MONTFORT, Guido di

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MONTFORT, Guido di

Berardo Pio

MONTFORT, Guido di. – Quarto figlio di Simone, conte di Leicester, e di Eleonora, sorella di Enrico III re d’Inghilterra, nacque intorno al 1244.

Simone, leader del movimento riformatore che mirava a limitare gli eccessi del potere regio, dopo alcuni successi militari e diplomatici che lo avevano portato di fatto a controllare buona parte dell’Inghilterra e a disporre della persona del re Enrico III e di quella del principe ereditario Edoardo, non riuscì a consolidare il suo potere e fu sconfitto e ucciso a Evesham dalle forze fedeli alla Corona il 4 agosto 1265.

Montfort partecipò attivamente all’ultima fase delle campagne paterne: guidò un reparto dell’esercito dei baroni in occasione della vittoriosa battaglia di Lewes (14 maggio 1264), dopo la quale ottenne il governo e i proventi del Devon e della Cornovaglia, sottratti allo zio Riccardo, altro fratello della madre. Durante la battaglia di Evesham – in occasione della quale cadde, insieme con il padre, suo fratello maggiore Enrico – fu gravemente ferito e fatto prigioniero. Tuttavia nella primavera del 1266 riuscì a fuggire dal castello di Dover, dove era stato rinchiuso, e raggiunse in Francia l’altro fratello, Simone, che, dopo aver tentato una resistenza disperata nel castello di Kenilworth, sul finire del 1265 era stato costretto alla resa e aveva lasciato l’Inghilterra.

Probabilmente Montfort si spostò in Italia dopo la conquista angioina, nel 1267, e fu raggiunto nella primavera dell’anno successivo da Simone: erroneamente alcune fonti, fra le quali la cronaca di Giovanni Villani e il De casibus di Giovanni Boccaccio, lo additano quale comandante della spedizione militare angioina del 1265 o come uno fra i capitani dell’esercito che sconfisse a Benevento le milizie di Manfredi. Viceversa mostrò tutto il suo valore militare in occasione della battaglia di Tagliacozzo (23 agosto 1268), combattendo furiosamente nella mischia – come cinghiale tra i cani, secondo il cronista Guillaume de Nangis –, e guadagnandosi la riconoscenza di Carlo I d’Angiò che, il 18 aprile 1269, gli concesse la contea di Nola, con le terre di Cicala, Atripalda, Monteforte e Forino. Poco tempo dopo, nel gennaio del 1271, il fratello Simone ottenne la contea di Avellino, con le terre di Calvi, Francolise, Riardo e Padula.

Il 21 luglio 1269 il re lo creò vicario generale in Sicilia, in sostituzione del defunto Guillaume de Muideblé, con il compito di combattere contro gli insorti che avevano abbracciato la causa di Corradino e con la facoltà di concedere un salvacondotto ai ribelli disposti ad abbandonare il Regno. L’incarico ebbe breve durata, visto che già nell’agosto successivo era stato nominato un nuovo vicario, Guillaume l’Etendard: tuttavia Montfort partecipò ancora alle operazioni contro gli insorti siciliani culminate con la riconquista della città di Augusta, orrendamente messa a sacco dalle truppe francesi.

Il 24 marzo 1270 fu nominato da Carlo I d’Angiò suo vicario generale per la Toscana, in sostituzione di Jean de Bertaud, in uno dei momenti di maggior divisione fra le parti che si contendevano il predominio nella regione. Il giorno prima il re aveva scritto al suo vicario in Roma, Pierre de Sommereuse, comunicandogli l’invio di Montfort in Toscana e invitandolo a proteggerne il passaggio attraverso le terre romane dalle insidie di Angelo Capocci.

Verosimilmente Montfort prese possesso della carica nei primi giorni d’aprile e gestì il potere con particolare asprezza nei confronti dei ghibellini toscani. Il 27 aprile fece il suo ingresso solenne in Firenze dove, l’8 maggio, presenziò alla decapitazione di Azzolino e Neri, figli di Farinata degli Uberti, fermamente voluta dal re di Sicilia e fatta eseguire dal vicario del re in Firenze, Berardo di Raiano. Il giorno successivo accolse a Pistoia quattro dei figli del re di Sicilia, tra i quali l’erede al trono, il futuro Carlo II, che lasciata la Francia si apprestavano a raggiungere il padre in Italia meridionale. Intraprese poi una serie di operazioni militari volte a smantellare la presenza ghibellina in Toscana: alla testa dei cavalieri francesi, di consistenti forze fiorentine e di un contingente inviato da Orvieto assalì e distrusse alcuni castelli dei Pazzi di Valdarno; nel mese di maggio devastò il territorio di Poggibonsi; nel mese di giugno portò le truppe delle città guelfe a saccheggiare il territorio di Siena e fece costruire alcune fortificazioni a ridosso della città nemica, costringendola alla sottomissione. Il 4 agosto successivo, a Lucignano, fu stipulato un accordo che riconosceva ai senesi la facoltà di indicare una rosa di quattro persone devote alla Chiesa e fedeli al re di Sicilia tra le quali il vicario (o, in sua assenza, il re) avrebbe scelto il podestà e il capitano; inoltre, furono riammessi in città gli esuli di parte guelfa e furono liberati i prigionieri detenuti nelle carceri cittadine, compresi i guelfi fiorentini catturati dieci anni prima in occasione della battaglia di Montaperti; i senesi, infine, versarono a Montfort la somma di 3600 fiorini d’oro e offrirono doni in denaro ai suoi cavalieri.

