parché insoma ghe tocava rangiarse co’ quei fià de schei che portava casa mio papà, che ’l vegniva casa poareto — li se alsava, li ’ndava pescar de note — e quando gera matina bonora, bonora, sa, ma a le quatro e meza, sinque, el vegniva casa e in magazin ghe gera ’na tola granda, più granda de questa… scaricava tuto quanto quelo che ’l gaveva pescà e fazevimo la cernita tuti quanti, da ’na parte le mazanete, da parte i gransi, da ’na parte i sfogeti, e dopo el ’ndava in pescheria a vender… a Rialto… e dopo co gera le undeze e meza, mezogiorno, ’rivava a casa, e co’ i schei che gaveva ciapà ’na parte ghe i dava a mia mama — i più pochi gera sempre quei per mia mama — e una parte se li tegniva in scarsela iù, par i so bisogni, dizemo, parché ’ndava fora, ’ndava in osteria a zogar la partia de carte, el se beveva ’na ombra… dopo se preparava da magnar, ela fazeva la polenta e lu frizeva el pese… gera proprio el lavoro de tuti i mezogiorni, dizemo… dopo ’ndava fora, in fondamenta, là da Pinto, là parché quando che ’l pescava in mezo a tuto queo che ’l pescava, el ciapava anca ostreghe, e alora le ostreghe el se le tegneva lu. E alora quando che gerimo finio de magnar che ’l andava fora, el andava da Pinto, che gera una ostaria proprio in fondamenta dei Ormesini e ’l se portava ’sto corbato de ostreghe. Lu stava là, l’aiutava e ’l vendeva anca le ostreghe, vendeva, e cussì, e dopo magari a ’na certa ora el zogava ’na partia a le carte e dopo co gera la sera el vegniva casa a la sena… e dopo sena el andava fora ’naltra volta, e dopo mia mama se gavea vogia ’ndava torlo e li vegniva casa insieme e ghe gera anca so compare che li ’ndava pescar insieme, che gera so compare, li se trovava, stava là cussì un pochetin, dopo li vegniva casa… Ghe gera l’abitudine de meterse fora a lavorar… ma no solo a lavorar, anca la sera a star in compagnia le se meteva fora co’ la carega, tute quante, la zò dal ponte de la cale Turlona, in quela fondamenta che ghe xe là, co gera la sera, a una certa ora tute quante se portava da basso la carega… Quando che gera ’na certa ora, no ghe gera la television o la radio come ’desso, e alora ghe gera mi fradei poareti che gera giovani e co gera la sera li vegniva co’ le fie, li gaveva la morosa, l’amiga e li se meteva da basso co’ i mandolini, co’ le chitare, se usava, e li sonava, magari li dava anca qualche baladina… e mia mama ne meteva in leto nialtri picoli e dopo la se meteva in cusina e mi me ricordo quel rumor de la sessola, dei aghi co’ la sessola, gera come la nina nana…(79).

Il clima dei tempi favoriva senz’altro il recupero in chiave difensiva di certe predisposizioni localistiche inscritte fin nella trama della città, in ogni corte e campiello interno, nell’intimità quasi familiare che essi offrivano alle abitazioni, «come di sala scoperta», «come facenti parte di una sola famiglia»(80). Tutta Venezia — scriveva Comisso — in fondo non è una città, è «una grande casa», dove le case sono stanze, le calli corridoi e le piazze grandi sale(81). E la donna — aggiungiamo noi — è la garante e la mediatrice tra la famiglia e questo ambiente cittadino. Le figure femminili si stagliano, nella memoria collettiva, come i pilastri a sostegno di una faticosa sopravvivenza quotidiana: l’uomo è spesso assente in famiglia, vive per lo più di una socialità maschile separata («me papà gera un vecio navegante, e co i vegniva a Venezia i andava via co i so amighi, a magnar, e dopo i partiva ’naltra voltra… quei pochi schei che i ciapava, i andava a spendersei lori… a casa ghe ne gavemo visti pochi…»); così la donna veneziana, nei racconti, appare madre e padre insieme, e porta tutta sulle sue spalle la responsabilità e l’orgoglio della cura della famiglia e dei figli, della loro educazione e del loro sostentamento(82). È la madre che mette a frutto le sue relazioni di vicinato e di clientela per trovare un lavoro ai figli, e che sorveglia e protegge il loro ‘ingresso in città’:

Mi go un fradeo che fazeva el forner, quea volta i forneri ghe tocava alsarse ae do e meza, tre de la matina… e me mama la se alsava anca ela a quel’ora par acompagnarlo parché no la se fidava de lassarlo ’ndar solo… ciò, el gera giovine, sedese, disdette ani… lo andava a acompagnar fin in Rio Marin da la cale Turlona e dopo la tornava indrio(83).

In queste esperienze femminili si rivela il paradosso del massimo del localismo nella città che si vuole cosmopolita per antonomasia: per molte donne il «pranzo della cassa» era spesso l’unica eccezione di una vita consumata in uno stesso sestiere; e in fin dei conti anche quegli uomini che, navigando, conoscevano il mondo, lo conoscevano sempre dalla stessa prospettiva, quella delle mille Venezie disseminate nel gran lago adriatico e in ogni altro porto di mare o di fiume.

Per lungo tempo, da Venezia non ci si sposta volentieri; anche Marghera è lontana(84). Raffaele Vivante, nel primo dopoguerra, preoccupato dei guasti del crescente sovraffollamento urbano, indicava le cause ne «l’attaccamento naturale vivissimo che i veneziani hanno per la loro città, dalla quale tanto difficilmente si convincono ad allontanarsi»(85). A Venezia si cambia spesso casa, ma fin quando si può scegliere si cerca sempre di approdare non lontano da dove ci sia un parente(86), da dove si trovi ancora un negoziante disponibile a vendere a credito, sulla fiducia di chi già si conosce e garantisce(87). Anche il mercato degli affetti tenderebbe ancora — come nella tradizione — ad essere regolato sulle contrapposizioni localistiche tra nicolotti e castellani («ghe gera a rivalità e ’lora no i voleva che quei de Casteo se trovasse le done da Cannaregio»), tra veneziani e giudecchini («i tosi de Venezia no i gaveva da prenderse e tose de a Giudecca»).

È il mondo poco apprezzato e spesso beffeggiato della misoneista campagna («campagna, va a remengo ti, e la tera, e el rospo che non la magna», diceva il padre di Caterina, barcaiolo anarchico, a quel contadino di Tessera che non voleva fargli sposare la figlia) che, per colmo di paradosso, esprime in Veneto il massimo della mobilità e della predisposizione ad andar via di casa. A Venezia, infatti, molto si arriva e poco si parte, fin che è possibile. E quando si arriva si finisce per riprodurre quella struttura a insulae che è una caratteristica non solo fisica della città. Così capitava tradizionalmente, ad esempio, alle catene di immigrati dalle terre della vecchia Repubblica che in città formavano delle enclaves professionali ed ‘etniche’ ben riconoscibili nello spazio urbano, spesso persino nella toponomastica. Dall’Alpago i casari e gli ortolani, da Premana i fabbri, da Grosio gli scalpellini, dal Feltrino le balie asciutte e da latte, dal Cadore i pasticceri o scaleteri, dallo Zoldano i luganegheri(88). E dal Friuli migliaia e migliaia di donne e uomini dispersi nella città e nelle isole a fare le serve e gli osti, i facchini negli alberghi e gli spaccalegna per le vetrerie, ma che, nel ritrovarsi la domenica in campo S. Bartolomio (campo S. Bartolonostro, dicevano loro; campo delle furlane, i veneziani) o in piazza S. Marco, rivelavano fin alle soglie della seconda guerra mondiale la loro presenza comunitaria di «vera e propria isola etnica e linguistica all’interno della città»(89).

Dopo la Grande guerra molto rallentano questi flussi immigratori, ma ancora nel censimento del 1921 il 35,7% della popolazione di Venezia era nato fuori dal comune (6.452 nel Trevigiano, 5.777 in Friuli, 4.124 nel Padovano, 3.111 nel Bellunese…). C’è anzi chi ricorda, nella sua esperienza di ragazzo veneziano — nipote di montanari dell’Alpago arrivati in città nel 1890 e presto instradati ai «lavori grossi» nel mercato della frutta — di essere entrato, a metà degli anni Settanta (del Novecento), in piena Venezia, in quelle che gli sembravano case di montagna innestate nella laguna, col focolare e la panca tutto intorno, dove viveva gente che si distingueva per il parlare e vestire ‘rustico’ e che al ristorante «Poste vecie» di Rialto trovava, fino agli anni Sessanta, per i ricorrenti scambi con i paesi d’origine del nonno, una speciale agenzia di trasporto tutta dedicata alla tratta «Venezia-Alpago»(90).

Un altro immigrato sui generis, come Paolo Barbaro, ha scritto che «Venezia è fatta di tante isole, quartieri, sestieri, minicanali, microcittà, non si sa come chiamarle; e anche di ‘aria diversa’, di tanti microclimi, che si differenziano quel tanto che basta per riconoscerli»(91). Fatta di ‘villaggi’, persino, se Dal villaggio di San Lio — uno dei ritrovi cittadini delle prostitute — si rivolgevano al «Gazzettino» quei cittadini che lamentavano, nel 1928, la condizione del loro «povero campo» che veniva preso per «la Cenerentola dei quartieri veneziani»(92).

In questa multiforme topografia cittadina, era spesso il capitello a rappresentare un nucleo visibile di aggregazione e quasi il cuore simbolico delle microsocietà locali. Un censimento condotto intorno al 1970 da Antonio Niero ha schedato 378 capitelli in tutto il centro storico. È un apparente paradosso il fatto che la pia sociabilità del capitello abbia la stessa matrice di quella carnevalesca della cassa peota: entrambe le forme rimandano invero alle antiche confraternite a base professionale e ai loro strumenti di autodifesa e di coesione; il culto di un santo — e la relativa adozione di un capitello ad esso dedicato — era infatti un modo per cercare una protezione non solo taumaturgica, ma anche per giustificare raccolte di denaro che avrebbero sì garantito la cura e l’illuminazione del capitello, ma che sarebbero potute anche andare al paese d’origine (nel caso degli immigrati), oppure a finanziare l’annuale pranzo della confraternita, le spese per i funerali dei colleghi defunti o il sussidio per quelli malati. Poiché era espressione di una forma di religiosità autogestita, la pietà popolare dei capitelli aveva spesso subito il controllo e l’ostilità dello Stato veneziano, prima, e della Chiesa ufficiale, poi. All’indomani dell’annessione all’Italia i capitelli erano diventati oggetto di scontro politico tra gruppi anticlericali iconoclasti e gruppi cattolici che ne rivendicavano invece la capillare presenza in città. Negli anni tra le due guerre mondiali, infine, sarà la Conferenza di S. Vincenzo a cercare di normalizzarli, apponendo a ciascun capitello una propria cassetta ufficiale — spesso disertata o scassinata — per le offerte a favore dei poveri.

Questa forma devozionale progressivamente si femminilizzò, ma sopravvisse agli opposti tentativi di politicizzazione e controllo, conservando — grazie anche a continue costruzioni e ricostruzioni di capitelli fin nel pieno del Novecento, e proprio all’interno delle aree più ‘rosse’ della città, come Castello e la Giudecca — una funzione eminentemente comunitaria, scandendo il calendario delle piccole liturgie locali alle quali partecipava anche chi disertava la messa pasquale, mentre il parroco era chiamato a intervenirvi solo in certi momenti e su richiesta degli abitanti. Persino oggi, là dove qualcosa di quel mondo sopravvive, si ricorda ancora l’usanza di pagare collettivamente le spese per i funerali dei poveri della calle, ed esiste qualche donna devota, incaricata dai vicini, che tiene pulito, illuminato e infiorato il capitello e provvede a far celebrare le messe per i morti del rione(93).

