I percorsi della moda made in Italy

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

I percorsi della moda made in Italy

Andrea Merlotti

Siamo così abituati a pensare alla moda italiana come a un elemento costitutivo dell’identità del nostro Paese, da dimenticarci spesso che essa è, invece, una realtà abbastanza recente. Tanto recente che, di fatto, si pone come identità della Repubblica italiana, più che dell’Italia in senso stretto. Certo sin dall’Unità la necessità di creare una moda nazionale era stata avanzata da più parti, ma senza successo. Il fascismo aveva costituito nel 1935 l’Ente nazionale moda, fissandone la sede a Torino, ma questo, pur avendo individuato correttamente le linee dell’azione da seguire, aveva potuto fare poco. Alla moda italiana serviva innanzitutto un mercato che non poteva essere certo quello italiano, a causa dell’arretratezza sociale del Paese, ma neppure quello della Francia o dell’Inghilterra, gli unici Paesi con una società abbastanza avanzata, ma che erano, da un lato, i leader della moda dell’epoca e, dall’altro, i nemici politici dell’Italia. Restavano gli Stati Uniti, ma anche in questo caso le condizioni politiche erano avverse. Eppure il successo hollywoodiano di Salvatore Ferragamo (1898-1960) mostrava che quella era la strada da seguire.

Solo nel secondo dopoguerra il mutato quadro politico permise sia quella che potremmo definire la presa di coscienza della moda italiana sia la sua affermazione ed espansione sui mercati esteri. Gli storici della moda sono soliti considerare come momento fondativo della moda italiana il First Italian high fashion show, la sfilata che il conte Giovan Battista Giorgini (1898-1971) organizzò a Firenze il 12 febbraio 1951 per presentare abiti e accessori italiani a compratori americani, seguito da un secondo show nel luglio dello stesso anno. Oggi che i Fashion show sono stati oggetto di libri e di mostre ad hoc può stupire che essi all’epoca avessero nel complesso poco risalto, come mostrano le pagine di alcuni dei principali giornali italiani del 1951. In realtà, al di là delle rivalità fra città – su cui avremo modo di tornare –, le prime sfilate di Firenze s’inserivano in un quadro assai più vivace di quanto non si potrebbe pensare e dal quale sarà opportuno partire per comprendere non soltanto la storia della moda italiana, ma anche il rapporto fra questa e il mondo dell’industria.

Quattro città: Roma, Firenze, Torino e Milano

Fra il 1946 e il 1951 erano state molte le mostre e le sfilate organizzate per promuovere la ripresa della moda in Italia e, insieme, per stabilire migliori rapporti fra questa e le realtà dell’industria tessile settentrionale e per aprirla, così, ai mercati internazionali. Per comprendere questo quadro, può essere utile spostarsi sull’asse Torino-Milano, importante per la storia della moda in Italia tanto quanto quello Firenze-Roma.

Il 6 ottobre 1946, a quattro mesi dalla caduta della monarchia, il Palazzo reale di Torino riapriva i suoi battenti per ospitare in diciotto delle sue storiche sale la prima Mostra nazionale dell’arte della moda. A organizzarla era l’Ente moda: non, naturalmente, quello fascista, ma uno nuovo, non ancora riconosciuto dallo Stato, che rivendicava l’eredità del precedente. La mostra dell’ottobre 1946 riannodava, quindi, i fili di un discorso interrotto, e lo faceva a partire dal rapporto fra industria tessile e moda, che sarebbe stato per un ventennio oggetto di infinite discussioni e progetti, e dal legame fra produzione italiana e mercato estero.

A presiedere il nuovo Ente moda era stato chiamato il conte Dino Lora Totino di Cervinia (1900-1980), oggi ricordato soprattutto per la sua attività di ingegnere sulle Alpi (dove fu l’anima della realizzazione del traforo del Monte Bianco e promosse la costruzione delle funivie del Cervino e di Chamonix), ma che proveniva da un’antica famiglia di lanieri biellesi e conosceva bene, quindi, quell’industria tessile che era una delle principali forze economiche italiane. Nella ricostruzione dell’Ente aveva avuto parte importante anche il sindaco di Torino, il comunista Giovanni Roveda (1894-1962). Per questi – e, più in generale, per tutto il Partito comunista italiano – essa era giudicata di grande importanza: già nell’ottobre del 1945 Roveda aveva assicurato che l’Ente, rifondato da pochi mesi, sarebbe rimasto a Torino, migliorando così le condizioni di «un gran numero di lavoratori e lavoratrici» («La nuova stampa», 27 ottobre 1945, p. 2). Le autorità torinesi ben comprendevano quanto la ripresa dell’industria tessile e il suo collegamento con il mondo della moda fosse centrale per lo sviluppo economico del Piemonte e dell’Italia. Non a caso la mostra si svolgeva con il patrocinio (e il finanziamento) della Camera di commercio e dell’Unione industriale.

«Competere con l’estero per imporci a quello col nostro buon gusto»: questo per Lora Totino era lo scopo della mostra, cui partecipavano 75 case di moda italiane (oltre a diverse case francesi). Fra queste vi erano alcune delle principali maisons della penisola, come Fontana e Antonelli da Roma; Biki, Fiorani e Vanna da Milano.

La mostra del 1946 era solo l’inizio della battaglia per il riconoscimento da parte dello Stato dell’ente torinese. Esso era ormai sicuro del riconoscimento formale dal governo, quando, nel 1949, sia a Roma sia a Milano furono fondate due istituzioni che ambivano anch’esse ad assumere l’eredità dell’ente fascista e che non riconoscevano il ruolo di Torino.

Nel 1949 nacque a Milano il Centro italiano della moda. A Torino ciò fu visto quasi come un atto di guerra:

Milano sente il valore della moda. E intendiamoci sul significato della parola: essa al primo suono richiama l’idea di una pedana dove sfilano belle donne con addosso le meraviglie tessili e di sartoria […] Ma questa non è la moda, è appena un aspetto della moda, la moda alta, i fuochi artificiali della moda. Resta tutta l’altra, di ampiezza vastissima, cioè l’arte complessiva di vestire i figli dell’uomo, e specialmente le figlie, nella loro grande massa. In ciò la tradizione di Torino non è superabile da nessun’altra città («La nuova stampa», 9 febbraio 1950, p. 2).

Le due istituzioni si sfidarono anche a suon di mostre e sfilate. Il 2 aprile 1949 a Torino si inaugurò l’Esposizione internazionale dell’arte tessile e dell’abbigliamento, fortemente voluta dall’allora presidente dell’Ente moda, il conte Filippo Giordano delle Lanze (1875-1952), importante esponente della manifattura della lana. Il sindaco di Torino, il comunista Domenico Coggiola, e il ministro dell’Industria, il socialista Ivan Matteo Lombardo, espressero insieme il riconoscimento di Torino quale capitale della moda italiana. Nei dieci giorni d’apertura, la mostra ebbe ben 250.000 visitatori: un risultato eccezionale, considerando che Torino aveva allora circa 700.000 abitanti. Alle sfilate organizzate per l’occasione, mancavano, però, i grandi sarti milanesi e romani: proprio il 4 aprile 1949, infatti, il Centro italiano della moda di Milano organizzò al Teatro dell’opera di Roma uno spettacolo in cui furono presentati abiti realizzati da quindici case di moda di Milano, Roma e Firenze.

Lo scontro fra i due enti continuò ancora negli anni immediatamente successivi. Presieduto da Franco Marinotti (1891-1966), che era anche a capo della SNIA Viscosa (Società Navigazione Industriale Applicazione Viscosa), il Centro italiano della moda, per dare una vetrina migliore alle sue attività, fondò a Venezia il Centro internazionale delle arti e del costume (CIAC), con sede a Palazzo Grassi, dotandolo di un’importante collezione di abiti d’epoca e di una rivista «Arti e costume» su cui furono chiamati a scrivere alcuni fra i principali storici dell’arte italiani. Dal 1950 a Venezia si tenne, quindi, il Festival della moda, le cui sfilate costituirono per anni uno degli appuntamenti di maggiore sfarzo della moda italiana.