Tale successo fu coronato, il 24 settembre successivo, con la nomina a vicario di Carlo d’Angiò nella città di Firenze in sostituzione di Berardo di Raiano, contro il quale, peraltro, Montfort aveva aperto un sorta di conflitto di competenze condannandolo al pagamento di 30 libbre d’oro con l’accusa di non avergli trasmesso un appello presentato da un condannato a morte per omicidio.

La resa di Siena determinò, il 29 settembre 1270, quella di Poggibonsi, invano attaccata fino a quel momento dalle forze guelfe: nonostante gli accordi, nel novembre successivo il vicario angioino decretò la distruzione della città toscana, affidandone l’esecuzione ai fiorentini, in cambio di 4000 fiorini d’oro.

Nel frattempo, il 10 agosto dello stesso anno a Viterbo, Guido aveva sposato, con il consenso di Carlo I d’Angiò, Margherita Aldobrandeschi, unica figlia del conte palatino Ildebrandino di Pitigliano e Sovana, detto il Rosso, uomo violento, signore di metà della contea aldobrandesca e potente alleato di Firenze nella lotta contro Siena.

Con la sottomissione di Siena e il matrimonio con l’erede di uno dei maggiori patrimoni feudali della Toscana, Montfort raggiunse l’apice della sua carriera politica e militare: il 27 novembre 1270 Carlo I gli assegnò – non in qualità di suo vicario, ma come suo consanguineo e famigliare – i beni dei ghibellini, ribelli della Chiesa e nemici del re di Sicilia, che fosse riuscito a conquistare, a partire da quelli del conte palatino Ildebrandino di Santa Fiora, signore dell’altra metà della contea Aldobrandesca, e del conte di Elci, situati nella Toscana meridionale.

Inspiegabilmente, quando ormai le sorti personali sembravano destinate a successi sempre maggiori, spinto dal desiderio di vendicare la morte del padre, Montfort si rese protagonista di uno degli episodi più atroci del Medioevo occidentale – «one of the famous crimes in history », secondo la colorita espressione di Frederick M. Powicke (1949, p. 82) –: l’assassinio del cugino Enrico di Cornovaglia, che gli inglesi chiamavano Enrico d’Alemagna perché il padre Riccardo era stato eletto re di Germania (rex Romanorum), un episodio che determinò, per la seconda volta nel giro di pochissimi anni, la disastrosa rovina della famiglia anglo-francese dei Montfort.

Nel marzo 1271, Carlo I d’Angiò, Filippo III di Francia ed Enrico di Cornovaglia, di ritorno dalla crociata contro Tunisi, raggiunsero Viterbo, dove tra mille difficoltà si stava svolgendo il conclave per l’elezione del successore del defunto pontefice Clemente IV. Guido, accompagnato dal fratello Simone e dal suocero Ildebrandino, raggiunse la città laziale il 12 marzo con un contingente di 300 cavalieri; la cosa non destò particolari sospetti in quanto ci si aspettava che il vicario rendesse conto del suo operato in Toscana al re di Sicilia. Il giorno successivo Montfort fece circondare la chiesa di San Silvestro, dove Enrico di Cornovaglia si era recato per assistere alla messa, quindi irruppe con il fratello e con altri seguaci nel luogo sacro e, urlando con voce terribile «Proditor Enrice de Alemannia, non evades », si avventò sul principe inglese; ripetutamente colpito, Enrico cercò riparo presso l’altare, ma i Montfort gli furono di nuovo addosso: un colpo di spada amputò le dita della mano sinistra con la quale Enrico aveva afferrato la tovaglia dell’altare, altri colpi finirono la vittima il cui corpo cadde riverso fra le braccia di un sacerdote; nella foga furono colpiti alcuni chierici che avevano cercato di frapporre ostacolo alla furia degli assalitori: uno di essi fu colpito a morte, un altro fu gravemente ferito. Mentre i Montfort si apprestavano ad abbandonare il luogo del misfatto, un cavaliere francese del loro seguito li spinse a più crudele vendetta, ricordando loro che il corpo del padre era stato trascinato nel fango e straziato dopo la battaglia di Evesham: Guido e Simone rientrarono in chiesa, afferrarono il cadavere di Enrico per i capelli, lo trascinarono fuori e lo fecero a pezzi; poi, protetti dai cavalieri del seguito, si rifugiarono in Maremma, in uno dei castelli di Ildebrandino Aldobrandeschi, che aveva atteso i due assassini fuori dalla chiesa e li aveva accompagnati nella fuga. In seguito Guido, alla ricerca di un rifugio più sicuro o, forse, per non compromettere ulteriormente il suocero, si affidò a Stoldo de’ Rossi – padre di Liscia che compare in più occasioni, nel corso dell’estate 1270, come procuratore di Montfort – che era stato capitano delle milizie guelfe nella guerra contro Manfredi e che allora, per conto dei fiorentini, governava il castello di Montignoso, nel territorio di San Miniato. L’altro protagonista della terribile vendetta, Simone di Montfort, si spense poco dopo il misfatto, nel corso del 1271, in un castello nei pressi di Siena.