Più della cassa peota, infatti, il capitello è intrinsecamente legato a un luogo, serve anzi a segnare un territorio, anche perché spesso fisicamente lo illumina di notte: «il capitello [scrive Niero] delimita l’area dove si abita, come un temenos, come un templum, a protezione degli inquilini»(94). Il capitello protegge i residenti dai malintenzionati che potrebbero approfittare dell’oscurità, ma protegge anche i bottegai del rione dagli incerti del commercio (come quello in campo della Erberia a S. Polo, rifatto nel 1920) e, più in generale, mette al riparo il proprio piccolo mondo dal male che viene da fuori, sia esso la peste (come capitava nei secoli passati) o la guerra (come avviene più spesso in tempi recenti). Così, nel sottoportego della corte Nova a Castello, alla vecchia, icastica iscrizione «Fuggi né pensi l’entrar peste ria / questa corte è benedetta da Maria» se ne è aggiunta una più aggiornata e articolata:

Vergine Santissima / Maria della Salute / che replicate volte serbaste immuni / dalla dominante mortalità / gli abitanti di questa corte nuova / specialmente negli anni 1630-’36, 1849-’55 / e dalle bombe di aeroplani nemici 1917-’18 / accogliete benigna i loro voti riconoscenti / i voti di tutta questa parrocchia / degnatevi di spandere la vostra protezione che / fiduciosamente imploriamo su tutti i vostri devoti(95).

Le dediche ai ‘propri’ morti nelle guerre mondiali o nei bombardamenti, murate nelle chiese parrocchiali e riverberate su scala ancor minore nei capitelli che talvolta spontaneamente si riempiono anche di decine di immagini dei defunti della contrada, non sono mera imitazione dei monumenti ai caduti della retorica nazionale, ma esprimono anche una pietà diversa, più locale, prepolitica, un’esigenza di controllo e dialogo con il mondo dell’aldilà e con chi di caro vi è caduto dentro(96).

Il capitello — che contiene la figura di uno o più santi intercessori — media anche il rapporto con il potere, che sta fuori e che insieme conforta e atterrisce: non stupisce che vi si inserisca, tra le altre, a seconda del periodo storico, l’immagine di Mussolini o quella di Stalin.

La metafora del capitello può diventare allora utile anche a comprendere più ampiamente il rapporto delle classi popolari con la Chiesa ufficiale negli anni del fascismo. Rimane evidente, da un lato, quella sorta di moralità diversa e parallela che abbiamo visto caratterizzare ampie sacche della società cittadina rispetto alle norme dell’etica cattolica, come testimoniano da opposti punti di vista tanto le memorie popolari che le relazioni dei parroci; d’altro canto, la Chiesa può venire accettata — soprattutto nel nuovo contesto politico — quando è in grado di farsi garante delle autonomie del locale e di ‘scendere in basso’ a fornire strumenti di sopravvivenza anche quotidiana. Se al suo vertice, più legato al regime, il patriarca Piazza nel sentire popolare rimane sempre spicciativamente un «fassiston»(97), in altri ambiti essa si rivela capace di interpretare domande inevase di socialità in qualche modo alternative e più appetibili rispetto a quelle offerte dal fascismo.

A S. Giobbe, ad esempio, nel popolare sestiere di Cannaregio, il vecchio oratorio dei canossiani — che nel primo dopoguerra sembrava ormai sull’orlo dell’estinzione — ritrova proprio negli anni del regime un’inattesa vitalità che ne fa un punto di riferimento per l’azione giovanile di tutta la diocesi. Un corposissimo diario curato da due ragazzi di allora ci restituisce dall’interno quello che era L’oratorio di una volta(98): dal 1927 al 1951, sono annotate giorno per giorno tutte le attività che incessantemente coinvolgevano centinaia di giovani del quartiere in filodrammatiche e spettacoli di burattini, cori, gite sociali e pesche di beneficenza, tornei di calcio ed esercitazioni di ginnastica, lezioni di catechismo, corsi di doposcuola e azioni di propaganda pro buona stampa. La politica è lontana da queste pagine, avvertibile solo qua e là nei rumori di fondo legati ora alle frizioni con il fascismo durante la crisi del 1931 ora alle sintonie con esso durante le guerre d’Africa e di Spagna; comparirà, invece, ben palese nel secondo dopoguerra, in funzione anticomunista. Ma per adesso a prevalere — sempre più visibilmente con il procedere degli anni — è la semina di orgoglio cattolico e fervore militante: «Ascendere ascendere / del Papa sempre a lato, / siccome abbiam giurato / ai piedi dell’altar / possiam sempre cantar: / ‘Vittoria’», recita l’ultima strofa dell’inno dell’associazione giovanile S. Filippo Neri che nel 1938 festeggia il suo quinquennale. Per il resto, è il consueto tourbillon di iniziative ludico-educative, intervallate da momenti conviviali certo non sgraditi ai ragazzi di Cannaregio.

Forse anche per questo l’oratorio di S. Giobbe si era radicato in quegli anni nel sestiere, accogliendo anche i figli di chi era stato socialista e conservava ancora — ben nascosto — il ritratto di Matteotti. Ecco, infatti, come viveva l’oratorio un altro giovane di allora che finirà, però, per fare il partigiano:

Tra i miei ricordi [scrive Mario Zamengo] anche quella volta che dal Circolo ‘Enrico Toti’ i fascisti andarono in Oratorio a San Giobbe a bastonare i frati. Al frate priore, fra Giovanni, hanno bruciato la barba. La sera dopo c’era tanta gente in fondamenta Cannaregio e sul ponte dei tre archi. Correva voce che i fascisti sarebbero ritornati. In Oratorio noi ragazzi andavamo a giocare al pallone, a vedere films con Maciste e Tom Mix, al teatro dei burattini con Facanapa e Arlecchino. Al giovedì grasso andavamo a mangiare i fagioli con le trippe. I frati erano buona gente e io mi auguravo, quella sera, che i ‘becheri’, così chiamavamo quelli che lavoravano al Macello comunale, le suonassero sode ai fascisti. Io avevo una gran considerazione dei ‘becheri’. Erano uomini forti e ne conoscevo tanti: i De Sanzuane, i Panisson, i Fuga, i Bellotto. Qualche giorno prima in fondamenta San Giobbe c’era stata una baruffa tremenda. Ho ancora a distanza di anni una visione nitida: uno dei Fuga, un gigante, che dalla fondamenta con un pugno catapultava un bravaccio su una barca e poi in acqua. Proprio come nei films. Quella sera mi auguravo che succedesse lo stesso con fascisti del Circolo ‘Toti’. Siamo stati qualche ora in attesa sopra il ponte dei Tre Archi. C’erano tanti anche con le fiaccole. Ma quella sera non si fecero vivi(99).

L’esperienza di S. Giobbe (insieme a quella analoga sviluppata dai padri giuseppini nella vicina parrocchia di Madonna dell’Orto) rappresenta peraltro nel contesto veneziano un caso d’eccezione, legato alla relativa libertà d’azione dei frati canossiani che non erano gravati dalla gestione di una parrocchia e si dedicavano in modo esclusivo all’apostolato tra i giovani(100). Altrove la socialità giovanile doveva trovare altri modi per esprimersi al di fuori delle organizzazioni del regime, arrangiandosi con gli spazi aperti concessi dalla città o mercanteggiando il noleggio di qualche stanza, ma sempre sotto minaccia del controllo della polizia(101).

Per il resto, sono proprio le fonti di polizia che confermano la sensazione di un distacco profondo tra ampi settori delle classi popolari e la Venezia dei ‘grandi’ che si riconosce, in questa fase, sotto il segno del littorio. Dietro il velo di una «ammirevole disciplina nel seguire le direttive del regime e nel sopportare sacrifici per il bene del Paese», ci sono infatti — scrive il questore nel 1937 — la disoccupazione e l’aumento dei prezzi che «contribuiscono ad aumentare il disagio economico, specie tra le classi meno abbienti deprimendone lo spirito pubblico»(102).

Nel corso degli anni Trenta a Venezia i disoccupati rimangono sempre in numero superiore a 10.000(103). La diffusione dei furti e gli assembramenti quotidiani che si formano davanti agli uffici di collocamento per tutto il decennio danno il polso di un generico ma persistente «malcontento fra le masse operaie» che si esprime in prepolitici mugugni, sfoghi, rancorosi passaparola tra disoccupati («Ai sindacati siete tutti porci e ruffiani»; «Vegno da Castello per consumarme le scarpe inutilmente e no ghe xe mai gnente! Ruffiani loro e chi ga inventà i Sindacati!»; «Oggi 28 Ottobre, Anniversario della Marcia su Roma. Noi si muore di fame. La fame è generale»(104)). Le disgrazie di un disoccupato possono persino diventare — nelle intenzioni di un giovane un po’ ingenuo con velleità artistiche — oggetto di un’agrodolce parodia, come nel testo di questa canzone che viene stampato in una tipografia veneziana e passa tra moltissime mani, arrivando in più copie anche alla sede del collocamento (e, da qui, direttamente sul tavolo del prefetto):

Cossa gogio da far se no lavoro, / i fioi siga: go fame! Tuti in coro, / me muger me manda ai sindacati / e a tor la boba vado anca dai frati. / Ma un giorno per far presto su una scorsa so cascà / spacando la pignata i fasioi sa rebaltà. / […] / Gnanca al monte no la gho intivada / parché la giacheta la gera tarmada, / dime ti, cosa gogio da far / se l’afito bisogna pagar! / El paron ne mandarà in strada / ale barache ne tocarà andar, / se ’l destino co nualtri la ga fisada / de lasarne sofrir sempre più(105).

Sarà la guerra ad accentuare la disillusione di questa Venezia separata che — nel giudizio dei rappresentanti dello Stato — «si mantiene in un generale indifferentismo pessimistico, quasi estraniandosi alle vicende di una guerra che non trova alcuna ripercussione sentimentale nelle masse popolari, e che si accetta solo come una sciagura necessaria»(106). L’8 settembre, nel nucleo più riposto e impenetrabile dei sestieri veneziani, potrà sembrare la rivelazione di una storia cominciata vent’anni prima, con una ritirata collettiva di cui già ora — all’occhio sensibile del poliziotto — non sfuggono i risvolti più inquietanti:

Come è stato altre volte comunicato l’attività sovversiva è praticamente nulla, non perché non fermentino oscuri e virulenti motivi di rancore, ma perché ogni azione eventuale viene raffrenata dalle pavidità singole, dai molteplici freni di polizia, dall’egoismo dominante il periodo bellico, per cui distolti dalle maggiori preoccupazioni dell’oggi, i dissenzienti rimandano al dopo guerra ogni esplosione di carattere interno. Tutto pertanto si riduce a qualche vociferazione, qualche dattiloscritto diffuso per posta, principi pavidi e disorganizzati di una reazione che cova negli spiriti ed attende per concretarsi un centro favorevole di organizzazione(107).

Piccole isole rosse

Non che ci fosse solo lutto e tristezza in queste mentali ‘uscite di sicurezza’, le quali anzi riattivavano anche a Venezia — come abbiamo visto — i tratti di altre culture d’opposizione, prepolitiche ma vivacissime. La storia delle casse peote vale da antidoto rispetto a rappresentazioni troppo grigie e passivizzanti della vita veneziana tra le due guerre, ed evidenzia anzi quanto fossero coriacee e resistenti — e insieme duttili — certe forme di sociabilità popolare.

La sociabilità della cassa, in particolare, con il suo corollario in osteria, era stata nel recente passato impermeabile ai tentativi di controllo messi in atto sia dalla Chiesa — che aveva tentato di lanciare più morigerate «casse cattoliche» — sia da industriali e notabili interessati alla gestione moderata del mutualismo operaio, e si era invece aperta solo a chi — come certi socialisti, non tutti, e nonostante l’ufficiale propaganda antialcolica del partito — si era mostrato culturalmente e caratterialmente meglio predisposto ad accettarne lo spirito. Furono personaggi — leaders politici e sindacali — come El vecio Elia Musatti, come Pastassuta Angelo Vianello (per non dire di Giacinto Menotti Serrati e Girolamo Li Causi) a consentire negli anni prefascisti l’incontro di quelle due culture — del socialismo e dell’osteria — che per certi aspetti erano arrivate a trovare talvolta una bizzarra duplice cittadinanza persino nei loro soprannomi(108). La destra veneziana aveva invece tradizionalmente preferito i caffè borghesi alle taverne popolari, e quando si era risolta ad entrare in osteria — come negli anni d’anteguerra con l’avanguardia nazionalista insediata nell’osteria «da Codroma», all’Angelo Raffaele, a pochi passi da campo S. Margherita — l’aveva fatto con lo spirito di arguta, dissacrante ma un po’ artificiosa provocazione in partibus infidelium, non rinunciando infatti al vezzo aristocratico e libresco di distinguersi col nome di «Sette Savi»(109). L’esperienza più ‘avanzata’ tentata pochi anni dopo da Gino Covre nelle taverne proletarie di Castello si era presto richiusa insieme alla stagione del fascismo-movimento; il regime, poi, le osterie preferirà combatterle, dal di fuori con la concorrenza del dopolavoro e dal di dentro con i cartelli «qui non si fa politica».