Nel 1949 anche i grandi sarti romani si dotarono di una propria organizzazione. Per quel che riguarda la capitale, va notato innanzitutto come proprio il 1949 sia stato definito annus mirabilis della moda romana. Il 28 gennaio, il matrimonio di Tyrone Power e Linda Christian con abiti disegnati per lei dalle sorelle Fontana e per lui dalla sartoria Caraceni aveva attirato sugli atelier romani i riflettori di Hollywood: un atto che si è soliti considerare la nascita di quella ‘Hollywood sul Tevere’ che sarebbe stato il grande atout in mano alla moda romana, la quale, negli anni successivi, avrebbe avuto nel cinema americano il proprio sponsor principale.

Fu essenzialmente grazie alle produzioni hollywoodiane e al mondo di attori, attrici, giornali e quant’altro girava intorno a tutto ciò, che la moda italiana si affermò per gli americani come uno degli aspetti centrali dell’immagine dell’Italia quale Paese delle vacanze e del ‘bel vivere’. In forza di questo elemento – assente nelle altre città italiane – i grandi sarti romani non ritenevano di aver bisogno di organizzazioni che li regolassero, piuttosto avvertivano il bisogno di un’associazione che li rappresentasse, più all’interno, forse, che verso l’esterno.

Nel maggio 1949 la Camera di commercio di Roma organizzò il Primo convegno nazionale della moda, premessa alla costituzione, il 5 novembre dello stesso anno, del Comitato della moda, che si poneva l’obiettivo di «potenziare ed incrementare al massimo le attività produttive» e «mantenere costanti e attivi i rapporti con tutti i centri nazionali e stranieri della moda, per lo sviluppo tecnico, artistico e professionale della produzione nazionale» (Capalbo 2012, p. 142).

Le polemiche con l’Ente di Torino e l’incerta alleanza con quello di Milano (il quale aveva, in effetti, molti più interessi in comune con quello torinese) finirono per indebolire il Comitato romano, che non riuscì a realizzare le manifestazioni che si era ripromesso in un primo tempo.

Di questa situazione nel 1951 fu abile ad approfittare Giorgini, che favorì la partecipazione di case romane e milanesi alle sue prime sfilate fiorentine, ma non invitò alcuna casa torinese d’alta moda, limitandosi a coinvolgere Mirsa (la marchesa Olga di Grésy) fra quelle di moda-boutique. Un gesto che era chiaramente di sfida verso l’Ente moda, il quale proprio allora aveva avuto il riconoscimento governativo e aveva preso a chiamarsi Ente italiano moda (EIM). Questo, dal canto suo, reagì prontamente e Vladimiro Rossini, suo direttore sin dal 1935, dopo un’iniziale protesta, s’accordò con Giorgini cosicché dal 1953 le sfilate fiorentine si tennero formalmente con il patrocinio dell’ente torinese.

Forse anche questa circostanza contribuì ad allontanare le case di moda romane dalle sfilate di Giorgini. In quello stesso 1953, infatti, esse fondarono il Sindacato italiano alta moda (SIAM), il cui statuto vietava espressamente la partecipazione alle sfilate organizzate da Giorgini. Che ci fosse un elemento di polemica verso Torino emerge anche da un documento del presidente della Camera di commercio di Roma, il quale scriveva che, mentre «l’alta moda di pura creazione italiana» era «realizzata prevalentemente da una dozzina di case romane, da un paio di case milanesi, e da qualche altra di Torino e di Firenze», il «nuovo Ente Italiano della Moda, stando a Torino, non [poteva] che tutelare prevalentemente le case di moda settentrionali» (Capalbo 2012, pp. 144-46).

La risposta di Giorgini, comunque, non si fece attendere. Nel 1954 sorse il Centro di Firenze per la moda italiana (CFMI), il cui scopo principale era l’organizzazione delle sfilate a Palazzo Pitti.

A un decennio dalla rinascita dell’Ente moda, quindi, il progetto di ridargli la centralità che aveva avuto durante il fascismo poteva dirsi fallita. Senza l’appoggio, forte e convinto, del potere politico centrale, peraltro, era impossibile che uno qualunque dei diversi soggetti sorti nel volgere di pochi anni prendesse il sopravvento sugli altri.

A metà degli anni Cinquanta, quindi, le quattro città avevano posto le basi per una sorta di divisione dei compiti, che nel decennio successivo si sarebbe definita e perfezionata. Roma si sarebbe dedicata all’alta moda, Firenze alla moda-boutique, Torino e Milano all’abito di confezione. Nonostante ciò, peraltro, le tensioni fra le varie realtà non scomparvero di certo. Lo si vide bene nel 1958 quando nella capitale fu creata la Camera sindacale della moda italiana, voluta dai centri d’alta moda di Roma e Firenze con lo scopo di coordinare i vari comparti della moda italiana. L’assenza di Torino e Milano esprimeva bene lo sbilanciamento a favore dell’alta moda, rispetto alle aziende tessili del Nord Italia. Non a caso, la nuova istituzione nacque praticamente morta. Quattro anni dopo, il 29 settembre 1962, fu allora istituita la Camera nazionale della moda italiana, cui aderirono anche le case di moda milanesi (Capalbo 2012, p. 148). Almeno per un certo periodo questa sembrò garantire finalmente alla moda italiana la struttura di cui aveva bisogno.

L’affermarsi della moda-boutique

Nel febbraio del 1959 la rivista statunitense «Fortune» dedicava un ampio articolo a Giorgini: per il pubblico americano, in effetti, egli era il volto stesso della moda italiana, in particolare della cosiddetta moda-boutique, per loro altrettanto, se non più, interessante dell’alta moda. Al First Italian high fashion show, del febbraio 1951, infatti, accanto a nove case di alta moda, avevano partecipato quattro case di moda-boutique: Avolio, Mirsa, Pucci, e Tessitrice dell’isola. Con l’eccezione del sarto milanese Giorgio Avolio, si trattava di imprese che erano state fondate da esponenti dell’aristocrazia, che facevano del loro buon gusto uno stile distintivo.

La marchesa piemontese Olga Rey di Villarey Cisa Asinari di Grésy alla fine degli anni Venti aveva fondato una boutique di abiti per bambino e dieci anni dopo aveva aperto la casa di maglieria Mirsa, prima con sede a Milano, poi a Galliate, nel Novarese. Mirsa era sbarcata sul mercato americano già nel 1950 e la partecipazione alle sfilate di Giorgini aveva consacrato un ruolo che la marchesa di Grésy si era già conquistato sul campo. Un percorso simile era stato quello della baronessa napoletana Claretta Gallotti, che aveva fondato sull’isola di Capri una boutique, adottando il nome di Tessitrice dell’isola. Il marchese Emilio Pucci di Barsento (1914-1992), membro di una delle più antiche famiglie dell’aristocrazia fiorentina, aveva studiato negli Stati Uniti e questo lo aiutò certamente quando, alla fine degli anni Quaranta, aprì il proprio atelier. L’attribuzione alla marchesa di Grésy e al marchese di Barsento del Neiman Marcus award (detto l’Oscar della moda), rispettivamente nel 1953 e nel 1954 fu il riconoscimento di quanto fosse importante per il mercato americano la moda-boutique, basata sui piccoli laboratori artigiani. Ciò spiega perché già alla seconda sfilata di Giorgini il numero delle case di moda-boutique fosse salito a sedici. L’altro polo del successo della moda italiana dell’epoca era poi il mondo degli accessori. Nel 1956, il Neiman Marcus award fu conferito a Giuliana Coen Camerino (1920-2010), la quale, con il marchio Roberta di Camerino, negli anni Quaranta aveva dato il via a una linea di borse e accessori che con la borsa Bagonghi costituì una delle principali icone degli anni Cinquanta.

