REY, Guido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)

REY, Guido

Alessandro Pastore

REY, Guido. – Nacque a Torino il 20 novembre 1861 da Giacomo Vincenzo e da Lydia Mongenet de Resencourt, entrambi discendenti da famiglie di origine francese. Il padre era titolare di una ditta specializzata nella produzione e nel commercio di materiali tessili che dava lavoro a un centinaio di operai ed era cognato di Quintino Sella, con il quale condivise l’impegno politico, sedendo in Parlamento per tre mandati quale deputato del collegio di Cossato.

Guido Rey superò brillantemente nel 1879 gli esami di maturità presso il Regio liceo ginnasio Vincenzo Gioberti, ma non proseguì negli studi superiori. Continuò tuttavia a interessarsi di letteratura, soprattutto francese, e di arte, esercitandosi nel disegno a matita e a penna e nella pittura ad acquarello e a olio.

Si spostò frequentemente da Torino all’estero per le necessità dell’azienda, che dalla morte del padre (1907) diresse insieme al fratello Ugo, proseguendo la tradizione dei viaggi di lavoro in cui si erano impegnati il nonno e il padre stesso, che visitavano periodicamente i maggiori centri britannici del ramo tessile. A Londra Rey ebbe incontri anche con alpinisti e scrittori; altre sue mete furono i Paesi Bassi, la Germania, la Spagna, la Grecia, l’Egitto, il Marocco, l’Argentina e gli Stati Uniti.

Già da ragazzo maturò le prime esperienze in montagna, anche in compagnia dello zio Quintino Sella; seguirono salite più impegnative con amici e con guide alpine. Compì pure alcune prime ascensioni, fra cui la cresta nord della Grivola e due nuove vie sul Monviso, oltre alla ripetizione di difficili itinerari già tracciati fra cui, per cinque volte, il Cervino.

Fu un cultore apprezzato dell’attività fotografica nel campo della cosiddetta fotografia pittorica e artistica, largamente praticata all’epoca, e soprattutto nelle istantanee di montagna. Le origini di questa passione, le cui prime testimonianze risalgono al 1890, erano legate al suo desiderio di «documentare l’ambiente fisico in cui pratica l’alpinismo, le sue ascensioni o la preparazione delle stesse» (A. Schwarz, in Guido Rey, 1986, p. 203), poiché attribuiva carattere di oggettività all’immagine fotografica, che considerava una testimonianza più credibile rispetto alla descrizione scritta di un itinerario alpinistico. Dimostrò inoltre un’attenzione pionieristica verso la cinematografia collaborando al documentario diretto da Vittorio Sella sulla spedizione di Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, il Duca degli Abruzzi, al Karakorum nel 1909.

Alla narrazione di itinerari alpinistici sulle pagine del Bollettino del Club alpino italiano e alla firma con Giovanni Saragat di Alpinismo a quattro mani (Torino 1897) seguì Il Monte Cervino, pubblicato da Hoepli nel 1904, in cui Rey diede prova delle sue doti di scrittore coinvolto nella ricerca e nella valorizzazione della ‘spiritualità’ della montagna, percepita in se stessa e nell’ambito della pratica alpinistica.

Il volume, corredato dai disegni di Edoardo Rubino e dalle foto del cugino Vittorio Sella, era introdotto da Edmondo De Amicis. In esso si alternano – chiosò l’autore di Cuore – «la descrizione e la narrazione, la storia e la poesia, il ragionamento e l’aneddoto» (p. XIII). La vicenda storica dell’esplorazione e poi della conquista del Cervino nel 1861 da parte di Edward Whymper e dei successivi alpinisti era concepita come una ‘religione delle memorie’ nella quale s’inserì l’esperienza personale dell’autore che osservò, fotografò e percorse le vie di salita della montagna oggetto del suo culto. Accolto positivamente dalla critica e dal pubblico, come dimostrano le riedizioni e le traduzioni in francese, inglese e tedesco, Il Monte Cervino fu oggetto di critica, specie dagli anni Settanta del Novecento, per il suo «traboccante sentimentalismo» e per uno stile giudicato troppo lirico. Se a spingerlo sull’Alpe era stata fondamentalmente «l’ansia della poesia», Rey si rivelò comunque un «combattente animoso» nella lotta sulla roccia e sul ghiaccio, come dimostra l’elenco nutrito delle ascensioni ‘classiche’ nelle Alpi Occidentali e la serie di scalate ‘moderne’ realizzate nelle Dolomiti (Mila, in Engel, 1968, pp. 339-342).