Ma è da questi ambienti che — pur negli anni del silenzio e della repressione — continueranno a uscire, mescolati a istintivi ribellismi e aiutati dalle virtù del vino, gli echi della memoria sovversiva che si esprimeva in canti proibiti e grida sediziose («Viva il socialismo, abbasso il fascismo»; «Evviva Lenin, evviva noi»; «Evviva l’anarchia! Adesso vado a bere una bottiglia di vino»; «Abbasso il fascismo! Evviva il comunismo! Con la fiacchetta [sic] presto ce lo metteremo in culo. Finché ci sono camicie nere io non lavorerò più»; «Viva la Repubblica! Abbasso il Re! Abbasso il Fascismo che fa patire la fame a tutti! Questi signori fanno i banchetti ed il popolo paga e soffre la fame»(110)). Osterie e trattorie ospiteranno cautamente anche gli abboccamenti clandestini dei militanti comunisti e antifascisti sopravvissuti a retate e a ‘processoni’, e persino qualche cassa peota potrà essere convertita in ‘soccorso rosso’ a favore dei compagni in difficoltà(111).

Taverne e officine, calli fuori mano e interni familiari, folle di disoccupati e solitari lembi di laguna: proprio nei luoghi della Venezia coperta e defilata riescono ad esprimersi le superstiti pratiche di antifascismo, in forma di riunioni carbonare, scritte murali e volantini fatti in casa(112). Sono gli ambienti più distanti dalla città ufficiale che garantiscono la protezione a chi fugge dalla polizia e trova, infatti, un luogo sicuro nella zona più ‘malfamata’ di Castello, come calle dei Preti («la gaveva na brutta nomina sta cae, però la gera una roccaforte che se uno vegniva non ghe gera spie…»). Nelle relazioni della polizia politica la città sembra anzi esprimere il massimo della resistenza quasi fisica ad essere mappata, controllata, raddrizzata:

Si dice [riferiva un anonimo confidente nel giugno del ’37] che in quest’ultima quindicina ci sia una certa ripresa in città di propaganda comunista, che dà da fare alla autorità: scritte sui muri, durante la notte, subito, al solito, cancellate al mattino; per le quali gruppi di fascisti travestiti da operai girerebbero di notte tempo i rioni della città, osservando e sorvegliando, per poter cogliere i colpevoli. Specialmente alla Giudecca sarebbe intensa la sorveglianza, come il sestiere più sospetto della città(113).

La Giudecca sin dall’inizio del secolo era diventata un piccolo crogiolo di persone e mestieri che dalla città storica si stavano via via trasferendo nell’isola, dove ancora esistevano spazi adeguati all’impianto di nuove abitazioni e di più ampi stabilimenti industriali. Al nucleo tradizionale di «ortolani, pescatori, barcaioli, facchini e piccoli bottegai» che caratterizzava l’isola ancora ai primi anni del Novecento, si era affiancata la presenza di operai occupati nelle officine meccaniche, nei mulini, nei cantieri e nel porto commerciale. Questo particolare profilo sociologico aveva dapprima favorito la diffusione del socialismo e poi reso non facile la vita a quei «pochi giovani» (erano 15 i fascisti nell’isola nel 1922, secondo il direttore delle scuole comunali giudecchine, Sicinio Bonfanti) che «avevano tentato di opporsi alla marea bolscevica, seguendo le direttive dell’allora sorto Partito Fascista»(114). Negli anni Venti e Trenta, quando si accentuò l’immigrazione nell’isola di non pochi operai veneziani (si passò dai 6.637 abitanti del 1921 ai 9.335 del 1936), la Giudecca divenne luogo di incontro di ‘sovversivi’ che vi trovarono un terreno predisposto ad accoglierne la semina, anche in termini organizzativi (furono quattro le cellule di strada insediate nell’isola dal partito comunista clandestino). La comune esperienza in fabbrica, ma ancor più spesso le relazioni amicali e familiari, erano i presupposti per l’incontro di diverse generazioni di militanti e i canali di trasmissione della memoria antifascista.

Ricordo mio padre [scriveva Remigio Pavanello, figlio di Ruggero] quando, uscito dal carcere, attorno al focolare ci raccontava perché era comunista, ci parlava di un grande paese socialista dove non vi erano sfruttati, dove tutti erano uguali e liberi, dove non c’erano i capitalisti, dove quello che si vedeva era di tutti, dove i ragazzi studiavano senza distinzione. E vedevo i suoi occhi brillare. Eravamo ragazzi e ci insegnava a cantare ‘la Guardia Rossa’, e ‘Bandiera Rossa’. Intanto noi si cresceva ostili al fascismo(115).

Fede politica e affetti familiari fatalmente s’intrecciano in questi ambienti, come vincoli che finiscono per rafforzarsi vicendevolmente. «Me papà el gera un apostolo», diceva Tosca Siviero di suo padre Giovanni, e ne sintetizzava con un aneddoto le lezioni quotidiane:

E muneghe no e me voleva neanca dentro, mi… parché i faseva teatro, e andava co le me amighete… ma parché gera fia de un socialista le me cassava fora… mi so stada sempre rinnegada da tutte… eora un giorno son ’ndada casa e go pianto, go pianto e go dito: ‘Papà, ghe xe teatro dae muneghe e mi no i me vol parché son fia de un socialista… ma cosa xei ’sti socialisti, papà, xe gente cattiva?’ ‘E mi sogo cattivo?’ ‘No, ti ti xe bon, ma tutti no i sarà come ti…’ ‘No, tesoro, i ga da essar tutti come de mi’(116).

Queste famiglie, squassate e insieme fortificate dalla comune militanza dissidente, spesso trovavano nella rete dei vicini e dei compagni di lavoro i sostegni che consentivano loro di sopravvivere all’altalena del carcere e della disoccupazione. Tosca — che il carcere indirettamente conobbe, tanto attraverso l’esperienza del padre e del fratello Otello che del marito Michele Fagherazzi — non dimenticava di essere vissuta per mesi grazie alle collette dei giudecchini: «Ogni sabo ghe gera queo addetto che faseva su i soldi in tutti i stabilimenti che ghe gera… gavemo vissuo proprio con i operai delle fabbriche… ogni sabo gera come una paga che entrava…».

Ma sono gli Spina, forse, a rappresentare meglio — anche nei risvolti più dolorosi — questa sorta di ‘via familiare al socialismo’ profondamente connaturata agli ambienti popolari veneziani: non è un caso che la loro vicenda — «personificazione vivente del movimento operaio veneziano fino dalle sue origini ormai lontane», ebbe a scrivere Riccardo Ravagnan alla morte del capostipite, Attilio Spina, nel 1953 — si svolga intorno ad un’osteria, elemento che ne ha radicato e dilatato la presenza nel vissuto e nella memoria della città. Il «Cantinone» era stato aperto in campo S. Vio — a pochi passi dalle Zattere e dall’Accademia — da Attilio Spina, al suo ritorno dall’apprendistato internazionalista vissuto, nel 1897, come combattente volontario per l’indipendenza della Grecia, insieme ad Amilcare Cipriani e Ricciotti Garibaldi. Il locale — un vero bàcaro anche etimologicamente, perché vi si servivano i vini forti delle Puglie (bàcari) che Attilio importava all’ingrosso — è frequentato in particolare dai lavoratori del porto e diventa una naturale tribuna di socialismo («Mio padre parlava, parlava, parlava: era sempre che parlava… ma di atti di forza non ne ha mai fatti… in osteria, fuori, dappertutto, parlava», racconta la figlia Libertà), che accoglie la stampa ‘sovversiva’ e la propaganda degli organizzatori sindacali dei portuali (da Angelo Pastassuta Vianello a Giorgio Nasi Vian). Non vige, per il vecchio Spina, separazione tra il mondo della politica e quello degli affetti familiari: nel 1908, durante la grande agitazione dei sindacalisti rivoluzionari nel Parmense, insieme alla moglie Angelica si prende in casa tre figli dei lavoratori in sciopero; ai suoi figli, invece, mette i nomi di Ribelle Libero (1907) e di Libertà Eguaglianza Fratellanza (1911).

Il dopoguerra segna il momento di massima esposizione della famiglia sulla scena politica: il Cantinone continua a essere punto di riferimento per i ‘sovversivi’ locali; Attilio corrisponde da Venezia per «L’Avanti!» e «L’Unità» e si impegna attivamente all’interno del neonato partito comunista; il figlio Ribelle inizia giovanissimo la militanza comunista, tenendo i contatti con i compagni di Bologna e Romagna e cercando di riorganizzare clandestinamente il partito in città — annotava il prefetto — «specialmente nei quartieri popolari, avvicinando di preferenza elementi operai giovanissimi che finivano per aderire al suo invito di iscriversi al partito e alla Confederazione Generale del Lavoro». Casa Spina è oggetto, in questi anni, della pressione della polizia e di frequenti spedizioni squadriste che devastano il locale e si accaniscono su Ribelle. È sotto queste spinte che per la famiglia inizia una diaspora, fisica ed esistenziale, destinata a non chiudersi più: mamma Angelica, di fronte ad un pestaggio del figlio, subisce un infarto che la porta in breve alla morte; il Cantinone viene chiuso; Attilio è condannato al confino, a Lipari, dove lo raggiunge Libertà; Ribelle invece — cui il regime per spregio cambia d’ufficio il nome in Lazzaro — riesce a fuggire ed inizia una peregrinazione attraverso le organizzazioni rivoluzionarie di mezza Europa, fino ad approdare in Unione Sovietica nel 1929. Qui conosce lo stalinismo e diventa, una volta di più, esule anche nella sua nuova patria d’elezione.

Chi scrive [annotava Ribelle nelle sue memorie] ha fatto parte di quel grande numero di persone di tutti i paesi che si sono recate in Russia per cercarvi asilo o per attingere direttamente alla Mecca quegli insegnamenti che avevano fatto della sesta parte del globo un paese governato dalla ‘dittatura del proletariato’. Italiano si è trovato con numerosi altri italiani nella capitale del socialismo. I suoi compagni italiani, come quelli delle altre nazionalità, si dividevano in due gruppi. Quelli che credevano e quelli che non credevano. Cioè quelli che assicuravano che per fare la luce ci vogliono le tenebre e quelli che dicevano che la luce è possibile anche senza tenebre. Faceva parte del secondo gruppo. Di quel gruppo che è stato completamente distrutto.

Anche da lontano, la rottura con il comunismo internazionale (Ribelle infatti scappa dalla Russia e si rifugia in Francia, dove aderisce a Giustizia e Libertà: «In generale [scrive ad un’amica nel ’38] son tutti così quelli che ritornano dalla ‘patria dei lavoratori’. Non soltanto delusi, ma ferocemente arrabbiati con tutto quello che è soviettista. Ed hanno ragione») si ripercuote all’interno della famiglia («Ho scritto a mio padre una lettera con la quale l’ho rotta definitivamente con lui. Mia sorella mi ha scritto che quando l’ha letta ha detto: adesso basta!»).

Al Cantinone — che era ancora negli anni del regime, tra ripetute chiusure e riaperture, il cuore della famiglia rimasta a Venezia, e un luogo di socialità ma anche di fronda, dove convergevano popolani, intellettuali e artisti — mille fili avevano invece consolidato il legame con quel comunismo che ai veneziani si presentava sotto sembianze diverse: Libertà ha sposato Alfredo Michelagnoli, un comunista fiorentino conosciuto a Lipari, e, insieme al padre ormai più che settantenne, parteciperà alla Resistenza tra le file del partito.

Anche dopo la guerra — quando la famiglia poté fisicamente riunirsi nella grande casa attigua all’osteria — padre e figlio resteranno politicamente e affettivamente divisi (con Libertà a fare da ponte tra le due generazioni di uomini separati in casa, su piani diversi, senza più rivolgersi parola) e Ribelle sarà anche per suo padre — come per il resto dei comunisti della città — nient’altro che «il traditore», di cui non si parlerà più.