La moda-boutique era la carta migliore per penetrare nel mercato americano, e anzi si può dire che in un certo senso essa fosse stata pensata appositamente per esso. A fronte dell’assenza di un’industria della moda anche solo paragonabile a quella francese, l’Italia poteva contare, infatti, su un diffuso artigianato di qualità e su un’abbondante quantità di manodopera a basso costo. In virtù di ciò, una piccola bottega con qualche decina di artigiani poteva garantire una produzione per qualità e costi perfetta per un mercato che aveva fame di qualità, ma che, per le sue caratteristiche sociali, rifiutava ormai quei requisiti di unicità del prodotto moda ancora propri della mentalità italiana. In questo senso, la moda-boutique italiana era un prodotto pensato soprattutto per l’esportazione e, in particolare, per quella negli Stati Uniti, Paese artefice della nascita della moda italiana, ma anche completamente diverso per usi e costumi dall’Italia.

Con i suoi raffinati aristocratici e i suoi capaci artigiani essa inoltre rispondeva benissimo all’immagine idillica della penisola che si era diffusa nell’America degli anni Cinquanta, e che lo stesso governo italiano si sforzava di alimentare sia per far dimenticare quanto successo negli anni della guerra sia per incrementare il turismo americano. In questo senso, l’affermazione di Firenze e Roma si spiega (anche) con il fascino che le due città avevano sul pubblico straniero. Se Roma, come abbiamo detto, poteva contare sul contributo del tutto peculiare di Cinecittà, a Firenze esisteva da un paio di secoli una tradizione di stretti rapporti con il mondo anglosassone e, inoltre, la storia e le tradizioni della Toscana costituivano quello che oggi definiremmo un brand di straordinaria forza e potenza comunicativa.

Alla fine degli anni Cinquanta, comunque, la moda-boutique aveva conseguito una sua identità ben precisa rispetto all’alta moda. Va detto che, pur essendo seriale, la moda-boutique era comunque artigianale, e questo la rendeva in ogni caso un prodotto di lusso, per quanto accessibile a un numero più ampio di compratori rispetto a quelli che potevano permettersi l’unicità del capo d’alta moda.

A fronte, infatti, di una crescente domanda, la moda-boutique si sarebbe poi divisa fra una produzione più semplice e una che si potrebbe definire boutique-d’alta moda. Un’evoluzione per comprendere la quale, però, è necessario spostarsi a esaminare quanto stava capitando nella moda di confezione dell’abbigliamento pronto.

L’abbigliamento pronto fra gli anni Cinquanta e Sessanta

Mentre l’alta moda di Roma e Milano cercava una sua autonomia rispetto alla haute couture francese e la moda-boutique raccoglieva allori e fama di qua e di là dall’Oceano, nelle grandi città industriali del Nord Italia l’industria tessile e dell’abbigliamento s’interessava sempre di più alle possibilità offerte dall’abbigliamento pronto. Una tipologia di mercato che da decenni era il sogno, nemmeno tanto nascosto, degli imprenditori più dinamici, ma che stentava ancora ad affermarsi.

In Italia l’industria dell’abbigliamento confezionato era nata dopo l’Unità a Torino e Milano, città in cui vi era una radicata tradizione di confezionamento di divise. L’Ente nazionale moda avrebbe dovuto essere la guida di questa industria, per la quale i tempi sembravano ormai maturi. Nel 1932, per es., a Torino il Gruppo finanziario tessile (GFT) dava vita al marchio Facis (Fabbrica Abiti Confezionati In Serie). Sempre nel capoluogo subalpino, poi, era allora in piena attività La Merveilleuse, fondata da Giuseppe Tortonese nel 1911 e passata poi alla famiglia Ceresa Gianet, i cui abiti di confezione erano però destinati a un mercato di lusso, altoborghese. Tuttavia, l’arretrato sviluppo sociale del Paese non permise lo sviluppo di tale industria.

Nel 1946 il 90% del fabbisogno di abbigliamento era soddisfatto dalle sartorie; un decennio più tardi, nel 1955, il dato era calato solo al 78%. Il fatto poi che l’abito pronto fosse più indossato nell’Italia meridionale rispetto a quella settentrionale, mostrava bene come fosse l’abito dei meno ricchi. In particolare, poi, mancava quasi ogni rapporto fra l’industria dell’abbigliamento e il mondo dell’alta moda, il che impediva alla prima di svolgere un ruolo creativo e alla seconda di dare diffusione alle proprie capacità e innovazioni.

Una delle principali, se non la principale, difficoltà per l’imporsi dell’abito pronto era la questione delle misure. Sino agli anni Cinquanta, infatti, l’abito sartoriale, cucito su misura addosso al cliente, garantiva una vestibilità contro la quale l’abito pronto non poteva competere. Le case di produzione erano ben coscienti della questione. Essa fu oggetto di ricerche in particolare a opera dei fratelli Rivetti, Franco (1919-1986), Silvio (1921-1961) e Pier Giorgio (1927-1983), figli di Adolfo, a capo del già citato GFT di Torino. Come raccontava un testo dello stesso GFT, quest’ultimo «aveva impegnato venditori e negozianti nel compito di attivare una rilevazione antropometrica degli italiani, misurando un campione di popolazione (circa 25 persone) distribuito in tutto il territorio nazionale». Si trattava dell’adozione in Italia di un tipo d’indagine che le industrie americane avevano svolto durante la Prima guerra mondiale per la realizzazione delle divise dei soldati inviati al fronte europeo. Solo nel 1952, tuttavia, tali ricerche avevano portato all’elaborazione di un compiuto sistema di taglie. I Rivetti, che avevano conosciuto direttamente la realtà dell’industria americana, si muovevano quindi in sintonia con quanto di più avanzato si stesse allora operando in essa. Per poter dar vita al loro progetto, nel 1954 decisero di cedere i lanifici di famiglia e di concentrare le forze sul nuovo progetto. In quello stesso anno il nuovo «sistema 120 taglie» (giunte a quasi 140 nel giro di pochi anni) era ormai pronto. A lanciare gli abiti realizzati con tale nuovo sistema fu deputato il marchio Facis che, nonostante i vent’anni di attività, non aveva ancora conosciuto una reale espansione. A presentare al pubblico la Facis fu una campagna pubblicitaria affidata ad Armando Testa (1917-1992), che coniò lo slogan: «Di corsa ad indossarlo, è un abito Facis» e una serie di manifesti che fecero scuola. Per la vendita, i Rivetti diedero vita a un’apposita catena di negozi, la Marus (Magazzini Abbigliamento Ragazzo Uomo Signora), che si diffuse capillarmente in tutta la penisola.

Nel 1958, inoltre, i fratelli Rivetti lanciarono anche un marchio dedicato al pubblico femminile: Cori (COnfezioni RIvetti) e strinsero un accordo con Biki perché realizzasse una linea d’abbigliamento femminile pensata appositamente per i negozi Marus (successivamente anche Galitzine accettò di lavorare per la stessa linea).

Il successo fu immediato: nel 1963 lo stabilimento di Settimo Torinese della GFT dava lavoro a più di 2000 operai e produceva 4000 capi al giorno.

Naturalmente la Facis, nonostante il successo, non aveva il monopolio dell’abbigliamento pronto. Negli stessi anni anche altre industrie tessili si erano date alla stessa produzione. È il caso del lanificio Marzotto, di Valdagno (Vicenza), che nel 1953 lanciò il marchio Fuso d’oro. O quello dell’albese Miroglio, che nel 1955 iniziò a produrre abbigliamento intimo femminile con il marchio Vestebene, prima usando una particolare fibra di raion e poi sviluppando una nuova fibra sintetica, il poliestere, che consentì di ridurre i costi di produzione.

