BOGART, Humphrey

Enciclopedia del Cinema (2003)

Bogart, Humphrey

Monica Trecca

Attore cinematografico statunitense, nato a New York il 23 gennaio 1899 e morto a Hollywood il 14 gennaio 1957. Il volto scavato, intenso ("il volto d'uomo più interessante che abbia mai conosciuto" lo definì E. Hemingway), segnato da un'espressione amara e a tratti illuminato da un sorriso obliquo, la voce ruvida e nasale, il fisico asciutto, ma esile con il quale si contrappose ai modelli di virilità del tempo, e soprattutto la straordinaria e intensa misura della sua recitazione ne fecero "l'attore/mito del dopoguerra", secondo la felice definizione di André Bazin, e certamente una delle più suggestive figure della storia del cinema. La sua consacrazione a star era giunta tardi, quando l'attore aveva ormai superato i quarant'anni, e gli valse un unico Oscar vinto nel 1952.

Di famiglia agiata (il padre era un affermato chirurgo, la madre una famosa illustratrice di libri e riviste), aveva frequentato dapprima la Trinity Grammar School a New York e quindi la Phillips' Academy di Andover (Massachusetts) senza mostrare grande interesse per gli studi. Arruolatosi come volontario, prestò servizio su una nave addetta al trasporto delle truppe in Europa durante la Prima guerra mondiale. L'alone leggendario che più tardi la Warner Bros. volle creare intorno all'attore indusse gli uffici stampa della major a spostarne la data di nascita al 25 dicembre del 1900, e ad attribuire la famosa cicatrice sul labbro superiore sinistro a un episodio di eroismo risalente ai tempi del servizio in marina. Dopo essersi congedato, si dedicò a professioni diverse per poi infine debuttare a teatro nel 1922. L'esordio sul grande schermo avvenne invece alla fine degli anni Venti con alcuni film di poco conto della Fox. La prima importante svolta della sua carriera fu costituita dal trionfo ottenuto a Broadway nel 1934 con il lavoro di R.E. Sherwood The petrified forest nella parte del duro Duke Mantee, che gli procurò un contratto a lungo termine con la Warner e che riprese più tardi nell'omonima riduzione cinematografica diretta da Archie Mayo (1936; La foresta pietrificata), imposto alla produzione (che intendeva ingaggiare Edward G. Robinson) dal protagonista Leslie Howard. Ebbe quindi inizio una lunga serie di film, più o meno riusciti, in cui B. interpretò il personaggio del gangster gelido e crudele, inesorabilmente condannato dalla società, quasi sempre in ruoli di secondo piano. Così accade in Bullets or ballots (1936; Le belve della città) di William Keighley, in Kid galahad (1937; L'uomo di bronzo) di Michael Curtiz, e ancora in The amazing doctor Clitterhouse (1938; Il sapore del delitto) di Anatole Litvak, tutti al fianco di Edward G. Robinson. O in Angels with dirty faces (1938; Gli angeli con la faccia sporca), diretto nuovamente da Curtiz, ove, accanto al protagonista James Cagney, dà spessore al personaggio di un bieco avvocato difensore di gangster. E nel teso e vibrante They drive by night (1940; Strada maestra) di Raoul Walsh, in cui interpreta il fratello di George Raft. L'attore da un lato lottava per non restare imprigionato nella figura del killer brutale, cercando l'occasione di misurarsi con personaggi diversi, come nel caso del combattivo procuratore di Marked woman (1937; Le cinque schiave) di Lloyd Bacon. Dall'altro, continuava a perfezionare la sua maschera cinica di duro, sempre più arricchita da tratti di amarezza spesso venati di ironia. In qualche misura certi umori e sfumature, poi approfonditi nei più complessi ruoli del decennio successivo, risultano anticipati dalla carica violenta di Duke Mantee, quasi alter ego negativo dell'intellettuale protagonista al quale lo lega la stessa solitudine esistenziale. O, in Dead end (1937; Strada sbarrata) di William Wyler, dal drammatico pellegrinaggio dell'assassino 'Baby Face' Martin, destinato a concludersi fatalmente nel degradato quartiere della giovinezza.All'energia tutta fisica, negativa ma vitale dei protagonisti dei gangster film degli anni Trenta, B. oppose un disincanto ottenuto smorzando i toni e imponendo un'asciutta gamma di registri espressivi, sino a fare dell'essenzialità una scelta di stile. Tale coerenza interpretativa aderiva perfettamente al meccanismo narrativo dei thriller noir degli anni Quaranta, in quanto offriva il necessario punto di vista attraverso il quale filtrare una realtà spesso incomprensibile, emblematicamente rappresentata dagli angoli bui di città violente esplorate utilizzando abilmente il grandangolo. Il rinnovamento dei protagonisti di questa moderna inquietudine trovò perfetta espressione in B. che giunse infine al successo con due film, entrambi del 1941 ed entrambi rifiutati da George Raft, High Sierra (Una pallottola per Roy), diretto da Raoul Walsh, e The Maltese falcon (Il falcone maltese o Il mistero del falco), terza versione del romanzo di D. Hammett e prima regia di John Huston. Nel primo seppe animare di sofferta umanità la figura di Roy Earle, piccolo criminale uscito dal carcere, senza futuro di fronte a un mondo in vertiginosa trasformazione, rispetto al quale non sa proporre altro che le scelte di un tempo. Nel secondo, interpretando Sam Spade, riuscì a disegnare con inarrivabile maestria la moderna figura del detective privato, individualista, solitario e cinico. Con questo personaggio risultò definitivamente perfezionato il 'mito Bogart': il duro con il cappello lievemente inclinato, la sigaretta tra le labbra, avvolto nel trench, ironico e spavaldo con le donne, con un preciso codice d'onore per il quale può sacrificare anche l'amore, ma mai l'indipendenza e la libertà. E che può regalargli un affascinante alone romantico quando