È questo lo scotto di scelte di vita che sembrano provenire da un’altra epoca, ma parlano anch’esse di moralità diverse e parallele che poterono sopravvivere a vari gradi di conformismo ed omologazione («E una volta [ricorda Libertà, guardandosi indietro, ormai quasi novantenne] uno mi ha fermato per dirmi: ‘Un bell’imbecille suo padre… perché va tanto a battersi per queste cose? che lasci passare, lasci passare…’»): un saggio, almeno, della tenacia di certe microtradizioni veneziane difficili da estirpare, della loro intima e spesso conflittuale fedeltà agli affetti, alle memorie, finanche ai luoghi.

Dopo che Attilio muore e il Cantinone viene ceduto, Libertà si inventa una mensa per studenti, in casa sua: comincia con quattro o cinque ragazzi di Architettura (studenti fuori sede, più poveri e più alla mano degli altri, a suo dire, e tutti di sinistra) che con il passaparola arrivano alla cinquantina a metà degli anni Sessanta: li ritroverà, di lì a pochi anni, tra i protagonisti del ’68 veneziano(117).

Bonificare Venezia

Più che gli interventi voluti dal fascismo in chiave di repressione o di rieducazione, fu il mercato degli alloggi a favorire l’opera di ‘ortopedia urbana’ di Venezia, dando un colpo decisivo ai delicati equilibri del vissuto cittadino. L’entrata in vigore nel 1923 della legge che liberalizzava gli affitti autorizzò una vasta campagna di sfratti che coinvolse migliaia di persone. Dopo il profugato dell’ultimo anno di guerra, fu questo il secondo esodo di veneziani, costretti ora ad una mobilità intracittadina che finiva però per intaccare quelle «storie minute e quotidiane di un tessuto edilizio e sociale frammentato e inestricabile, fatto di memorie e di irrisolti problemi, di forme di vita e di tempi, spazi, figure impossibili da omologare»(118).

Alla distanza, se ne videro gli effetti nel censimento del 1931, che segnalava un flusso di popolazione in movimento dal centro della città alle zone più periferiche dei sestieri popolari di Castello, Cannaregio e Dorsoduro (e Giudecca):

I proprietari ristrutturavano i palazzi del centro per farne appartamenti per le classi medie, alberghi e uffici, o trasformavano in negozi i pianterreni dove vivevano le famiglie più povere. Le esigenze abitative degli sfrattati venivano invece risolte in periferia per lo più con il frazionamento dei vecchi alloggi che, anche per far fronte agli aumenti delle pigioni, venivano subaffittati ai nuovi inquilini(119).

Ma la prima e più visibile conseguenza degli sfratti fu la creazione in città di sacche di senza casa alloggiati in ricoveri di fortuna: ex caserme, carceri, ospizi, ospedali dismessi e baracche vere e proprie, come quelle alla Giudecca dove il Comune confinò i tubercolotici con le loro famiglie. «Alla fine del 1925 [scrive Paola Somma in uno studio di storia urbana] 675 famiglie con 4.000 persone si trovavano nei ricoveri del centro storico, tutti situati in località ai margini della laguna ed in qualche caso perfino senza possibilità di comunicazione via terra con la città»(120). L’opera di ‘zonizzazione’ ed anzi ormai di autentica segregazione sociale all’interno della città raggiungeva il suo culmine negativo nella caserma Manin, ai Gesuiti, nel bordo settentrionale della città, dove — d’accordo con la questura — furono ricoverati «gli elementi peggiori» tra gli sfrattati(121). Così ne scriveva al prefetto un rappresentante dell’Associazione proprietari, auspicando «una più conveniente sistemazione per attenuare le conseguenze funeste di un centro d’infezione materiale e morale»:

Gli sfrattati in parola sono coloro che appartengono a categorie da considerarsi in condizioni di volontaria o involontaria inferiorità sociale dovute a miseria, turbolenza, vagabondaggio, alcoolismo, criminalità ecct… ecct… Al loro ricovero venne provveduto molto sommariamente all’atto dello sfratto o per successivi spostamenti da altre baracche comunali, consigliati da gravi motivi di epurazione. Vennero costoro collocati adunque nelle camerate della Caserma che furono tramezzate con assiti in legno e in parte con separazioni costituite da semplici tele di sacco, con una promiscuità invero adamitica. […] La maggior parte dei capi delle famiglie in parola sono disoccupati, sicché quegli abnormi aggregati più umani che sociali, vivono quasi di regola coi magri guadagni delle madri di famiglia impiegate quali avventizie o esercenti il mestiere delle domestiche — delle lavandaie o simili. I ragazzi e le ragazze in generale, meno eccezioni, passano la vita nella ozietà favorente le più pericolose tendenze. La promiscuità tra i due sessi comporta l’opera demolitoria dell’ordine morale di quelle famiglie tra le quali, del resto, non è detto che talune non sieno degne di essere particolarmente curate(122).

All’interno di simili contesti era difficile replicare quelle forme di socialità che caratterizzavano il modo d’abitare delle classi popolari veneziane, e anche la moralità separata, parallela e in qualche modo autogestita su base familiare o vicinale, subiva qui spesso un tracollo all’insegna della precarietà. D’altro canto, queste moderne ‘corti dei miracoli’ risultavano di non facile controllo anche da parte delle autorità e rischiavano di compromettere l’immagine della città e gli interessi turistici ad essa collegati. Il problema della caserma Manin («immorale agglomerato di gente, incentivo a corruzione, e focolare di sporcizie ed epidemie», scriveva il «Gazzettino» nella primavera del ’27(123)), venne affrontato cercando di sistemare i suoi abitanti a piccoli gruppi in altri baraccamenti che via via venivano allestiti(124).

Alla soluzione del problema abitativo cercò di contribuire l’Istituto Autonomo Case Popolari, confermando la scelta di privilegiare le aree periferiche rispetto a quelle centrali «dove [come dichiarava il direttore dell’Istituto, Plinio Donatelli] più facilmente è attratta l’iniziativa privata»(125). Negli anni Venti vengono costruiti nuovi quartieri nelle località Quattro Fontane (Lido), Madonna dell’Orto (Cannaregio), S. Marta (Dorsoduro), Campo di Marte (Giudecca) e S. Elena (Castello)(126). A questi interventi — non privi di decoro e rivolti almeno in parte anche al ceto medio — seguono quelli «ultrapopolari» dei primi anni Trenta in Sacca S. Girolamo (Cannaregio) — dove si pensa di trasferire «gran parte degli sfrattati che ora sono malamente alloggiati nelle baracche di S. Elena, nelle casermette [presso l’Arsenale] e nella Caserma Manin»(127) — e ancora in Campo di Marte, con le «case minime» che consistono praticamente in monolocali da 25 mq e bilocali da 32 mq(128).

Simili risultati finirono per creare delle aree di emarginazione sociale di non facile controllo: S. Girolamo — popolarmente detta «Baia del re» — divenne una sorta di frontiera interna alla città, terra di missione per i frati canossiani e insieme bubbone che periodicamente sprigionava per Venezia turbe di accattoni, monelli e teppisti(129). D’altro canto, questi interventi non risolsero neppure i problemi degli sfrattati che rimasero a migliaia (4.000 nel 1928, almeno 2.000 dieci anni dopo) in alloggi provvisori, creando ulteriore allarme sociale. Terminale del disagio e della quotidiana pressione dei senza casa era il dirigente dell’Ufficio sfrattati del Comune, Attilio Puppolin — che vi era arrivato dopo aver diretto l’Associazione inquilini, sciolta nel ’26 — il quale stilava rapporti interni di questo tenore:

Si avverte codesta Segreteria che non vi sono più ricoveri disponibili e che ogni mattina molte persone (circa una trentina) rimangono per ore nel corridoio che mette all’Ufficio sfrattati con la speranza di poter avere un locale dove ricoverarsi. Ciò si comunica a scanso di responsabilità dato che il numero aumenta ogni giorno, anche perché scadono le proroghe chieste ai vari Commissari di pubblica sicurezza(130).

Sono toni da vera e propria emergenza sociale che la diffusa povertà e la disoccupazione crescente non fanno che acuire. Nel 1926 vengono riaperte le «cucine economiche» per i poveri del Comune; alla fine del 1928, in concomitanza col freddissimo inverno che gela la laguna, la questua dei minorenni assume «proporzioni allarmanti». In prima fila nell’opera di assistenza sono, in questa fase, la congregazione di carità, le donne e la scuola.

Il Fascio femminile — che gestisce a Venezia l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia — è diretto da Maria Pezzè Pascolato, una pedagogista di fama nazionale, già mazziniana passata al nazionalismo e al fascismo(131). Nell’opera di assistenza essa vede aprirsi lo spazio per una presenza femminile nella società («A noi, donne, [il fascismo] ha affidato l’educazione dei piccoli, la buona propaganda igienica e morale tra il popolo, l’assistenza ai poveri, ai malati, ai derelitti, ai pericolanti», scrive nel ’29(132)). All’interno delle nuove strutture associative, le donne della borghesia e dell’aristocrazia veneziana ripropongono un modello filantropico di tipo ottocentesco, come l’istituzione di biblioteche popolari, di corsi di economia domestica, di asili nido presso le carceri e nelle zone popolari o le visite a domicilio alle famiglie povere per «fare opera di fraternità e di comprensione fra le classi sociali». Per i figli degli sfrattati viene aperta a S. Elena una Casa dei bambini; nella stessa zona una Casa dei ragazzi ospita invece discoli, vagabondi e mendicanti, che vengono rastrellati nelle vie della città «per mezzo dei Vigili, delle Guardie, dei privati di buona volontà».

I ragazzi vengono volentieri, ma certi genitori non vogliono lasciarceli per non privarsi dei frutti della questua. La Casa dei ragazzi non può essere, naturalmente, nel centro della città: Sant’Elena è lontana dal centro. Quando un Vigile coglie un ragazzo a elemosinare nei pressi degli alberghi principali, e vuol portarlo alla Casa dell’O.N.M.I. il ragazzo ha imparato a buttarsi a terra e a disperarsi; e allora c’è sempre qualcuno che prende le sue parti: Poveretto! Che male ha fatto? Lo lasci andare… — La lotta non è coi ragazzi, ma con chi li spinge a mendicare(133).

Un’azione non dissimile nelle intenzioni (togliere i bambini «dalle strade e da ambienti igienicamente e talvolta anche moralmente malsani»), ma certo più capillare e strutturata svolgevano i Ricreatori fascisti, sorta di doposcuola istituiti dal Patronato scolastico alla fine del 1925 (erano 104 nel Comune, 90 in città, e raccoglievano circa 4.000 bambini)(134). Negli ambienti più popolari (laddove, come alla Giudecca, «in alcune zone ‘grigie’ della popolazione, specie fra le più povere e in quelle abbandonate alle baracche, v’è molto e molto da desiderare, e per la pulizia e per la disciplina e per la frequenza») la scuola diventava un presidio per una «educazione integrale» dei fanciulli e, per loro tramite, delle famiglie:

I fanciulli sono ormai abituati alla doccia [scriveva il direttore Bonfanti nel 1930], che essi fanno per turno da dicembre a giugno. Non vi sono più alunni ed alunne ‘restii’, per i quali non vi era talvolta, prima, opera di esortazione sufficiente a sottoporli di buona volontà alla benefica bagnatura. Oggi i nostri scolari ne hanno preso l’abitudine ed il gusto. Le doccie vengono prese in locali veramente adatti e comodi, ben riscaldati d’inverno, con l’assistenza di personale serio e pratico, sicché ogni buona norma morale ed igienica è rigorosamente rispettata. Gli insegnanti sorvegliano con vera abnegazione, questo delicato servizio, e non mancano di informare la direzione, ove le condizioni di salute e di pulizia di taluno possano, comunque, rappresentare un lontano pericolo per la collettività. Nei casi in cui questo sia necessario, anche per far risparmiare del denaro alle famiglie, si provvede pei maschi al taglio dei capelli. Gli insegnanti praticano la visita di pulizia quasi ogni giorno, danno lezioni pratiche di pulizia e d’igiene, assegnano compiti di pulizia per casa(135).