Caratteristiche in parte differenti presentava il caso del laboratorio sartoriale Lebole, di Arezzo, che a metà degli anni Cinquanta si trasformò in industria confezionistica, inaugurando un nuovo grande stabilimento nel 1962, e raggiunse un accordo quadro con la Lanerossi. Come i fratelli Rivetti, anche i fratelli Giannetto (m. 1983) e Mario Lebole (1925-1983) fecero un sapiente uso della pubblicità. Essi si rivolsero, nel 1959, a SePo (Severino Pozzati, 1895-1983) uno dei maggiori disegnatori pubblicitari italiani, che disegnò allora «l’uomo metro», simbolo dell’azienda. Così come la Facis si era accordata con Biki, la Lebole nel 1960 si legò al couturier romano Angelo Litrico (1927-1986). Lo slogan «Ho un debole per l’uomo in Lebole» fu sino agli anni Settanta uno dei simboli dell’abbigliamento pronto italiano.

Altro nome di grande importanza nell’industria dell’abbigliamento pronto fu allora la Lubiam (acronimo per LUca Bianchi Mantova), una sartoria che, grazie a una serie di importanti brevetti, seppe guadagnarsi un posto di tutto rispetto nel panorama italiano, sviluppando anch’essa un’aggressiva ed efficace politica d’immagine, contendendo alla Facis il primato della vestibilità («con 144 taglie la Lubiam vestirà tutti», era lo slogan dell’azienza).

Nella diffusione dell’abito pronto e, più in generale, nel progresso dell’industria italiana del settore ebbero una parte decisiva due importanti manifestazioni: il Samia (SAlone Mercato Internazionale dell’Abbigliamento) di Torino e il Mitam (Mercato Internazionale del Tessile per l’Abbigliamento e l’Arredamento).

Secondo quanto raccontava Anna Vanner, l’idea del Samia sarebbe venuta a Rossini durante una delle sfilate di Giorgini («Stampa sera», 22-23 nov. 1956, p. 4). Allora la giornalista americana Mildred Kaldor, «trovandosi a sedere accanto» a Rossini, «senza nemmeno sapere chi fosse il suo interlocutore, cominciò con l’esprimere ad alta voce quello che pensava: “l’alta moda italiana ci interessa molto, ma noi americani vorremmo vedere abiti per tutte le donne”».

La prima edizione del Samia, «mostra mercato di moda», si tenne a Torino nel novembre 1955. Suo oggetto principale era l’abbigliamento pronto, che doveva cercare di sganciarsi dall’alta moda per elaborare propri codici estetici, così da far superare al cliente quel confronto fra abito pronto e abito confezionato dal quale quest’ultimo usciva, allora, sconfitto. Insieme, però, il salone intendeva avvicinare almeno un po’ l’alta moda al mondo della produzione in serie. Al primo Samia, infatti, presero parte diverse grandi firme – dalle milanesi Biki e Jole Veneziani, alle romane sorelle Fontana e Antonelli – , le quali proposero collezioni in serie, destinate al mercato estero. Il Samia conquistò grande prestigio internazionale e in breve le due edizioni annuali divennero uno dei principali appuntamenti mondiali del settore abbigliamento.

Parallelamente al Samia, nel 1957 a Milano prese via il Mitam. È importante notare che, sebbene questo fosse dipendente dal Comitato di Milano, l’organizzazione del Mitam fu in gran parte affidata all’EIM, tanto che Rossini ricopriva insieme le cariche di direttore del Samia e del Mitam.

La moda, d’altronde, era ormai chiaramente percepita da tutti, così come il turismo, come una delle principali industrie italiane. Lo si vide bene anche nelle celebrazioni del primo centenario dell’Unità nazionale nel 1961. Tenutesi a Torino, sotto il segno del boom economico, vi fu compresa anche la mostra Moda. Stile. Costume, a cura dell’industriale torinese Giovanni Battista Pininfarina (1893-1966), per la quale l’EIM fece presentazioni al pubblico «della più scelta ed interessante produzione» sia di grandi firme, fra cui le sorelle Fontana, Galitzine, Schuberth, Pucci, Biki, Brioni, sia della produzione in serie. Quest’ultima, peraltro, scontava ancora una forte debolezza d’immagine. Come ha notato Enrica Morini (2006), infatti, «l’industria di confezione […] non accontentava il pubblico femminile, che sapeva decodificare con facilità i messaggi pubblicitari che mascheravano i banali tailleur confezionati», essa, quindi, ebbe il limite di cogliere «il principio della massificazione, ma non quello della richiesta di qualità e di moda» (p. 317). Si trattava, quindi, di identificare uno stile di mezzo, un secondo livello della moda adatto al pubblico italiano.

Gli anni Sessanta: dall’alta moda all’‘altra moda’

Per la società italiana gli anni Sessanta furono un periodo di crescita e di cambiamento quasi convulso. Il boom economico modificò radicalmente assetti sociali secolari, distruggendo pratiche e abitudini, rapidamente rubricate come relitti del passato e altrettanto rapidamente sacrificate sull’altare del progresso. Tutto ciò non poteva non avere effetti anche nel campo vestimentario, sia per quel che riguardava l’alta moda sia per i guardaroba dei ceti medi. Se si pone mente al fatto che nel 1965 ben il 56% del mercato dell’abbigliamento era ormai soddisfatto dalle confezioni pronte, si coglie bene quanto l’industria dell’abbigliamento fosse in pieno sviluppo. La qualità della produzione era migliorata, sia per una maggior attenzione allo stile, sia per lo sviluppo tecnologico dei macchinari impiegati e la superiore qualità dei tessili utilizzati. Questo aveva fatto sì, inoltre, che l’industria della confezione (in particolare, gli abiti da uomo e la maglieria) assumesse un ruolo importante nell’esportazione.

D’altronde, un prezzo contenuto e una migliore qualità non bastavano più ad accontentare il pubblico degli anni Sessanta, che disponeva di più soldi da investire in una spesa, quella per i vestiti, che era ormai considerata una questione di stile. Si era, insomma, entrati in quel fenomeno che si è soliti indicare come «democratizzazione della moda» e, insieme, si era passati dal bisogno del possesso a quello del consumo. Anche una casalinga o un’operaia avevano diritto di vestire un abito che partecipasse a uno stile, che avesse, in altre parole, un certo ‘contenuto moda’.

Le profonde mutazioni sociali sviluppatesi nel corso del decennio ebbero, poi, effetti fortissimi sul mondo dell’abbigliamento: a uscire pressoché distrutto fu, per es., il tradizionale rapporto tra l’alta moda e la definizione del gusto.

Infatti, se all’inizio degli anni Sessanta l’alta moda contava ancora molto nello stabilire le nuove tendenze, la situazione era destinata a cambiare radicalmente e rapidamente. Il 1961, anzi, può essere visto come un anno di svolta per la storia della moda. Da un lato, Yves Saint Laurent (1936-2008) aprì una propria maison, proponendo scelte di rottura rispetto alla moda del decennio precedente, dando loro maggiore diffusione attraverso il prêt-à-porter. Dall’altro, una giovane stilista inglese, Mary Quant (n. 1934), aperta una boutique sulla King’s Road, lanciava le minigonne, che ebbero subito un successo immediato in tutto il mondo. Londra, in breve, divenne la vera capitale europea della moda giovanile: un concetto, questo, la cui affermazione divenne uno dei grandi elementi d’innovazione del decennio. A determinare le tendenze della moda, infatti, sarà sempre più non l’alta moda, ma l’‘altra moda’, quella decisa dal basso, in particolare dai giovani.

Dalla fine degli anni Cinquanta si stava assistendo infatti – prima in America e in Inghilterra e poi in tutto l’Occidente – all’emergere di mode giovanili, che avrebbero rivoluzionato totalmente la storia della moda come era stata sino a quel momento.