Strinse amicizia con artisti, da Edoardo Rubino a Cesare Tallone e Leonardo Bistolfi, e con scrittori, come Enrico Thovez, Giuseppe Giacosa e soprattutto De Amicis, pur essendo lontano dalle posizioni politiche del De Amicis e degli ambienti socialisti torinesi. Frequentò invece il Circolo degli artisti della sua città. Tra i suoi impegni ufficiali a Torino vi fu anche il ruolo di giurato nella Prima esposizione internazionale d’arte decorativa moderna nel 1902 e di collaboratore nell’allestimento del Villaggio alpino nell’Esposizione internazionale del 1911.

Nel 1914 diede alle stampe il volume Alpinismo acrobatico, dedicato all’amico Ugo De Amicis, figlio dello scrittore, che raccoglie i resoconti delle sue scalate.

Quattro capitoli sono dedicati a salite nel gruppo del Monte Bianco, fra il 1904 e il 1905, altri nove privilegiano l’area dolomitica, frequentata fra il 1910 e il 1912 insieme al giovane De Amicis e avendo come guida, fra gli altri, Tita Piaz. L’aggettivo ‘acrobatico’ faceva riferimento a una nuova scuola di alpinismo praticata da Piaz, che consisteva in «arrampicate brevi ma intense che si svolgono sui confini fra il difficile e l’impossibile» (p. 169). Evidente il fervore patriottico dell’autore che, giunto in vetta al Grande Piz da Cir, rispondeva con l’inno di Mameli a un alpinista tedesco che intonava Die Wacht am Rhein mentre la guida Piaz era salito cantando l’inno dei lavoratori. Esplicita in lui la saldatura fra l’impegno alpinistico e la difesa della nazione: «L’Alpe, come la Patria, non vuole offerta di vane parole ma sacrificio di opere e virtù di ardimenti» (p. 232).

Nell’aprile del 1913 tenne a Trieste una conferenza, sorvegliata da funzionari della polizia asburgica, sulle sue scalate alle Torri del Vajolet, nella quale sciolse anche un «inno di fede italica» ai fratelli irredenti (Prada, 1956, p. 208). Fu un convinto interventista e sostenitore di un’alleanza in chiave latina con la Francia in contrapposizione al fronte austro-tedesco: «une race doit supprimer l’autre» (cit. in Pastore, 2003, p. 70). Dopo l’entrata in guerra dell’Italia prestò servizio volontario nei ranghi della Croce rossa italiana (percorse in auto 22.000 km in diciotto mesi) ed ebbe anche modo di documentare la campagna militare attraverso l’uso della fotografia. Nel corso del 1916 un grave incidente automobilistico comportò un peggioramento delle sue condizioni fisiche con alcune complicanze cardiache.

Già in precedenza Rey era animato da una forte religiosità patriottica, rivolta in particolare alla figura di Cesare Battisti, da lui incontrato a Torino nel 1914 e apprezzato non solo nella dimensione eroica del sacrificio, ma anche in quella dell’uomo concreto e lontano da ogni retorica. Il nome di Battisti ricorre nei contatti con gli esponenti della SAT (Società degli Alpinisti Tridentini) e della SOSAT, la sezione operaia della SAT, che rappresentava per Rey la palestra dove si esercitava «la gioventù della forte e buona classe lavoratrice italiana» (Lettere a Nino, 1977, p. 46). Come per numerosi uomini di cultura italiani, anche per Rey la partecipazione al primo conflitto mondiale e le tensioni politiche e sociali che seguirono ebbero l’esito di orientarne le opinioni politiche. Così nel dopoguerra egli mostrò il suo consenso al movimento fascista, ritenuto lo strumento più efficace per arginare il conflitto sociale e riportare l’ordine nel Paese, elogiando i «jours fervents» della marcia su Roma, e non esitò nel 1925 a paragonare la «figura morale e fisica» di Benito Mussolini a quella dello zio Quintino Sella. L’avversario politico da battere – a detta di Rey – era sempre lo stesso: la Sinistra, «l’insidioso, eterno nemico d’Italia».

Nel 1932 Angelo Manaresi, presidente del CAI (Club Alpino Italiano) e uomo di primo piano del regime, scrisse la prefazione alla nuova edizione di Alpinismo acrobatico, nella quale identificò Rey come un esponente della nuova Italia contrapposta a quella prefascista e materialista nella quale «quanto di puro, di forte, di utile alla sanità fisica e spirituale della razza» era invece oggetto di disprezzo.

Fascista, ma non senza contraddizioni, Rey combatté una campagna di sapore ambientalista, opponendosi a una modernità funzionale all’ideologia del regime. Nel 1928 affermò con decisione che il progresso, da lui negativamente esemplificato nelle automobili, nell’elettricità e nei fonografi, minacciava la bellezza alpina e le abitudini di vita delle «nostre care, sacre e pure vallate» (Lettere a Nino, 1977, p. 91).