Con gli anni Trenta, parallelamente al peggiorare della questione sociale, si assiste ad una modernizzazione delle strutture assistenziali, che vengono professionalizzate, potenziate e poste sotto il diretto controllo del partito fascista. L’Ente Opere Assistenziali viene costituito nel 1931 per coordinare la beneficenza pubblica e privata «incanalandone i rivoli diversi, che prima andavano troppo spesso tortuosi e dispersi, a un unico centro, quasi a cervello pensante, che tutto vede e a tutto provvede». Esso d’estate cura le colonie marine e montane, i campi solari e le scuole all’aperto rivolte ai bambini, che almeno per un po’ potevano venire allontanati «dalla miseria materiale, e spesso anche morale, dalla casa e dalla strada corrompitrice». D’inverno, invece, si occupa del sostegno ai bisognosi attraverso la distribuzione di cibo e beni di prima necessità. Alle tradizionali «cucine economiche» (sono quindici in centro storico e nell’inverno 1931-1932 distribuiscono quasi un milione di «ranci popolari» ai poveri che «nell’ora della dispensa, formavano file fitte e pittoresche davanti ad esse») vengono affiancate significativamente dal 1931 cinque nuove «trattorie popolari» per far fronte, con «un ambiente gradito e ospitale», alle nuove povertà prodotte dalla crisi economica («È ovvio che costoro, pur nella disgrazia, hanno conservato una certa dignità e decoro, e male avrebbero sofferto qualunque forma di pubblicità fatta alla loro miseria, rinunciando magari a mettersi in coda coi poveri riconosciuti davanti alle cucine popolari per aspettare che si scodellasse loro la minestra dei ranci»)(136).

I gruppi fascisti di sestiere divennero i terminali di una rete clientelare tanto più efficace quanto maggiore era lo stato di bisogno di chi vi si rivolgeva, come testimoniano le suppliche rivolte dai baraccati della Giudecca per ottenere alloggi popolari(137). Ogni gruppo aveva, infatti, varie commissioni che si occupavano di sfratti, controllo dei prezzi, raccolta di informazione sugli iscritti, assistenza ai poveri e disbrigo di svariate pratiche burocratiche(138).

Nei sestieri l’assistenza agli indigenti si caricò in maniera sempre più esplicita anche di compiti di controllo e di repressione. Nel 1933 viene introdotto il «libretto di assistenza», che risultava necessario per accedere alle provvidenze (cibo, vestiario, combustibile) e che veniva assegnato dai gruppi rionali solo «alle persone riconosciute, dopo una rigorosa trafila, veramente degne di assistenza». A coadiuvare nell’opera di selezione sono i gruppi fascisti femminili, che hanno diviso ogni sestiere in zone e reparti, affidati a delle responsabili, le quali a loro volta si servono di «visitatrici» «affinché percorrano instancabili i vari settori, entrino nelle case, controllando e riferendo poi sull’entità e sulla natura dei bisogni»(139).

Il sistema rapidamente si perfezionò con la nascita, nel 1937, dell’Ente Comunale di Assistenza, che istituì dei veri e propri corsi di specializzazione per le 263 visitatrici fasciste operanti a Venezia (erano invece 12.472 — pari a 47.627 persone — le famiglie veneziane che ricorrevano all’assistenza nel 1939, delle quali 8.407 — 29.755 persone — risiedevano in centro storico)(140). Vi si insegnava che la visitatrice «è la leva di cui il Regime si vale per penetrare negli strati sociali più umili» e che «l’assistenza materiale dev’essere considerata mezzo ai fini della difesa della razza (profilassi, igiene sociale, ecc.) e strumento per la propaganda dei principi dell’etica fascista, e fattore per la rieducazione morale del popolo». La visitatrice aveva poteri sanzionatori (poteva cioè sospendere le erogazioni a titolo di punizione), controllava il rispetto dell’obbligo scolastico, segnalava i mendicanti da rinchiudere in un apposito istituto a S. Girolamo, denunciava reati e variazioni di domicilio.

La Visitatrice [spiegava la Guida all’assistenza stampata nel 1939] deve procurare di conoscere a fondo le condizioni di ciascuna famiglia assistita dimorante nella zona affidatale, in guisa da valutare esattamente lo stato di bisogno e fornire in qualsiasi momento precise informazioni. Deve a tal uopo mantenersi il più possibile a contatto con gli assistiti, prendendo nota dei mutamenti di condizioni economiche e delle variazioni negli stati di famiglia. Deve raccomandare sempre agli assistiti l’osservanza dell’igiene della casa e delle persone e verificare poi se le sue esortazioni siano state tenute nel debito conto(141).

Si opera, quindi, un tentativo di controllo capillare della città, volto non solo ad affrontare l’emergenza degli sfrattati, ma ormai anche a ‘stanare’ i veneziani dai propri ambienti protetti che la conformazione urbanistica e una consolidata cultura abitativa tuttora garantivano. Un’azione analoga stava peraltro compiendo, parallelamente al regime, anche la Chiesa, che vedeva nella diffusa precarietà economica l’opportunità di esercitare una carità che fosse premessa di una più forte presa spirituale sulle classi popolari. La chiesa di S. Stae — ad esempio — nel 1934 viene adibita a sede della «messa festiva per i poveri della città, preceduta da una particolare istruzione religiosa, e occasione di un aiuto materiale che contribuisse a far godere meglio il giorno del Signore». È, per certi aspetti, lo stesso sistema di proselitismo che già si è visto all’opera nell’oratorio di S. Giobbe; ma in altri contesti esso assume delle sfumature più militanti e utilizza anche strumenti di controllo che ricordano quelli usati dal fascismo. In alcune parrocchie veneziane, ad esempio, sono attivi dei gruppi cattolici femminili che svolgono opera di «apostolato» tra « le madri e le donne del popolo che, o per mancanza di religione, o per condizioni famigliari non possono frequentare la Chiesa». Obiettivo — secondo lo statuto del gruppo dei Frari — è trovare le strade giuste per riavvicinare queste donne al sacerdote.

Per raggiungere tale scopo è necessario riunire le famiglie in vari gruppi e trovare ‘capo-gruppi’ che si incarichino di chiamare all’adunata nel giorno stabilito. Tali ‘capo-gruppo’ o zelatrici (che possibilmente devono essere scelte in seno alle associazioni cattoliche) oltre a trasmettere gli avvertimenti, devono informare la Commissione sulla vita religiosa e morale delle famiglie loro affidate e procurare nuove zelatrici, passando nome e indirizzo alla Commissione stessa. Dato il carattere delicatissimo della loro missione, hanno il dovere della massima segretezza(142).

«Per mezzo di quest’opera [commenta il parroco dei SS. Giovanni e Paolo in riferimento ad un sodalizio affine al precedente] s’è potuto sanare qualche disordine in Parrocchia e portare varie ascritte ad una vita più cristiana»(143).

Della società veneziana si tende a parlare ormai in vari ambiti in termini medici, come di un corpo malato bisognoso di cure. È il lessico di un’epoca — quella del fascismo e della campagna contro l’urbanesimo — che veniva recepito a Venezia con un’urgenza particolare, legata alle caratteristiche strutturali della città. Analoghi toni — certo scevri da moralismi e tutti fondati sull’oggettività delle cifre e dei dati positivi — si riscontrano, infatti, anche tra le pagine della «Rivista Mensile della Città di Venezia», che è espressione dei tecnici razionalisti che dirigono il Comune e che sono impegnati a favorire dagli uffici municipali una non facile modernizzazione della città. La campagna contro l’alcolismo e le osterie, i provvedimenti per la prevenzione e la cura della tubercolosi, la propaganda igienica nelle scuole, l’impegno per la salubrità delle abitazioni e degli ambienti di lavoro, la riforma del servizio di approvvigionamento del latte, la lotta contro i venditori ambulanti di molluschi, sono tutti temi che Raffaele Vivante e i suoi colleghi portano innanzi sin dal primo Novecento, all’insegna di una Venezia ‘normale’, anche a costo di sacrificarne parte del ‘colore’. È in questi settori — e proprio dalla penna di Vivante — che si comincia a proporre come soluzione all’emergenza abitativa un’espansione della città in terraferma, legandola all’auspicio di assunzione di manodopera veneziana nei nuovi stabilimenti di Porto Marghera.

Con gli anni Trenta, tuttavia, i toni si appesantiscono e i discorsi assumono i contorni di una vera e propria battaglia per la ‘bonifica sociale’ della città, cioè per una ripulitura di Venezia dalle incrostazioni umane che ne pregiudicano la fruizione turistica, culturale e di rappresentanza a cui la si vuole destinata. Di qui le campagne di stampa per il «risanamento morale delle più popolate e battute zone centrali dalle case equivoche, che vi si annidavano»(144), contro gli accattoni e contro gli altri usi impropri della città e soprattutto dei suoi spazi centrali e più pregiati(145).

Non corrisponde al vero [si doveva giustificare il prefetto con i suoi superiori, in risposta a due articoli della «Gazzetta di Venezia»] che nelle ore di notte Venezia sia abbandonata a sé stessa; in ben poche città come a Venezia regnano l’ordine e la sicurezza dei cittadini. Con le limitate forze di polizia a disposizione e con sacrificio personale degli Agenti e dell’Arma dei CC.RR. la città è vigilata giorno e notte con pattuglie fisse e con pattuglie mobili miste di CC.RR. ed Agenti, e con una maggiore intensità al Lido, e Sestiere di S. Marco, i quali sono stati sensibilmente rinforzati di Agenti e CC.RR. a motivo della stagione balneare in pieno svolgimento e dei numerosi stranieri che attualmente qui trovansi(146).

Anche gli interventi in chiave monumentale sul tessuto cittadino, come la costruzione della «Riva dell’Impero», sono indirizzati non solo alla celebrazione del regime e al maggior lustro della città, ma anche alla «sistemazione economica e sociale della Riva degli Schiavoni», fascia di frontiera rispetto al nucleo interno e più povero di Castello(147). Di queste esigenze si fece interprete a partire dal 1931 Eugenio Miozzi, la cui nomina a capo della Direzione lavori pubblici del Comune coincise con un maggior interventismo anche urbanistico all’interno della città(148). Miozzi — che pare si vantasse di avere insieme a Sansovino costruito più di chiunque altro a Venezia — aveva progettato e realizzato nel 1933 il «ponte del Littorio», che rappresentava una struttura cardine nel progetto volpiano di «nuova Venezia» dal momento che consentiva il collegamento anche automobilistico con la terraferma. A completamento dell’opera, l’ingegnere realizzò uno sventramento della città al fine di creare il rio Nuovo, cioè un ampio canale che collegasse rapidamente il terminale automobilistico di piazzale Roma con il Canal Grande. Si rivelò ai suoi occhi un’occasione preziosa per mettere un po’ di ordine in quel tratto di città e regolare persino qualche vecchio conto:

Il tratto compreso tra i Tre Ponti ed il Malcanton era, come già si accennò, prima dei lavori costituito da grandi magazzini, da orti, da alcune aree scoperte e da edifici modestissimi e rovinosi; unico edificio di mole era la casa rossa, la casa del popolo, di poco cara memoria ai Veneziani, che tagliava per mezzo questa ampia area(149).

Miozzi chiede interventi radicali anche per il resto della città: propone espropri e demolizioni su larga scala al fine di «togliere di mezzo gli abituri orridi» e stima in 31.700 i veneziani che dovrebbero essere allontanati dal centro storico. Per evitare che la città vecchia resti abitata dai ceti più poveri, suggerisce di sovvenzionare i restauri degli edifici di pregio artistico e dei vecchi palazzi così che possano continuare ad essere convenienti e comodi per i benestanti(150).

È un piano lucido «per una risoluzione della crisi delle abitazioni a Venezia, contemperando le esigenze storiche del decoro edilizio e paesistico», che Miozzi espone forse con maggior chiarezza in un Promemoria al signor Podestà:

Concetto essenziale per la risoluzione del problema è quello di creare un’emigrazione delle classi popolari dai quartieri del centro verso la periferia (o verso i quartieri non centrali ove gli artigiani sono più prossimi alla località del lavoro), ciò che darà luogo ad una emigrazione in senso inverso delle cosiddette classi borghesi, le quali, per naturali ragioni delle professioni loro, abbisognano delle zone centrali in aderenza agli Uffici Pubblici (civici, giudiziari, fiscali, d’istruzione) od agli Enti Bancari e Commerciali. Sarà così raggiunto il naturale adeguamento al valore redditizio delle singole zone cittadine, trovandosi paradossale lo squilibrio costituito dal fatto delle fitte laide case abitate da classi minime al centro di Venezia messo in confronto col valore altissimo delle aree per la forte importanza della loro ubicazione(151).