interpreta l'indimenticabile Rick di Casablanca (1942) diretto da Curtiz, ruolo che gli valse la prima nomination all'Oscar e lo consacrò cavalleresco eroe della rinuncia a una splendida Ingrid Bergman-Ilse, in nome di superiori valori morali. Al centro di una trama in cui convergono molti archetipi dell'immaginario, B. è l'avventuriero sprezzante, ma generoso, deluso negli ideali, e pronto tuttavia a compiere una scelta che si configura come vittoria innanzi tutto sul proprio scetticismo. Il conflitto emotivo si consuma nel piccolo mondo lacerato dalla guerra, e momentaneamente sospeso in un'impossibile neutralità, del Rick's Café Americain, ma più in generale evoca un ricorrente impianto narrativo nel quale risulta centrale per l'evoluzione della vicenda e dei personaggi bogartiani lo scontro tra di-sillusa rinuncia e coinvolgimento nell'azione. Come accade in To have and have not (Acque del Sud), tratto dall'omonimo romanzo di E. Hemingway e diretto nel 1944 da Howard Hawks, in cui B., rude proprietario di un'imbarcazione che affitta a ricchi americani annoiati, decide infine di portare in salvo un leader della Resistenza francese nonché la sensuale Slim, dal fascino inquieto, interpretata dall'esordiente Lauren Bacall, che di lì a poco sarebbe diventata la sua quarta moglie. I due attori recitarono insieme in altri tre film: Dark passage (1947; La fuga) di Delmer Daves, in cui il volto del protagonista è il risultato di un'operazione chirurgica e l'apparizione della star viene enfatizzata dai primi quaranta minuti di assenza durante i quali il film scorre in parziale soggettiva; Key Largo (1948; L'isola di corallo) ancora di Huston, dove, sullo sfondo di un atollo della Florida, si ripropone il dissidio tra stanca indifferenza e lotta contro la violenza e l'abuso. E soprattutto, in precedenza, The big sleep (1946; Il grande sonno) in cui B., questa volta diretto da Hawks, era stato di nuovo un detective, il chandleriano e raffinato Philip Marlowe. Il suo personaggio si trova qui al centro di una storia estremamente tortuosa, ricca di sovrapposizioni, incastri, personaggi ambigui, donne enigmatiche (la Bacall) o crudelmente infantili (Marta Vickers), e vicende scabrose esasperate più che nascoste da un complesso sistema di allusioni narrative. Anche in Dead reckoning (1947; Solo chi cade può risorgere) di John Cromwell B. continuò a confrontarsi con le più tipiche situazioni del film noir, una morte misteriosa, l'angosciosa ricerca della verità, la fascinazione pericolosa di una fatale dark lady interpretata da Lizabeth Scott che Bogie (come veniva affettuosamente chiamato) vorrebbe esorcizzare riducendola a 'grazioso gingillo', con una delle più famose e significative battute misogine della storia del cinema. Ma fu nuovamente Huston a regalargli un ruolo che l'attore amò profondamente, quello del protagonista di The treasure of the Sierra Madre (1948; Il tesoro della Sierra Madre) con due compari sulle tracce dell'oro, ultima, irraggiungibile speranza di riscatto di tutta una vita. B. seppe delineare con ricchezza di sfumature il degrado psicologico e fisico di Fred C. Dobbs, e fu attratto da questa sfida interpretativa come accadrà più tardi con il tormentato capitano Queeg di The Caine mutiny (1954; L'ammutinamento del Caine) di Edward Dmytryk. In questa terza e ultima parte della sua carriera il fascino della contraddizione, sul quale aveva costruito la psicologia dei suoi personaggi più riusciti, continuò a guidare l'attore nella scelta dei ruoli, spesso moralmente antitetici, ma tutti caratterizzati da tocchi di spiccato individualismo. Come quando si batte contro la durezza delle leggi nella parte di un avvocato in Knock on any door (1949; I bassifondi di San Francisco) di Nicholas Ray (uno dei quattro film prodotti dalla Santana, la casa di produzione fondata dall'attore nel 1947). O quando lotta come procuratore distrettuale contro il sindacato omicidi in The enforcer (1951; La città è salva), firmato da Bretaigne Windust, ma in realtà diretto in gran parte da R. Walsh. E, infine, quando s'impegna in una esemplare battaglia come direttore di un giornale destinato a chiudere, ma dalle cui pagine combatterà sino alla fine contro la corruzione e il delitto in Deadline U.S.A. (1952; L'ultima minaccia) di Richard Brooks. Ma B. seppe anche smitizzare certi suoi tipici tratti, divertendosi a estremizzarli con ironia come accadde, ancora nel 1951, con The African Queen (La regina d'Africa) ove, per la quarta volta diretto da Huston e contrapposto a una spumeggiante Katharine Hepburn in gustose schermaglie dialettiche, conquistò l'Oscar interpretando un incallito ubriacone che si riscatta in un eroico quanto iperbolico finale. Oppure in Sabrina (1954), di Billy Wilder, in cui sembra guardarsi corteggiare con scettico distacco una deliziosa, ma per lui troppo glamour Audrey Hepburn. O ancora nella commedia We're no angels (1955; Non siamo angeli) di Curtiz, in cui fa una divertita parodia dei suoi ruoli di gangster. I toni chiaroscurali delle sue interpretazioni più tipiche tornano invece a caratterizzare il personaggio dell'amaro regista di The barefoot contessa (1954; La contessa scalza) di Joseph L. Mankiewicz, che trova più verità nei copioni che nella vita, e il suo ultimo gangster, invecchiato, pieno di rabbia, negativo doppio del capofamiglia che tiene in ostaggio in The desperate hours (1955; Ore disperate) di W. Wyler. Ormai segnato dalla malattia, fu un malinconico ex giornalista che sa riscattarsi dal giro di corruzione in cui si è lasciato intrappolare, denunciando coraggiosamente le storture del mondo della boxe, nel suo ultimo film The harder they fall (1956; Il colosso d'argilla), diretto da Mark Robson.