Ancora pochi mesi prima della morte evocò lo «scempio del poetico paesaggio e della vita di pace» che si sarebbe consumato con la costruzione di una strada carrozzabile che collegava Breuil (Cervinia), dove possedeva una casa, e il fondovalle, commentando amaramente: «dicono che questa sia la civiltà» (p. 152). Una battaglia di principio perduta, ma che alimentò al tempo la discussione sulle politiche di tutela della montagna, proprio perché Rey rappresentava in quegli anni «un’icona dell’alpinismo italiano» (Armiero, 2013, p. 49).

Lo stato di salute, fisica e psicologica, che risulta già minato nella corrispondenza degli anni Venti, si aggravò e Rey morì a Torino il 24 giugno 1935.

Dopo la seconda guerra mondiale l’orientamento filofascista di Rey venne in parte occultato, e si volle sostenere che nel Ventennio egli si sarebbe volutamente appartato «per ardere in solitudine, incorrotta fiaccola di patriottismo e di umanità» (Prada, 1956, p. 218). Rey restò comunque l’emblema della stagione di un alpinismo alto, ‘eroico’, connotato da una relazione simbiotica e spiritualista con la montagna, o con l’Alpe, volendo adottare un termine spesso utilizzato dallo scrittore che conservò per tutta la sua vita «un senso di meraviglioso stupore alla presenza delle grandi vette» (Engel, 1968, p. 179). Fu una figura a lungo presente e rispettata nella cultura alpinistica – è stato detto che il suo nome racchiude «il valore di un simbolo» (C. Giussani, in Rey, Opere complete, 1953-1954, IV, p. 10) – come dimostra il fatto che una sua fortunata citazione «io credetti e credo la lotta coll’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede», risalente al 1913, abbia campeggiato a lungo sulla tessera dei soci del CAI. Anche le narrazioni antiretoriche dell’alpinismo, pur non negando lo spirito aristocratico e «l’eredità retorica» (Motti, 1994, p. 254), hanno sottolineato la rilevanza degli scritti di Rey per la conoscenza e la pratica della montagna.

Opere. Alpinismo a quattro mani, Torino 1897 (con G. Saragat); Famiglia alpinistica. Tipi e paesaggi, Torino 1904 (con G. Saragat); Il Monte Cervino, Milano 1904; Alpinismo acrobatico, Torino 1914; Il tempo che torna, Torino 1929; La fine dell’alpinismo, Torino 1939. Gli scritti minori di Rey non compresi nei titoli indicati, usciti su riviste o in forma di opuscolo, furono raccolti in Opere complete, I-IV, Torino 1953-1954 (l’elenco delle diverse ristampe e delle traduzioni francesi, inglesi e tedesche è alle pp. 271-277 del IV volume).

Fonti e Bibl.: Materiali del consistente epistolario si trovano a Torino, Biblioteca nazionale del CAI, Archivio Storico, Fondo Rey - Gaillard, Fondo Giuseppe Mazzotti, e a Biella, Fondazione Sella, Fondo Vittorio Sella. I negativi delle fotografie di Rey si conservano presso il Centro di documentazione - Fototeca del Museo nazionale della montagna di Torino. Undici lettere di Rey, scritte fra il 1928 e il 1934, sono in U. Tavecchi, Omaggio devoto a Guido Rey, Bergamo s.d.; un altro contributo all’epistolario, per il periodo 1923-1934, è in Lettere a Nino. Lettere di Guido Rey a Nino Peterlongo, Trento 1977.

S. Prada, G. R. il maestro, Bologna 1956; C.-E. Engel, Storia dell’alpinismo, Milano 1968, pp. 179, 276 e, in appendice, M. Mila, Cento anni di alpinismo italiano (pp. 339-342); G. R. dall’alpinismo alla letteratura e ritorno, Torino 1986 (con materiali inediti: il diario personale tenuto nel 1911, pp. 229-247, una selezione di lettere, pp. 249-290); G.P. Motti, La storia dell’alpinismo, Torino 1994, pp. 252-254; G. Garimoldi, Fotografia e alpinismo. Storie parallele. La fotografia di montagna dai pionieri all’arrampicata sportiva, Ivrea 1995, pp. 97 s.; A. Pastore, Alpinismo e storia d’Italia. Dall’Unità alla Resistenza, Bologna 2003, ad ind.; G. R. fotografo pittorialista, Milano 2004; L. Pramotton, G. R. al Crest al Cervino, Pont-Saint-Martin 2006; M. Armiero, Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX, Torino 2013, pp. 48 s.

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