All’interno di questa logica segregazionista — volta a sradicare dalla città e deportare altrove le frange più marginali e indisciplinate delle classi popolari — stava già agendo da alcuni anni l’amministrazione comunale, che tra il 1934 e il 1938 aveva realizzato tre «villaggi rurali ultraeconomici» in alcune località isolate di terraferma (Ca’ Emiliani, Ca’ Brentelle e Ca’ Sabbioni) che avrebbero dovuto consentire il controllo e la «redenzione» sociale e spirituale dei diseredati (e degli antifascisti, cui venivano promessi una casa e un lavoro purché si impegnassero a non tornare più a Venezia e ad abbandonare la politica(152)). Al riguardo si scriveva che

si è sempre visto come la distruzione di quartieri malsani igienicamente e socialmente e la loro sostituzione con quartieri razionali ha avuto per prima conseguenza una bonifica sociale insperata. L’operaio che ha la sua casa, vive in questa e per questa, si dedica interamente alla sua famiglia, abbandona la bettola, ed, abituandosi alla pulizia, all’aria ed al sole, cerca svaghi sani nello sport, nel turismo o nella cultura(153).

Chi c’era per davvero descriveva, invece, in presa diretta, una ben diversa situazione:

Miseria assoluta, molte famiglie dormono sul nudo pavimento, altre sopra un pagliericcio o con dei pastrani militari, altri ancora sopra delle reti, pochissimi in un letto. […] Invece gente piccola e grande sia uomini che donne, come bambini e bambine all’osteria e fuori tutta la notte e moltissimi di questi specie giovani e ragazze partono verso le otto di sera e vanno per il porto e in marittima, e ritornano a casa verso mattina, con carichi di legna e carbone(154).

Arrivati in barca risalendo i canali con le loro povere masserizie («la réde, la tòla, la credénsa, ’e caréghe») in un mondo rurale ad essi estraneo («gera tuta campagna»), dentro un villaggio tutto allineato, circondato da fossati e controllato da un custode, accolti dalla diffidenza degli abitanti dei paesi circostanti e isolati anche fisicamente dal centro urbano di Mestre, questi individui venivano tenuti lontani anche dal lavoro nelle fabbriche di Marghera e finivano per condurre quella «vita scorretta e disonesta», oziosa, vagabonda e finanche delittuosa, che tanto allarmava le autorità civili e religiose, presto costrette anche qui ad unire gli sforzi per «provvedere ad una vigilanza assistenziale nonché al dislocamento di alcune famiglie della zona in altri luoghi meno abitati»(155).

Siamo nel 1939, e assommano a 2.334, secondo i dati della prefettura, le persone costrette nei tre villaggi. È la punta maggiormente visibile di un più ampio e molecolare movimento verso la terraferma che già il censimento del 1936 segnala in fuoriuscita da tutti i sestieri veneziani (con l’eccezione della Giudecca, che acquista abitanti)(156). Ogni anno, dal 1931 al 1939, in media 1.300 persone lasciano il centro storico e le isole per trasferirsi a Mestre e Marghera, spesso in abitazioni di fortuna, autocostruite: 11.751 individui, che per il 67,5% non svolgono alcuna attività professionale, poiché solo in piccola parte trovano lavoro nelle fabbriche di Marghera(157).

Semplicemente, se ne vanno dalla loro città.

Nello stesso 1939 Volpi tiene all’Università di Zurigo quella pubblica lezione sulle due Venezie, l’antica e la moderna, in cui traccia il bilancio di una fase decisiva per la storia della città, all’insegna dell’orgoglio e della rinascita.

Gli storici — come si sa — hanno il privilegio, che talvolta è un limite, di rileggere il passato a partire dalla fine, sapendo come è andata a finire. Forse è anche per questo che l’immagine del ‘piccolo esodo’ degli anni Trenta (che spesso la massiccia immigrazione a Venezia dei profughi dopo il ’43 mette in ombra) è tentata ai nostri occhi di sfumare in quella — certo diversa — del ‘grande esodo’ di vent’anni dopo, quasi a suggerire che quanto si dipingeva come stagione di grandezza e di nuova giovinezza per la città nascondesse invece, tra le sue maglie, i presupposti del distacco e dell’estinzione di coloro che la abitavano.

1. Giuseppe Volpi, Venezia antica e moderna, Roma 1939, pp. 30-31.

2. Mario Isnenghi, D’Annunzio e l’ideologia della venezianità, in D’Annunzio e Venezia. Atti del convegno, a cura di Emilio Mariano, Roma 1991, pp. 229-244 (ora in Id., L’Italia del fascio, Firenze 1996, pp. 47-61); Id., Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 405-436.

3. Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992.

4. Alvise Zorzi, Venezia scomparsa, Milano 19842, p. 161.

5. Girolamo Li Causi, Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma 1974, p. 61.

6. Raffaele A. Vicentini, Il movimento fascista veneto attraverso il diario di uno squadrista, Venezia s.a. [ma 1935], p. 113.

7. Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1998-1999, pp. 215-239 (ora edita, Padova 2001). Gino Covre, nato a Chions (Udine) nel 1890, dopo aver partecipato alla guerra come ufficiale degli arditi, diventa dirigente del sindacato mezzadri di Chions, con gran seguito tra giovani ed ex combattenti, favorendo il passaggio di alcuni raggruppamenti sindacali socialisti nelle file fasciste; nel 1921 è segretario politico del Fascio di Udine, interpretandone l’ala squadrista e «rivoluzionaria». Dopo l’insuccesso elettorale del maggio, si trasferisce a Venezia dove diventa per alcuni mesi segretario del Fascio — dirigendo di fatto molti degli assalti armati portati dalle squadre d’azione nell’estate del ’21 per la città e la regione — e fonda poi il gruppo dissidente dei Cavalieri della morte. Assunto alle Assicurazioni Generali, diventa confidente O.V.R.A. (Opera Vigilanza Repressione Antifascista), per poi riemergere nel ’43-’45 in Veneto al comando di un battaglione di camicie nere. Muore nell’inverno del ’45, in circostanze non chiarite (Mario Fabbro, Fascismo e lotta politica in Friuli (1920-1926), Venezia 1974, ad indicem; G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 151 ss.; Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino 1999, pp. 230-231; Luigi Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Milano 1999, pp. 56-57).

8. Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia: 1919-1922, Venezia 1977, pp. 274-277.

9. ‘Un popolo di verieri’. Mille anni di lavoro e di lotte dei vetrai di Murano e Venezia. Documenti-Immagini-Testimonianze per una storia ancora da scrivere, Venezia 1982.

10. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 206.

11. Disertori, «Il Secolo Nuovo», 16 settembre 1922; Il dovere dei buoni compagni, ibid., 29 luglio 1922.

12. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 249.

13. Daniele Resini, Cronologia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, p. 412 (pp.317-509).

14. Anna Bellavitis, Anita in fabbrica, in Da una donna la forza delle donne. Anita Mezzalira (1886-1962). Convegno-Testimonianze, «Quaderni di Storia delle Donne Comuniste», 1989, nr. 4, pp. 33-38.

15. Cesco Chinello, Igino Borin (1890-1954), Venezia 1988.

16. D. Resini, Cronologia, pp. 522-523.

17. Le citazioni sono tratte rispettivamente da I lavoratori del porto di Venezia. Un po’ di storia sulle vicende della loro organizzazione, a cura del Provveditorato al Porto, Venezia 1943, e da C. Chinello, Igino Borin, p. 155.

18. Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi. 1895-1922, «Italia Contemporanea», 38, 1987, nr. 169, pp. 63-84.

19. Adolfo Bernardello, La paura del comunismo e dei tumulti popolari a Venezia e nelle province venete nel 1848-49, in Id., Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997, pp. 53-145.

20. Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 169 (pp. 152-225).

21. Mauro Mezzalira, Venezia anni trenta. Il Comune, il partito fascista e le grandi opere, «Italia Contemporanea», 47, 1996, nr. 202, pp. 45-69.

22. Provveditorato al Porto di Venezia, Vent’anni di attività del Provveditorato al Porto di Venezia nell’Era Fascista. 1920-1940, Venezia 1940, p. 92.

23. Giuseppe Tattara, Il mercato del lavoro veneziano, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, pp. 115-129 (pp. 91-129).

24. Fabio Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza lavoro: Venezia e Marghera, in La classe operaia durante il fascismo, a cura di Giulio Sapelli, Milano 1981, p. 602 (pp. 579-636).

25. Giovanni Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, a cura di Emilio Gentile, Roma-Bari 1981, pp. 213-214.

26. Emilio Franzina, Una ‘belle époque’ socialista: venezianità e localismo in età giolittiana, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, p. 291 (pp. 275-306).

27. Proposta di operai veneziani, «Il Gazzettino», 27 maggio 1927, p. 3.

28. F. Ravanne, Migrazioni interne, p. 590.

29. Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera: 1920-1945, Roma 1991.

30. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Polizia Politica, Fascicoli per materia, b. 8, fasc. 196 «Venezia-Servizio Politico di investigazioni. Relazioni», relazione di Bernardi Luigi, 15.12.1928.

31. Ibid., relazioni di Bratovich Giuseppe, 5.4.1930, e di Bona Guido, 10.4.1930.

32. Antonio Pellegrini, Il Dopolavoro a Venezia ed i raduni dei costumi italiani, Venezia 1929, p. 45. Sull’attività pubblica di Pellegrini, cf. Id., Saggi e discorsi. Periodo 1900-1914, Venezia 1938, e Id., Saggi e discorsi. II serie, Venezia 1938.

33. Cit. in Id., Il Dopolavoro a Venezia, p. 107.

34. Nahyr Marsich, Il Carnevale veneziano, «Italia Nova», 5, 1933, nr. 6, p. 33.

35. Cit. in A. Pellegrini, Il Dopolavoro a Venezia, p. 139.

36. Ugo Facco De Lagarda, Gli ultimi arsenalotti, in Id., Morte dell’impiraperle, Venezia 1967, pp. 217-218 (pp. 211-218).

37. Leopoldo Magliaretta, La qualità della vita, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 323-380.

38. Ufficio Municipale d’Igiene, Le stalle a Venezia. Osservazioni ed appunti pel dott. V. Boldrin Veterinario municipale, Venezia 1902.

39. Paola Somma, L’attività di Raffaele Vivante al Comune di Venezia nella prima metà del secolo, «Storia Urbana», 5, 1981, nr. 14, pp. 213-231.

40. Raffaele Vivante, L’igiene pubblica in Venezia. Ciò che si è fatto e ciò che si potrà fare, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 6, 1927, nr. 2, pp. 64-72.

41. Id., Il problema delle abitazioni in Venezia nella sua crisi attuale, ibid., 4, 1925, nr. 2, pp. 25-37.

42. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1926-1930, IX-1-10, relazione in data 27.2.1926.

43. Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. Materiali per una storia architettonica e urbanistica della città nel secolo XIX, Roma 1977.

44. Egle Renata Trincanato, Venezia minore, Milano 1948, p. 42; cf. Lia De Benedetti, Gli studi di storia urbana su Venezia: note bibliografiche (1945-1976), «Storia Urbana», 2, 1978, nr. 5, pp. 211-240.

45. Ringrazio Giovanni Sbordone per avermi anticipato parte di una sua ricerca in corso sulla storia sociale otto-novecentesca di campo S. Margherita.

46. Comune di Venezia, Il censimento generale del 1° dicembre 1921 della popolazione di Venezia, Venezia 1923; R. Vivante, Il problema delle abitazioni, p. 30.

47. Le testimonianze orali citate nel testo sono tratte — salvo diversa indicazione — dagli archivi privati di Maria Teresa Sega (archivio contenente le audiocassette di trenta interviste raccolte negli anni Ottanta e Novanta tra popolane e militanti comuniste veneziane) e di Nadia Maria Filippini (in particolare, le trascrizioni delle interviste raccolte in occasione della ricerca sulle impiraresse svolta per conto del Centro Donna del Comune di Venezia nel 1988-1989, in preparazione della mostra storico-documentaria «Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900» tenutasi a Venezia nel 1990).