È importante notare che quando si parla di tale fenomeno bisogna distinguere fra due momenti differenti. Innanzitutto, va tenuto presente che dagli anni Cinquanta i giovani emersero come gruppo sociale già prima dell’affacciarsi della contestazione. Non a caso, già nella prima metà degli anni Sessanta vi erano state linee d’abbigliamento espressamente pensate per giovani e adolescenti: si pensi, per es., alla Vent’anni, varata dal GFT nel 1965, o alle collezioni per signorine che Max Mara mise sul mercato l’anno successivo. Nello stesso tempo, a partire dagli anni Cinquanta, si ebbe un susseguirsi di movimenti di contestazione giovanili, sottoculture che si posero (e si proposero) come alternative alla società degli adulti. Dai beat agli hippy, dai mod agli skinhead, dai punk sino ai grunge e agli skater: tutti questi gruppi, animati da quel bisogno di identità tipico di ogni universo giovanile, definirono e imposero propri stili anche nel campo dell’abbigliamento. Per quanto si trattasse di subculture giovanili spesso ai margini della società, capaci di creare da sole i propri codici vestimentari, poterono diffonderli in modo del tutto diverso grazie ai nuovi mezzi di comunicazione – prima il cinema poi la televisione. Fu grazie a ciò che forme e stilemi dei più diversi street-wears furono assimilati e veicolati dalla moda, facendo diventare di massa modelli e culture che in precedenza sarebbero rimasti patrimonio di élites ristrette.

La nascita e l’affermarsi della contestazione giovanile ebbe subito nel terreno dei vestiti alcune delle sue conseguenze più forti, tanto che si è parlato dell’affermarsi, fra anni Sessanta e Settanta, di una vera e propria antimoda. Con tale espressione s’intende la reazione dei movimenti di protesta contro la moda, vista come espressione delle classi dominanti e della loro politica di asservimento delle classi dominate. La moda era considerata un nemico della libertà e i giovani contestatori facevano del rifiuto di un abbigliamento formale uno dei principali segni di riconoscimento. La loro polemica era riservata soprattutto al codice vestimentario dell’Occidente. Da ciò la vera e propria infatuazione verso l’abbigliamento dell’Oriente asiatico, sia dell’India, cui si guardava per modelli filosofico-religiosi alternativi a quelli del cristianesimo europeo nelle sue diverse declinazioni, sia della Cina, in quel particolare momento storico espressione (almeno per alcuni) di un comunismo giudicato più accettabile di quello sovietico.

Alla fine degli anni Sessanta, quindi, non solo nacquero aziende e stilisti che si riferirono esclusivamente (o preferibilmente) al pubblico giovanile e a coloro che intendevano vestire in tal modo, ma anche negozi pensati apposta per i giovani: privi (o quasi) di commessi, con la merce esposta come in un supermercato, la musica in sottofondo. Pionieri di questi nuovi settori possono esser considerati i trevigiani Luciano (n. 1935) e Gilberto Benetton (n. 1941) e il milanese Elio Fiorucci (n. 1935). Benetton fondò nel 1965 il Gruppo Benetton che, nel 1966, inaugurò a Belluno il suo primo negozio, dedicato all’abbigliamento giovanile, seguito nel 1969 da quello di Parigi. Parallelo, ma differente, il percorso di Fiorucci, cresciuto nella bottega di calzature del padre, che, dopo un viaggio a Londra e aver preso diretta visione dei nuovi movimenti giovanili, nel 1967 aprì a Milano un negozio che sin dall’arredo – ispirato agli stilemi della Pop art – si poneva come uno spazio trasgressivo. Il successo fu tale che in pochi anni Fiorucci poté aprire negozi a Londra (1975) e a New York (1976). Nello stesso tempo nacquero anche altri marchi e catene di negozi pensati per il pubblico giovanile e destinati a lunga fortuna presso di questo: ci si limita a ricordare il caso di Robe di Kappa, nata nel 1969 come marchio del Maglificio calzificio Torino, che avrebbe avuto un ruolo centrale nel trasferire le tendenze giovanili ‘antimoda’ in settori quali il casual e l’abbigliamento sportivo.

È in questo periodo, quindi, che va posto l’inizio di quel processo, destinato ad affermarsi del tutto negli anni Ottanta, per cui, riprendendo le parole di Gilles Lipovetsky in L’empire de l’éphémère. La mode et son destin dans les sociétés modernes (1987), «la giovinezza si è imposta come nuovo canone di imitazione sociale». «Pochi si preoccupano di far vedere con gli abiti di essere arrivati», continua il filosofo francese, ma tutti s’impegnano «a offrire di sé un’immagine giovane e liberata» (pp. 123-24). Esprimere la propria eterna gioventù sarebbe divenuto nel corso negli anni Settanta il senso stesso della moda. Negli anni a cavallo fra Sessanta e Settanta, quindi, iniziò l’affermazione della gioventù estesa, di cui scrive René König in Macht und Reiz der Mode (1971; trad. it. 19922), una gioventù, cioè, che «dura fisicamente più del passato a causa delle mutate condizioni di vita sia economiche sia tecnologiche» (p. 198): non è giovane chi è giovane, è giovane chi si sente giovane. Questo processo fa sì che l’offerta vestimentaria si rivolga sempre più a giovani (veri o sedicenti tali) e che l’alta moda perda il senso stesso della sua esistenza: «La Haute couture, con la sua grande tradizione di raffinatezza, con i suoi modelli riservati alle signore adulte e arrivate è stata screditata da questa nuova esigenza dell’individualismo moderno: sembrare giovani» (p. 123).

Se per l’industria dell’abito pronto – che per le esigenze legate alla sua stessa natura aveva bisogno di programmare in tempo elementi importanti come i colori e i tessuti da utilizzare – il fatto che a determinare gusti e stili fossero personaggi del tutto esterni al mondo della moda – dai movimenti giovanili ai gruppi musicali e agli attori – costituiva un problema tanto nuovo quanto complesso, per l’alta moda fu un vero e proprio shock, da cui era destinata a non riprendersi.

Alla fine degli anni Sessanta, in effetti, il pubblico di riferimento delle sartorie italiane d’alta moda – principesse, aristocratici, grandi borghesi – era divenuto anacronistico o aveva per lo più adottato stili decisamente diversi. Non a caso, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta avvenne un vero e proprio cambio generazionale. Furono molti, infatti, non solo i sarti, ma anche le aziende che non riuscirono a tenere il passo con le nuove tendenze.

Nello stesso tempo, i cambiamenti sociali sin qui delineati avevano fortemente influenzato anche il mondo delle fiere e dei saloni. Il mai sopito scontro fra Roma e Firenze s’era infine concluso con la vittoria della prima. Nel 1965 Giorgini si era dimesso e la Camera nazionale aveva diviso le sfilate di moda delle due città: Roma avrebbe avuto quelle d’alta moda, Firenze quelle del prêt-à-porter e della maglieria. A fronte di ciò, nel 1969 Torino e Milano fondarono nuove fiere dedicate alla produzione industriale di lusso: Modaselezione e Milanovendemoda. La prima, fortemente voluta dall’EIM, era una «rassegna mercato dell’alta novità nell’abbigliamento di lusso», dedicata a «un tipo di clientela alla ricerca di un genere di abbigliamento che rappresenti la via di mezzo fra l’alta sartoria su misura e la confezioni in grande serie» («La Stampa», 9 settembre 1972). Destinata a durare sino al 1974, Modaselezione ebbe all’inizio un ampio successo. Tuttavia, la reazione di Firenze e, soprattutto, l’emergere di Milano quale nuova capitale della moda le impedirono di raggiungere i risultati sperati. Modaselezione, in effetti, era l’espressione del tentativo di Torino a «candidarsi a centro dell’abbigliamento industriale italiano» (Paris 2006, p. 477), ma a questo ruolo ambiva anche Milano, che aveva al suo arco frecce che si sarebbero rivelate decisamente migliori.