Anticonformista, liberale in politica (nel 1947 formò un comitato per protestare contro la caccia alle streghe del senatore McCarthy), insofferente nei confronti di certe logiche produttive ("Time" lo definì un 'ribelle' di Hollywood), B. costituisce uno dei rari casi in cui la leggenda sembra in qualche modo crescere e arricchirsi dopo la morte. Già i critici dei "Cahiers du cinéma" lo consacrarono come l'attore che meglio di ogni altro aveva saputo cogliere e fissare l'ambiguità insita nella natura umana, e tanto J.-L. Godard che F. Truffaut lo ricordarono rispettivamente in À bout de souffle e Tirez sur le pianiste (entrambi del 1960), mentre verso la fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta il mito Bogart è stato entusiasticamente rilanciato da omaggi, rivisitazioni, persino parodie, a dimostrazione di una vitalità e di una attualità che non accennano a diminuire.

Bibliografia

T. Granich, Humphrey Bogart, Parma 1956.

A. Bazin, Mort de Humphrey Bogart, in "Cahiers du cinéma", 1957 (trad. it. in Che cosa è il cinema?, Milano 1986, pp. 214-18).

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A. Heinzlmeier, J. Menningen, B. Schulz, Das Humphrey Bogart Fan-Buch, Hamburg 1984 (trad. it. Torino 1988).

A. Thain, Humphrey Bogart. Der Mann hinter der Maske: eine Biographie, Reinbek 1996.

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G. Duchovnay, Humphrey Bogart: a bio-bibliography, Westport (CT) 1999.

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