48. Armando Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Venezia 19792, p. 21. Armando Gavagnin (1901-1978), nato da una famiglia operaia di Castello («Ho aperto gli occhi nella più modesta casa di una stretta calle veneziana, la quale si riempiva al mattino e alla sera di operai del vicino Arsenale, che si recavano al lavoro o ne tornavano», ibid., p. 15), è un ragazzo dai «mille mestieri» (garzone di bottega, manovale e impiegato nelle ferrovie, operaio alla Fiat, correttore di bozze e giornalista al «Gazzettino»); repubblicano, nel 1928 è arrestato e condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato per aver aderito all’associazione antifascista Giovane Italia. Segretario provinciale del partito d’azione dall’8 settembre alla Liberazione, tra il 1945 e il 1946 dirige «Il Gazzettino» per conto del Comitato di Liberazione Nazionale. Aderisce al partito socialdemocratico e, dal 1958, a quello socialista, partecipando con varie cariche all’amministrazione del Comune di Venezia, di cui è sindaco per pochi mesi — tra il 1958 e il 1959 — in una giunta di minoranza che anticipa la prima amministrazione di centrosinistra. Ispirati in gran parte alla sua vicenda autobiografica e ricchi di testimonianze veneziane sono i suoi libri: Una lettera al re, Firenze 1951 (ma scritto nel 1937-1938), e il già citato Vent’anni di resistenza al fascismo, scritto in parte tra il 1944 e il 1945.

49. Attilio Dusso, Le scuole elementari di Venezia nell’anno scolastico 1922-23, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 12, p. 13 (pp. 12-16).

50. Bruno Bertoli, Una diocesi all’ombra di Pio X, in La Chiesa di Venezia nel primo Novecento, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1995, p. 54 (pp. 11-61).

51. Venezia, Archivio Storico del Patriarcato, Archivio segreto, Visita Pastorale del Cardinale Pietro La Fontaine 1917-1919 [ma 1917-1920], voll. I e III.

52. Il testo — che riprende una pagina anonima scritta prima della guerra — è pubblicato in Giovanni Vian, L’azione pastorale del Patriarca La Fontaine, in La Chiesa di Venezia nel primo Novecento, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1995, p. 87 (pp. 85-123).

53. Titoli tratti dalle pagine veneziane di «Gazzetta di Venezia» e «Il Gazzettino», anni 1927-1933.

54. Dopo una partita a carte insegue con il coltello i compagni, «Gazzetta di Venezia», 18 gennaio 1932, p. 4.

55. Emilio Franzina, Introduzione, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, pp. 72-97 (pp. 3-113).

56. Cesare Musatti, Il gergo dei barcaiuoli veneziani e Carlo Goldoni, in L’Ateneo Veneto a Carlo Goldoni, «Ateneo Veneto», 30, 1907, nr. 1/1, p. 59 (pp. 57-66).

57. La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Roma 1971; Le visite pastorali di Jacopo Monico nella Diocesi di Venezia (1829-1845), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Vicenza 1976.

58. Due discolacci, «Gazzetta di Venezia», 11 gennaio 1929, p. 4.

59. Motti e dileggi, ibid., 18 gennaio 1932, p. 4.

60. Ciassetti e spasseti a S. Antonin, «Il Gazzettino», 4 ottobre 1928, p. 3.

61. Nadia M. Filippini, Organizzazione del lavoro, ruoli sociali e familiari nei racconti delle impiraperle (1910-1950), in Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990, p. 42 (pp. 28-46).

62. Bimbi del popolo, «Il Gazzettino», 10 febbraio 1928; Andrea Penso, I giochi di quando eravamo ragazzi a Venezia, a Trieste, in Friuli, Venezia 1999.

63. A. Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo, pp. 20-21; Gianfranco Bettin, Qualcosa che brucia, Milano 19952, pp. 24-33; Francesco Basaldella, Giudecca. Storia e testimonianze, Venezia 1986, p. 513.

64. Elio Zorzi, Osterie veneziane, Venezia 1967 [1928]; Hans Barth, Osteria. Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri, prefazione di Gabriele D’Annunzio, Venezia 19723, pp. 97-109.

65. Vicende igienico-sanitarie dei lavoratori portuali di Venezia. L’alimentazione, «Rivista Mensile del Provveditorato al Porto di Venezia», 3, 1939, pp. 43-44.

66. «A mio marito piaceva tanto la compagnia. Siccome a Murano, adesso ci sono tutte botteghe di vetri, ma una volta c’erano tutte osterie e allora quando finiva il lavoro veniva a farsi bello, lavarsi, cambiarsi e andava via con i suoi amici. Praticava, mettiamo, su una parte qua di Murano — perché, ciò, è grandetto, no? — tutte le osterie erano sue e allora veniva a casa e era più ubriaco che…» (Venezia, Archivio Filippini, Ilde, classe 1913, test. 9B).

67. Raffaele Vivante, Per una revisione della legislazione contro l’alcoolismo, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 10, pp. 3-13; Id., Le difficoltà della lotta legislativa contro l’alcoolismo e la propaganda antialcoolica nelle scuole elementari di Venezia, ibid., 3, 1924, nr. 2, pp. 33-37.

68. N.M. Filippini, Organizzazione del lavoro, pp. 44-45.

69. Atti della Commissione d’inchiesta sulle forme minute d’usura in Venezia. Ottobre 1912-Dicembre 1913, Venezia 1914.

70. Giuseppe Dell’Oro, Ancora più di mille in città le ‘casse peote’ e le ‘mutue’, «Il Gazzettino», 27 agosto 1959, p. 5.

71. «…una volta si facevano i pranzi. Si andava a Padova, a Treviso in carrozza, sono andata due o tre volte che ero in cassa qua da mia cognata Panisson, che erano famiglie di macellai, che lavoravano in macelleria e che hanno la bottega di macellai. E allora eravamo tutte cognate, e una volta o due l’anno, con i soldi che facevamo su, si andava a far una mangiata a Treviso, a Carpenedo, in carrozza a cantare: tutti fuori dalle botteghe, facevano: ‘Xe qua i Venessiani, xe qua queli de la cassa’. E gli uomini macellai avevano la cassa anche loro stavano via anche una settimana perché loro andavano a Treviso, a Feltre, di qua e di là, stavano via…» (Venezia, Archivio Filippini, Iside, classe 1914, test. 12B).

72. «Cominciavano dal risotto a la sbiraglia, che sarebbe il risotto di pollo col quarto di pollo sopra e quello sarebbe stato l’antipasto; dopo mangiavano bigoli in salsa, la pasta e fagioli… insomma, i famosi pranzi della cassa che mangiavano finché — dico — gli scoppiasse la pancia! Le dico che delle volte, quando abbiamo gente, ho sempre paura che gli manchi, allora faccio come quell’altra sera, che poi ho buttato via tutto, e mio figlio Giuliano mi dice: ‘Mamma, hai fatto il pranzo della cassa?’… ecco, è restato il detto… il pranzo della cassa, quando dicono i pranzi lauti, abbondanti, ma non fini, proprio una abbuffata, insomma…» (ibid., Wanda, classe 1915, test. 11B).

73. Ugo Facco De Lagarda, La centenaria, in Id., Morte dell’impiraperle, Venezia 1967, p. 294 (pp. 289-296).

74. Tiziano Scarpa, In gita a Venezia con Tiziano Scarpa, Torino 1998, p. 16.

75. Mario Bonfantini, Scomparso a Venezia, Torino 1972, p. 75.

76. Ugo Facco De Lagarda, Orti, giardini, squeri, in Id., Venezia, Venezia s.a., pp. 108-110.

77. M. Bonfantini, Scomparso a Venezia, p. 89.

78. Ernesto Brunetta, La lotta armata: spontaneità e organizzazione, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 398 (pp. 395-450).

79. «Quando che c’era staìa era triste, ah, perché insomma alla mamma toccava arrangiarsi con quel poco di soldi che portava a casa mio papà, che veniva a casa poveretto — si alzavano, andavano a pescare di notte — e quando era mattina presto, presto, sa, ma alle quattro e mezza, cinque, veniva a casa e in magazzino c’era una tavola grande, più grande di questa… scaricava tutto quanto quello che aveva pescato e facevamo la cernita tutti quanti: da una parte le masanete, da una parte i granchi, da una parte i sfogeti, e dopo andava in pescheria a vendere… a Rialto… e dopo quando era le undici e mezza, mezzogiorno, arrivava a casa, e con i soldi che aveva preso, una parte li dava a mia mamma — i più pochi erano sempre quelli per mia mamma — e una parte se li teneva in tasca lui, per i suoi bisogni, diciamo, perché andava fuori, andava in osteria a giocare la partita alle carte, si beveva una ombra… dopo si preparava da mangiare, lei faceva la polenta e lui friggeva il pesce… era proprio il lavoro di tutti i mezzogiorni, diciamo… dopo andava fuori, in fondamenta, là da Pinto, là perché quando che pescava in mezzo a tutto quello che pescava, prendeva anche ostriche, e allora le ostriche se le teneva lui. E allora quando che avevamo finito di mangiare che andava fuori, andava da Pinto, che era una osteria proprio in fondamenta dei Ormesini e si portava ’sto corbato di ostriche. Lui stava là, aiutava e vendeva anche le ostriche, vendeva, e così, e dopo magari a una certa ora giocava una partita alle carte e quando era sera veniva a casa a cena… e dopo cena andava fuori un’altra volta, e dopo mia mamma se aveva voglia andava a prenderlo e venivano a casa insieme e c’era anche suo compare che andavano a pescare insieme, che era suo compare, si trovavano, stavano là così un pochettino, dopo venivano a casa… C’era l’abitudine di mettersi fuori a lavorare… ma non solo a lavorare, anche la sera a stare in compagnia si mettevano fuori con la seggiola, tutte quante, la giù dal ponte della calle Turlona, in quella fondamenta che c’è là, quando era sera, a una certa ora tutte quante si portavano da basso la seggiola… Quando era una certa ora, non c’era la televisione o la radio come adesso, e allora c’erano i miei fratelli, poveretti, che erano giovani e quando era la sera venivano con le ragazze, avevano la morosa, l’amica e si mettevano giù coi mandolini, con le chitarre, si usava, e suonavano, magari davano anche qualche ballatina… e mia mamma ci metteva a letto noialtri piccoli e dopo si metteva in cucina, e mi ricordo quel rumore della sessola, degli aghi con la sessola, era come la ninna nanna…» (Venezia, Archivio Filippini, Gina, classe 1916, test. 21B).

80. E.R. Trincanato, Venezia minore, pp. 45 e 66.

81. Giovanni Comisso, Un’ape a Venezia, in Id., Veneto felice. Itinerari e racconti, a cura di Nico Naldini, Milano 1984, pp. 13-32.

82. Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990.

83. «Io ho un fratello che faceva il fornaio, quella volta ai fornai gli toccava alzarsi alle due e mezza, tre della mattina… e mia mamma si alzava anche lei a quell’ora per accompagnarlo perché non si fidava a lasciarlo andar da solo… ciò, era giovane, sedici, diciassette anni… lo andava a accompagnare fino a Rio Marin dalla calle Turlona e dopo tornava indietro» (Venezia, Archivio Filippini, Gina, classe 1916, test. 21B).

84. Francesco Piva, Il reclutamento della forza-lavoro: paesaggi sociali e politica imprenditoriale, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Id.- Giuseppe Tattara, Venezia 1983, pp. 325-463.

85. R. Vivante, L’igiene pubblica, p. 64.

86. Giovanni Sbordone ha calcolato, per l’area campione di campo S. Margherita nel periodo 1869-1931, percentuali tra il 30 e il 40% di residenti con un parente prossimo (genitore, fratello, figlio) nella stessa area (cf. n. 45).

87. Giovanni Lasorsa, La ricchezza privata nella provincia di Venezia, Padova 1934, p. 254.

88. Emilio Franzina, Società e popolazione a Venezia dall’unità al fascismo, in Id., La transizione dolce. Storie del Veneto tra ’800 e ’900, Verona 1990, pp. 217-237; Glauco Sanga, La colonia in patria. La funzione della cultura tradizionale nella costruzione dell’ideologia premanese, in Premana. Ricerca su una comunità artigiana, a cura di Guido Bertolotti et al., Milano 1979, pp. 286-288 (pp. 271-528); Daniela Perco, Balie da latte. Una forma peculiare di emigrazione temporanea, Feltre 1984.