Milano e il giornalismo di moda

Per comprendere come Milano sia divenuta la capitale della moda italiana bisogna considerare che sin dall’Unità essa si era imposta come il centro dell’editoria di settore. Anche a Torino e a Firenze vi erano state, certo, importanti riviste di moda. Quelle torinesi, in particolare, sino alla Prima guerra mondiale erano state di grande rilievo, ma nessuna di esse era sopravvissuta agli anni Trenta: «La donna», nata nel 1905, probabilmente la più importante, era stata acquistata da Mondadori e trasferita a Milano nel 1922 (dove, passata a Rizzoli nel 1929, sarebbe uscita sino al 1968). Negli anni fra le due guerre, a Milano erano nate, fra le altre, «Lidel» (1919-35), «Grandi firme» (1924-39) e, soprattutto, «Annabella» (1933) e «Grazia» (1938: la prima da Rizzoli, la seconda da Mondadori). Solo l’intervento diretto del duce aveva fissato a Torino la sede di «Bellezza», edita dal 1941 come organo ufficiale dell’Ente nazionale moda, ma nata da un’idea dell’architetto Giò Ponti (1891-1979) e della giornalista livornese Emilia Rosselli (1903-1958). Già alla fine del 1945, tuttavia, «Bellezza» fu trasferita a Milano dove apparve, diretto da Elsa Robiola (1907-1988), sino al 1970.

Nel secondo dopoguerra i grandi editori popolari come Mondadori, Rizzoli e, più tardi, Rusconi ebbero tutti riviste di moda: Mondadori continuò a pubblicare «Grazia» e nel 1957 le affiancò «Arianna» (dal 1973 edizione italiana di «Cosmopolitan»); per i tipi di Rizzoli uscirono «Annabella» e «La donna»; Rusconi pubblicò poi «Gioia» e «Rakam». Persino il «Corriere della Sera» nel 1962 decise di dar vita a un proprio settimanale di moda: nacque così «Amica».

A Milano negli anni Cinquanta apparvero anche due riviste destinate a un pubblico più colto e selezionato: «Novità» e «Linea italiana». La prima nacque nel 1950 grazie alla già citata Rosselli e, in breve, si affermò come uno dei più moderni giornali del settore, capace di servirsi di fotografi del livello di Ugo Mulas (1928-1973). La Rosselli, infatti, guardava alle riviste americane come «Vogue» e «Harper’s Bazaar» e ne fu ricambiata: nel 1964, infatti, «Novità» venne acquistata dal gruppo Condé Nast evolvendo in un paio d’anni in «Vogue Italia». Quest’ultimo fu affidato alla direzione di Franco Sartori (1930-1988), che nel 1967 creò «L’uomo Vogue», primo magazine dedicato alla moda maschile. In quanto a «Linea italiana», nata nel 1966 e diretta da Anna Vanner, basti dire che divenne organo ufficiale del Centro italiano della moda e una delle più belle riviste d’alta moda, non solo italiane.

E fu grazie a queste e ad altre riviste che a Milano si definì e crebbe il giornalismo di moda italiano. Fondamentale era stato fra le due guerre il ruolo di una generazione di grandi giornaliste che oltre alle già citate Robiola, Rosselli e Vanner comprendeva, per limitarci alle firme più note, Misia Armani (1905-1994), Maria Pezzi (1908-2006), Mila Contini (1910-1993), Irene Brin (pseud. di Maria Vittoria Rossi, 1911-1969), Elsa Rossetti (1915-2013), Antonia Monti. E furono loro a formare una numerosa leva di giornaliste destinate ad accompagnare la moda italiana sino ad anni recenti, fra cui si ricorda qui solo Anna Piaggi (1931-2012).

Le riviste milanesi, inoltre, contribuirono in maniera determinante all’affermazione di un’altra figura centrale nel sistema moda: quella del fotografo specializzato. Oltre al già citato rapporto di Mulas con «Novità», si pensi al lavoro di Alfa Castaldi (1926-1995) per «Annabella» prima e per «Vogue Italia» poi; oppure a quello di Antonio Cesano per «Bellezza», in cui nel 1967 pubblicò un celebre servizio intitolato I grandi sarti milanesi nei loro atelier (da Biki a Mila Schön a Jole Veneziani).

Fra i fotografi attivi della Milano di quegli anni va ricordato, inoltre, almeno Gianni Della Valle: fu a lui e ad Anna Vanner, in qualità di art director, che nel 1965 l’EIM affidò il proprio «servizio fotografico permanente». Ma fu soprattutto «Vogue Italia» fra gli anni Sessanta e Settanta a divenire la palestra per tutta una generazione di giovani fotografi allora poco più che ventenni – fra i quali mi limito qui a ricordare Vanni Burkhart e Oliviero Toscani (entrambi nati nel 1942) e Renato Grinaschi e Aldo Fallai (nati nel 1943) – i quali sarebbero poi stati fra i protagonisti del made in Italy (si pensi al rapporto fra Toscani e Benetton o a quello tra Fallai e Giorgio Armani).

Alla presenza del giornalismo di settore Milano univa poi il fatto di essere divenuta sede, nel corso degli anni Sessanta, di saloni di moda che acquisirono un ruolo via via più importante. È il caso del Mipel (Mercato Italiano della Pelletteria) e di Ideacomo, aperti rispettivamente nel 1962 e nel 1968. Entrambe le manifestazioni vedevano fra gli organizzatori Beppe Modenese (n. 1927), destinato a essere di lì a poco il protagonista della Milano dello stilismo. In concorrenza con l’EIM era anche Assomoda (l’Associazione dei rappresentanti italiani d’abbigliamento, fondata da Roberto Manoelli), che nel 1969 fondò la già citata Milanovendemoda.

Come prima sede, Manoelli ottenne il tendone del circo Medini, per cui le ditte si unirono «ai clown e ai giocolieri» in quella che un documento ufficiale di Assomoda avrebbe definito «un’allegrissima e ironica festa della moda». Rispetto alla Sala bianca di Palazzo Pitti, da cui Giorgini aveva dato il via all’alta moda italiana, il contrasto non poteva esser più stridente. Di lì a qualche anno, Milanovendemoda avrebbe avuto sede in un nuovo quartiere della città, Milano 2, realizzato da un giovane imprenditore edile emergente che stava entrando anche nel business della TV: Silvio Berlusconi (n. 1936). Fra circhi e imprenditori rampanti emergeva all’orizzonte il profilo di quella che un felice slogan avrebbe poi definito la «Milano da bere».

L’età degli stilisti e del made in Italy

Oggi è così comune riferirsi ai protagonisti della moda con il termine stilisti da essersi dimenticati che il suo uso in quest’accezione è relativamente recente. Il termine stilista nacque, infatti, a opera della critica letteraria per indicare autori particolarmente attenti a questioni, appunto, di stile. Almeno dagli anni Cinquanta esso fu usato nel mondo dell’industria per definire le figure addette all’elaborazione del design di prodotti di largo consumo, in particolare i designer automobilistici. Nello stesso tempo il termine fu usato anche per indicare gli architetti d’interni, detti anche stilisti da arredamento. In questa particolare accezione, in realtà, l’espressione non mancava di qualche ambiguità: lo notava, fra gli altri, Giuseppe Susani nel suo volume Scienza e progetto (1967): «allo stilista si dà volentieri l’appellativo un po’ spregevole di estetista del prodotto, il quale […] si occupa delle superfici, l’abbellimento delle quali risveglia nell’acquirente l’appetito per il prestigio» (pp. 130-31).

Lentamente il termine passò nel mondo della moda, tanto che nel 1968 alcuni industriali diedero vita al Gruppo stilisti industriali abbigliamento. L’anno successivo Carla Stampa registrava l’affermazione della nuova figura scrivendo: «I personaggi principali dell’operazione moda sono almeno tre: il grande sarto che firma il modello, lo stilista che lo crea, l’industriale che fornisce la materia prima per realizzare l’idea» (Chi ha imbottito le donne?, «Epoca», 1969, 992, pp. 120-23).

In realtà, per molta parte del mondo della moda il termine restava oscuro. Come ha ricordato Armani, trattando degli anni Sessanta, «all’epoca fare lo stilista era qualcosa di sconosciuto». «Cerruti mi presentava: ‘il mio stilista’, e la gente domandava ‘Che cos’è?’» (cit. in Molho 2006, p. 52). È affascinante quanto raccontava Marco Rivetti, rievocando l’accordo stretto fra il suo GFT e Armani alla metà degli anni Settanta:

Stava nascendo il Made in Italy, non c’era neanche il lessico: non ci chiamavano licenziatari o licenzianti, né stilisti, non si parlava di licenze; ricordo il mitico avvocato di Armani che insieme all’avvocato Ugona, del GFT, inventarono le parole che identificavano i ruoli (cit. in Molho 2006, p. 84).

Gli studiosi di storia della moda sono soliti legare l’affermazione dello stilismo a Walter Albini (1941-1983), che già nel 1970 era definito «lo stilista più conteso d’Italia» («La Stampa», 16 aprile 1970). Attivo per diversi marchi, nel 1971 si era reso protagonista di una sfilata con la quale si può far nascere lo stilismo. Egli, infatti, aveva deciso di non sfilare più a Firenze, ma a Milano. E qui aveva presentato in un’unica sfilata abiti disegnati per cinque marchi diversi, ma espressione di un suo progetto stilistico unico. Era l’affermazione concreta del principio per cui lo stilista porta la firma al centro della moda, facendosi garanzia del prodotto – abito o accessorio che sia – per il solo fatto che esso reca il suo nome. Secondo Albini, lo stilista non doveva di per sé inventare qualcosa di nuovo, ma «progettare lo stile», usando il passato come un capace magazzino cui attingere. Ciò aiuta a capire anche perché egli ruppe con Firenze: le sue sfilate – come poi tutte quelle milanesi – dovevano esser prima di tutto espressione di nuovi metodi di comunicazione e di marketing.

In effetti, se si scorre la biografia dei principali stilisti attivi fra gli anni Settanta e Novanta per molti si coglie come la loro formazione fosse avvenuta lontano dal mondo della pratica sartoriale. Ciò vale, per es., per due dei tre stilisti per eccellenza, le «tre G»: Giorgio Armani (n. 1934), Gianfranco Ferré (1944-2007), Gianni Versace (1946-1997).

Armani, dopo aver interrotto gli studi in medicina, era stato assunto a La Rinascente, dove sarebbe rimasto dal 1957 al 1963 come responsabile della pubblicità: la sua carriera, quindi, era iniziata in un grande magazzino, non in un atelier. Ferré si era laureato in architettura nel 1969; uomo di grande cultura e lettore onnivoro, la sua prima esperienza lavorativa era stata, un po’ casualmente, quella di disegnatore di gioielli per Albini. Differente, invece, la formazione di Versace, che era cresciuto nell’atelier della madre Franca a Reggio Calabria e che per tutta la vita ebbe sempre una grandissima competenza sartoriale. Sia chiaro: l’eccezione era Versace. S’è già visto, per es., il caso di Fiorucci, ma situazioni non molto differenti erano quelle di altri celebri stilisti milanesi, come Nicola Trussardi (1942-1999), la cui famiglia produceva guanti dal 1910, e di Miuccia Prada (n. 1948), il cui avo Mario Prada nel 1913 aveva aperto un negozio di borse e bauli, presto assurto al rango di fornitore della Real casa, e dopo aver ottenuto un successo mondiale per le sue borsette, nel 1989 iniziò la produzione di linee di prêt-à-porter.

L’affermazione degli stilisti fu segnata anche da un nuovo rapporto con l’industria, grazie alla creazione dei contratti di licensing. Archetipo quasi fondativo di tali contratti è quello firmato alla fine degli anni Settanta da Armani con il GFT di Marco Rivetti cui si attribuisce ormai un valore quasi storico: si tratta, infatti, di uno dei primi contratti di licensing. In virtù di esso il GFT realizzava e distribuiva la collezione dello stilista, cui spettava una percentuale sui guadagni e l’assoluto controllo sullo stile del prodotto, rinunciando, da parte sua, a ogni intervento nel sistema produttivo. È importante notare che in seguito a tale accordo, Armani si poté agganciare a un sistema di secolare esperienza sartoriale, quale quello delle sartine torinesi, che così trovavano un loro ruolo, per quanto in seconda fila, nell’esperienza del made in Italy.

Per svolgere al meglio il proprio lavoro lo stilista doveva quindi essere in assoluta sintonia con la società in cui si muoveva e cui doveva offrire una sorta di espressione preventiva del gusto. In questo senso, aveva colto nel segno Amos Ciabattoni, direttore dell’EIM, quando nel 1976 definiva gli stilisti dei «sociologi inconsci» (Il sistema moda, 1976, p. 185).

Non stupisce, quindi, che la progressiva affermazione dello stilismo abbia visto la scomparsa pressoché totale di quel mondo di enti, centri e associazioni che abbiamo visto protagonisti nei decenni precedenti, quasi che rispetto a quel passato fosse necessario fare la classica terra bruciata.

Nel 1974 chiuse Modaselezione e nel 1975 il Mitam. Nel 1977 fu la volta dell’EIM e del Samia. Nel 1978 Modenese fondò a Milano il Modit (Moda Italiana), che divenne la principale tribuna del nascente made in Italy, insieme a Milanovendemoda e poi a Milano Moda Donna e Milano Moda Uomo.

In effetti, con gli stilisti non solo nacque un nuovo sistema moda, ma la moda stessa si trasformò in un’industria culturale, a metà fra l’impresa manifatturiera classica e l’industria intellettuale. Anche per questo era necessario che tale industria potesse contare su un sistema di stampa e comunicazione adeguato alle nuove esigenze. E negli anni Settanta tale sistema esisteva solo a Milano.

Va detto che, come già negli anni Cinquanta, il made in Italy semplicemente non sarebbe potuto esistere senza il mercato americano: esso fu in gran parte un prodotto pensato per l’esportazione. Anche in questo caso la biografia di Armani è esemplare. Il suo successo, infatti, fu scandito da tappe americane. La prima fu la scelta di Diane Keaton di presentarsi alla serata degli Oscar del 4 aprile 1978, per ricevere il premio quale miglior attrice per Annie hall (1977; Io & Annie), di Woody Allen, indossando un abito Armani; tale scelta ebbe un’importanza paragonabile a quella dell’abito delle sorelle Fontana da parte di Linda Christian. Nel 1979 Armani vinse il Neiman Marcus award. Nel 1980 uscì il film American gigolo, di Paul Schrader, in cui il protagonista, Julian Kay, interpretato da Richard Gere, veste solo abiti Armani. Ancora una volta, insomma, l’America era l’interlocutore di riferimento per la moda italiana e il mondo delle star hollywoodiane si poneva come tramite fra la produzione italiana e la clientela statunitense.

A Milano, fatta oggetto per la prima volta di un turismo legato alla moda, si verificò poi un fenomeno sino allora inedito: un interesse della politica verso la moda, che vide alcuni degli stessi stilisti farsi politici. Milano era allora governata dal Partito socialista italiano, il cui segretario era dal 1976 Bettino Craxi (1934-2000). Egli ebbe un rapporto assai stretto con la moda, tanto che alcuni stilisti assunsero anche cariche nel partito. Si trattava, certo, della volontà di far proprio uno degli elementi di maggiore modernità del Paese e, insieme, di porsi, anche dal punto di vista estetico, in netta rottura con la tradizione della sinistra italiana, in particolare con quella del Partito comunista. Tuttavia, in quegli anni si assistette a un vero e proprio uso politico della moda che non aveva precedenti e che non si sarebbe ripetuto in seguito: un fenomeno che attende ancora di essere analizzato e la cui ricostruzione pare ormai necessaria per comprendere a pieno cosa sia stata la moda italiana degli anni Ottanta.