89. L. Magliaretta, La qualità della vita, pp. 368-373; E. Zorzi, Osterie veneziane, pp. 281-287.

90. Testimonianza all’autore di Giuliano Zanon.

91. Paolo Barbaro, Venezia. La città ritrovata. L’idea di città in una nuova guida sentimentale, Venezia 1998, pp. 93-94.

92. Dal villaggio di San Lio, «Il Gazzettino», 5 luglio 1928, p. 3.

93. Antonio Niero, Il capitello nella storia della religiosità popolare veneziana, in I ‘capitelli’ e la società religiosa veneta. Atti del convegno, a cura di Alba Lazzaretto Zanolo-Ermenegildo Reato, Vicenza 1979, pp. 21-60; Id., Tradizioni popolari veneziane e venete. I mesi dell’anno. Le feste religiose, a cura di Andrea Gallo-Sara Giacomelli Scalabrin, Venezia 1990, pp. 179-181; Venezia, Archivio Sega, testimonianza di Ofelia Fagherazzi.

94. A. Niero, Il capitello, p. 24.

95. Id., Il culto dei santi nell’arte popolare, in Id.-Giovanni Musolino-Silvio Tramontin, Santità a Venezia, Venezia 1972, p. 278 (pp. 229-289).

96. Mario Isnenghi, Alle origini del 18 aprile. Miti, riti e mass media, in La Democrazia Cristiana dal fascismo al 18 aprile. Movimento cattolico e Democrazia Cristiana nel Veneto. 1945-1948, a cura di Id.-Silvio Lanaro, Venezia 1978, pp. 284-287 (pp. 277-344).

97. Bruno Bertoli, Indirizzi pastorali del patriarca Piazza, in La chiesa di Venezia dalla seconda guerra mondiale al concilio, a cura di Id., Venezia 1997, p. 39 (pp. 15-68).

98. G. Molin-L. Runchi, L’oratorio di una volta. Diario, quasi storia, dell’Oratorio dei P.P. Canossiani di S. Giobbe in Venezia dal 1927 al 1951, I-II, s.l. 1996 (ediz. a cura degli autori).

99. Mario Zamengo, Giorni di guerra (1985; dattiloscritto inedito conservato in Venezia, Archivio dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Turcato, b. 1).

100. Cf. il saggio di Loredana Nardo in questo volume.

101. Quattro salti finiti male, «Il Gazzettino», 17 aprile 1928, p. 3; Balli non autorizzati, ibid., 7 agosto 1928, p. 3.

102. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione affari Generali e Riservati, 1941, b. 58, fasc. «Venezia», relazioni del questore al capo della polizia, 12.4.1937 e 10.5.1937.

103. F. Ravanne, Migrazioni interne, p. 623.

104. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1933, I sez., b. 10, relazioni del prefetto di Venezia al ministro dell’Interno, 12.2.1933, 20.7.1933; 1934, b. 8, fasc. «Venezia», relazione del prefetto di Venezia al ministro dell’Interno, 31.10.1934.

105. Ibid., 1934, b. 8, fasc. «Venezia», relazione del prefetto di Venezia al ministro dell’Interno, 20.4.1934.

106. Ibid., 1941, b. 58, fasc. «Venezia», relazione del questore di Venezia al capo della polizia, 26.6.1941.

107. Ibid., relazione del questore di Venezia al capo della polizia, 26.12.1941.

108. E. Zorzi, Osterie veneziane, pp. 99-100; Elia Musatti, ‘El vecio’, «Secolo Nuovo», 18 settembre 1960. Cf. anche, per il secondo dopoguerra, Cesco Chinello, Giovanni Tonetti, il ‘conte rosso’. Contrasti di una vita e di una militanza (1888-1970), Venezia 1997, pp. 114-119.

109. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 417-425 (pp. 381-482); Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998.

110. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1930-31, b. 353, relazioni del prefetto di Venezia al ministro dell’Interno, 11.10.1930 e 5.6.1931; 1934, b. 8, fasc. «Venezia», relazioni del prefetto di Venezia al ministro dell’Interno, 17.2.1934 e 2.4.1934.

111. 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 416-418.

112. Ne fanno fede le segnalazioni riportate nei fascicoli dei «sovversivi» conservati nel casellario politico centrale. V., ad esempio, la relazione in data 9.4.1932 con oggetto «Movimento comunista a Venezia e a Mestre», in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, b. 1147, fasc. «Contavalli Giovanni».

113. Ibid., Divisione Polizia Politica, Fascicoli per materia, b. 8, fasc. 4 «Venezia. Comunismo», informativa anonima, 29.6.1937.

114. Sicinio Bonfanti, La Giudecca nella storia, nell’arte, nella vita, Venezia 1930, pp. 158 e 212.

115. Cit. in G. Paolo Sprocati, Antifascisti alla Giudecca, Venezia 1990, p. 26.

116. «Le monache non mi volevano neanche dentro, a me… perché facevano teatro, e andavo con le mie amichette… ma perché ero figlia di un socialista mi cacciavano fuori… io sono sempre stata rinnegata da tutte… allora un giorno sono andata a casa e ho pianto, ho pianto e ho detto: ‘Papà, c’è teatro dalle monache e a me non mi vogliono perché son figlia di un socialista… ma cosa sono ’sti socialisti, papà? Sono gente cattiva?’ ‘E io sono cattivo?’ ‘No, papà, tu sei buono, ma tutti non saranno come te…’ ‘No, tesoro, devono essere tutti come me’» (Venezia, Archivio Sega, testimonianza Tosca Siviero).

117. Oltre alle testimonianze orali all’autore di Libertà Spina, Michele Spina ed Elisabetta Ginanneschi, sono stati consultati l’archivio della famiglia (che contiene le pagine autobiografiche di Ribelle), i fascicoli intestati ad Attilio Spina, Ribelle Spina e Alfredo Michelagnoli in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, bb. 4911, 4912 e 3263, e le testimonianze in 1943-1945. Venezia nella Resistenza, pp. 337-344.

118. Giandomenico Romanelli, Venezia Novecento, in Venezia Novecento. Reale Fotografia Giacomelli, Milano 1998, pp. 11-13.

119. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1926-1930, IX-1-10, relazione allegata alla «Memoria sulle condizioni di Venezia rispetto agli alloggi» del commissario prefettizio all’avv. Carmelo Damiano, ispettore superiore nel Ministero di Giustizia, 28.9.1925. Comune di Venezia, R. Vivante. Nuovo contributo allo studio del problema delle abitazioni in Venezia, Venezia 1935; Lo stato attuale del problema degli alloggi, «Gazzetta di Venezia», 14 settembre 1927, p. 4; G. Lasorsa, La ricchezza privata, pp. 240-261.

120. Paola Somma, Venezia nuova. La politica della casa 1893-1941, in Venezia nuova. La politica della casa 1893-1941, catalogo della mostra, a cura di Ead., Venezia 1983, p. 73 (pp. 13-141).

121. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1921-1925, IX-1-8, lettera del commissario prefettizio di Venezia Fornaciari, 9.3.1925.

122. Ibid., 1926-1930, IX-1-9, relazione di Carlo Lanza al prefetto e al commissario prefettizio di Venezia, 16.1.1926.

123. Bestie umane, «Il Gazzettino», 1° aprile 1927, p. 3.

124. S’inizia lo sgombero della Caserma Manin, «Gazzetta di Venezia», 31 agosto 1927, p. 5.

125. Plinio Donatelli, L’Istituto autonomo per le case popolari, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 8, pp. 1-35.

126. Id., La casa a Venezia nell’opera del suo Istituto, Roma 1928.

127. Come Venezia ha affrontato il problema degli sfrattati. Case per 1200 persone a S. Girolamo, «Gazzetta di Venezia», 19 gennaio 1929, p. 4.

128. Laura De Carli-Michele Zoggia, Tipologie edilizie e qualità architettonica, in Edilizia popolare a Venezia. Storia, politiche, realizzazioni dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Venezia, a cura di Elia Barbiani, Milano 1983, pp. 123-124 (pp. 112-140); Francesco Basaldella, Spinalonga. Storia e nuove testimonianze sulla Giudecca, Venezia 1993.

129. G. Molin-L. Runchi, L’oratorio di una volta, p. 31; Una turba di monelli che devasta una casetta, «Gazzetta di Venezia», 1° dicembre 1929, p. 5.

130. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1926-1930, IX-1-10, relazione di Attilio Puppolin alla segreteria, 15.10.1930.

131. Margherita Deleuse, Maria Pezzè Pascolato, «Italia Nova», 5, 1933, nr. 5, pp. 16-22.

132. Maria Pezzè Pascolato, Fasci femminili, ibid., 1, 1929, nr. 1, pp. 12-14.

133. Opera Nazionale Maternità e Infanzia, ibid., 3, 1931, nr. 7, pp. 16-22.

134. Aurelio Cavalieri, L’assistenza Veneziana alla Scuola Primaria, «Rivista di Venezia a cura del Comune», luglio 1933, pp. 366-368.

135. S. Bonfanti, La Giudecca, pp. 167-169.

136. Ente Opere Assistenziali. Le provvidenze dell’anno X, «Italia Nova», 5, 1933, nr. 4, pp. 3-26.

137. Lettere in data 1934 conservate in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1936-1940, X-7-16.

138. I gruppi del Fascio Veneziano, «Italia Nova», 7, 1934, nr. 2, pp. 16-21.

139. Ente Opere Assistenziali. Le provvidenze dell’anno X, p. 21.

140. Ente Comunale di Assistenza di Venezia, Relazione sull’attività svolta nell’anno XVII e programma per l’anno XVIII, Venezia 1939.

141. Id., Guida all’assistenza, Venezia 1939, pp. 13-14.

142. Venezia, Archivio Storico del Patriarcato, Archivio segreto, Visita Pastorale del Cardinale Pietro La Fontaine, fasc. «Visite Pastorali del Card. La Fontaine - 1930», sottofasc. «Parrocchia di S.M.G. dei Frari».

143. Ibid., fasc. «Visite Pastorali del Card. La Fontaine - 1929», sottofasc. «S. Giovanni e Paolo».

144. La zona di S. Fantin epurata, «Il Gazzettino», 5 gennaio 1929, p. 5.

145. Ente Comunale di Assistenza di Venezia, Relazione sull’attività.

146. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1930-31, b. 334, fasc. «Venezia», lettera del prefetto di Venezia al ministro dell’Interno con oggetto «Ordine pubblico in Venezia», 16.7.1931.

147. P. Somma, Venezia nuova, p. 137.

148. Eugenio Miozzi 1889-1979. Inventario analitico dell’archivio, a cura di Valeria Farinati, Venezia 1997.

149. Eugenio Miozzi, Il ponte del Littorio, Venezia 1934, p. 160.

150. Comune di Venezia, Progetto di massima per il piano di risanamento di Venezia insulare. Redatto dall’Ingegnere Capo Eugenio Miozzi, Venezia 1939, pp. 49-61.

151. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1936-1940, X-7-12, in data 7.2.1939 (sottolineature nell’originale).

152. Giuseppe Facca, Marghera, nascita di un quartiere, in La città invisibile. Storia di Mestre. Atti del convegno, Venezia 1990, p. 137 (pp. 130-139).

153. Aldo Torresini, La morbilità per malattie infettive e per tubercolosi polmonare in rapporto alla casa. Inchiesta condotta sulle abitazioni del Comune di Venezia in margine al Piano di Risanamento della Città, Venezia 1938, p. 9.

154. Registro delle memorie di S. Maria della Rana dal 1930 al 1960. Una fonte per la storia di Ca’ Emiliani a Marghera, a cura di Piero Brunello-Fabio Brusò, Mestre 1997, p. 20.

155. Fabio Brusò, Il Villaggio di Ca’ Emiliani (1934-1940), ibid., pp. 135-157; Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1936-1940, X-7-16, lettera del prefetto di Venezia al podestà di Venezia (4.9.1939) e risposta (11.9.1939) con oggetto «Frazioni di Ca’ Emiliani, Ca’ Sabbioni e Ca’ Brentelle».

156. Cf. n. 119.

157. F. Ravanne, Migrazioni interne, pp. 624-625.

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