Se in quegli anni le sfilate divennero performance, le mannequin si trasformarono in top model e sostituirono le dive del cinema nell’immaginario mondiale, nello stesso periodo la moda, per così dire, prese coscienza di se stessa, e iniziò a darsi una storia e a rappresentarla. A partire dalla fine degli anni Settanta, infatti, iniziarono ad apparire libri di storia della moda (prima rarissimi) e a tenersi mostre su quello o questo couturier: un’affermazione di identità chiaramente legata al nuovo ruolo della moda nella società e, quindi, nella cultura italiana.

La consacrazione di tale ruolo si ebbe il 24 gennaio 1986, quando il presidente della Repubblica Francesco Cossiga (1928-2010) aprì le porte del Quirinale a un grande ricevimento in onore di sette fra i maggiori stilisti italiani (Armani, Versace, Ferré, Valentino, Paola Fendi, Krizia e Wanda Ferragamo), cui conferì diverse onorificenze. I premiati erano fra i protagonisti del made in Italy che aveva fatto della moda il secondo comparto dell’economia italiana (dopo il turismo). La giornata era il riconoscimento al più alto livello simbolico del ruolo che ormai la moda e gli stilisti ricoprivano nella società e nell’economia italiana. Artefice dell’operazione fu il gioielliere mantovano Loris Abate (n. 1927), che l’anno prima aveva assunto la presidenza della Camera nazionale (alla cui guida sarebbe rimasto sino al 1991), facendovi entrare molti dei principali stilisti italiani. La cerimonia di gennaio ebbe il suo ideale pendant la sera del 25 luglio quando la scalinata di Trinità dei Monti fu teatro della manifestazione Donna sotto le stelle (poi divenuta appuntamento fisso sino al 2003), in cui sfilarono abiti di dodici dei principali stilisti italiani, trasmessa in diretta in eurovisione. Con essa si riconosceva di fatto l’ormai avvenuta inversione dei ruoli: non più l’alta moda come spazio di originale elaborazione artistica, cui il prêt-à-porter guardava quale ispirazione, ma gli stilisti che, forti del livello del loro prêt-à-porter, si cimentavano nell’alta moda (come mostrava pochi giorni prima dell’evento di piazza di Spagna la sfilata di settanta abiti unici di Ferré nel giardino di Palazzo Pallavicini). La vittoria degli stilisti sull’alta moda tradizionale non poteva essere più chiara.

Crisi e nuove sfide

Nonostante il successo degli stilisti, all’inizio degli anni Novanta il made in Italy entrò in crisi. Dapprima vi furono ragioni economiche. Poi lo scoppio di Tangentopoli e la fine della Milano craxiana aggravarono la situazione. «Gli scandali spengono le sfilate», titolava «La Stampa» l’11 settembre 1992. «Le grandi kermesse hanno fatto il loro tempo», commentava Modenese. E Abate aggiungeva: «la moda dei soldi facili ha finito con l’inghiottire se stessa, è riuscita a rendersi antipatica quasi come i personaggi che la sostenevano».

Nel gennaio 1996, a dieci anni di distanza dalla citata cerimonia al Quirinale, due episodi, apparentemente di scarso peso, mostrarono come proprio la politicizzazione del made in Italy avesse trasformato la moda in un simbolo quasi negativo, almeno per una parte del Paese. Il primo è un breve articolo satirico del giornalista Michele Serra (n. 1954), allora alla guida di «Cuore», supplemento satirico de «l’Unità», in cui definiva le sfilate di moda «eterna solfa italiana, peggio della pizza e del mandolino» («l’Unità», 17 gennaio 1996, poi in Id., Che tempo fa, 1999, p. 337). Il paragone delle sfilate, eventi di stile e di eleganza, con «pizza e mandolino» da sempre testimonial della peggiore immagine dell’italiano da caricatura non poteva essere più stridente. Il secondo risale a due settimane dopo, 27 gennaio 1996, quando l’amministratore delegato della Maison Gattinoni fece realizzare dei manichini raffiguranti le mogli di tre noti politici e li pose polemicamente nella prima fila di una sfilata, lamentando la loro assenza come mancato riconoscimento della moda quale settore centrale dell’economia italiana. In effetti, nonostante la crisi, ancora nel 1997 l’industria del tessile e dell’abbigliamento aveva un fatturato di ben 87.500 miliardi di lire, con un saldo attivo import/export di 27.000 miliardi, pari al deficit petrolifero del Paese (cfr. La moda nel consumo giovanile. Strategie e immaginari di fine millennio, a cura di A. Giancola, 1999, pp. 84, 97).

Era difficile, tuttavia, sfuggire alla sensazione che qualcosa nel rapporto fra il Paese e la moda, che tanto lo rappresentava nel mondo, si fosse incrinato. In effetti, dalla metà degli anni Novanta il fascino della moda sugli italiani, che aveva caratterizzato il periodo dello stilismo, si era andato progressivamente spegnendo. La stessa figura dello stilista era andata perdendo se non carisma, almeno centralità.

D’altronde, come ha notato Maria Luisa Frisa (2011), la figura dello stilista

è profondamente legata a un momento storico ben preciso, […] probabilmente […] un sistema superato, proprio come ha suggerito Miuccia Prada, quando nel 2010 ha lanciato la ‘capsule collection’ Made in, ironizzando sull’impossibilità di affermare oggi un’autenticità italiana, sulla base della provenienza dei materiali e della produzione, cercando, piuttosto, di ricondurre tutto al concept e, più in generale, alla qualità del progetto di moda portato avanti dal marchio (p. 13).

Ciò aiuta a capire perché anche la direttrice di «Vogue Italia», Franca Sozzani, in quello stesso 2010 dichiarasse:

Penso che non esista una moda che definisce un paese piuttosto che un altro. Tutto dipende dagli stilisti […] Pur parlando di nazionalità, non si può parlare di stile italiano, perché non c’è un’unica moda […] non ci sono mode secondo i paesi, ma secondo gli stilisti (I capricci della moda. I post del Direttore, 2010, pp. 190-91).

In effetti, la competizione per i prezzi ha portato a delocalizzare le produzioni più comuni, mantenendo in Italia solo quelle per cui è necessaria la competenza artigiana che caratterizza storicamente il made in Italy. Il che, peraltro, non ha impedito la crisi di interi distretti industriali, come quello di Prato, e la chiusura di industrie storiche come il GFT, protagonista del sistema produttivo dello stilismo degli anni Ottanta. Nello stesso tempo, le griffes italiane si sono internazionalizzate, soprattutto per conquistare i mercati emergenti della Russia e dell’Asia.

Agli stilisti si sono sostituiti i fashion designers. Certo, Armani, Prada e Dolce & Gabbana resistono come marchi di successo mondiale, ma pochi fra i più giovani sono riusciti a ritagliarsi un ruolo consimile. La sfida del fast fashion, con la drastica riduzione dei tempi del mercato che questo comporta e la rinuncia a esprimere ogni tratto identitario a favore di una non sempre esplicita globalizzazione del gusto, è quella cui la moda italiana deve rispondere. Guardando ai decenni trascorsi, è difficile tuttavia sfuggire alla sensazione che la moda italiana ritroverà se stessa solo se, come in un’altra importante espressione del gusto italiano, reagirà al fast con una qualche forma di slow fashion, che sappia riallacciarsi a quel bagaglio di tradizioni e d’identità che è sempre stato la carta vincente dell’Italia e della sua moda.

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