Non sappiamo se il grave gesto fu premeditato o frutto di un impulso improvviso, circostanza importante anche per valutare il grado di responsabilità del conte di Pitigliano, né possiamo delineare con esattezza il ruolo svolto nella circostanza da Carlo d’Angiò e da Filippo di Francia, che non furono fisicamente presenti sulla scena del crimine. La reazione del re di Sicilia, evidentemente timoroso di essere chiamato in causa se non come mandante certo come complice degli autori di tanto oltraggio, fu immediata: il giorno stesso del delitto rimosse infatti Montfort da ogni incarico, ordinò a tutti i vicari, castellani, ufficiali e stipendiari da lui nominati di obbedire al nuovo vicario generale, Enrico di Vaudemont conte di Ariano, e scrisse a Edoardo, primogenito del re d’Inghilterra, assicurando di aver ordinato al nuovo rettore in Toscana di inseguire e catturare gli assassini, con l’intento di perseguirne con tutte le sue forze lo sterminio e la rovina. Scrisse quindi al figlio, Carlo di Salerno, disponendo il sequestro dei beni feudali dei due fratelli che si erano macchiati di un crimine tanto atroce. Il corpo di Enrico fu trasportato in Inghilterra e tumulato nel convento cistercense di Hayles, nei pressi di Gloucester, mentre il suo cuore, riposto in una coppa dorata, fu collocato nell’abbazia di Westminster.

All’inizio del 1273 Edoardo I d’Inghilterra, rientrando dalla Terrasanta, si fermò a Orvieto, presso la Curia pontificia, con l’intenzione ferma di chiedere al papa la punizione dell’assassino del cugino Enrico di Cornovaglia, contro il quale non era stato istruito alcun processo, che si muoveva ancora liberamente in Toscana, nei domini del suocero, protetto dal favore di alcuni cardinali e di vari esponenti del guelfismo toscano. Il nuovo re d’Inghilterra pretendeva ora la giusta punizione del reo e minacciava di invadere con le sue truppe i domini del conte Ildebrandino e di trascinare nell’operazione militare le città toscane, prime fra tutte Firenze e Siena, che avevano solidi legami commerciali con l’Inghilterra. A questo punto il papa si vide costretto ad aprire un processo formale contro Montfort, all’epoca nascosto nel borgo di Colle Sabatino, nei pressi di Siena, citandolo a comparire in giudizio. Il conte cercò in tutti i modi di sottrarsi, sostenendo in tre lettere inviate al pontefice che non poteva lasciare i domini del suocero senza rischiare di cadere nelle mani dei suoi nemici, negando di aver commesso l’omicidio di cui era accusato e affermando che, quand’anche se ne fosse macchiato, avrebbe agito per una giustissima ragione, chiedendo infine la dilazione del processo fino alla partenza dall’Italia di Edoardo d’Inghilterra che in più occasioni aveva minacciato di ucciderlo. Gregorio X non si lasciò convincere: il 1° aprile 1273 scomunicò Montfort, condannandolo come autore notorio dell’omicidio di Enrico di Cornovaglia alla pena dell’infamia, alla confisca dei beni e alla perdita di tutti i diritti; la scomunica fu estesa automaticamente a quanti avessero prestato aiuto e consiglio al condannato, mentre l’interdetto ecclesiastico avrebbe colpito quei luoghi che lo avessero accolto senza provvedere alla sua cattura.

Nel frattempo, però, Montfort stava recuperando il favore del re di Sicilia che, il 14 luglio 1273, intervenne presso il comune di Volterra affinché fosse restituito a Margherita Aldobrandeschi il castello di Montegemoli in Val di Cecina. Due giorni dopo, in veste da penitente, scalzo e con una corda al collo, Montfort si presentò a papa Gregorio nei pressi del castello di Santa Croce del Mugello, lungo la via che portava da Firenze a Bologna: insieme con alcuni compagni, prostrato fino alla polvere, implorò nuovamente quella pietà che gli era stata negata quando l’aveva fatta chiedere a Firenze da alcuni intermediari e dalla moglie Margherita, dichiarandosi pronto ad accettare qualsiasi pena fosse stata disposta dal pontefice. Il papa, pur senza rivolgersi mai direttamente a Montfort, rispose che avrebbe incaricato due cardinali di farlo rinchiudere in un carcere sotto la custodia di Carlo I d’Angiò.

Il 9 agosto successivo, sperando evidentemente in una più mite condanna, Montfort si recò a Bologna per incontrare alcuni esponenti della Curia, ma fu costretto ad allontanarsi dalla città che, ospitandolo, sarebbe incorsa nell’interdetto e in gravi pene pecuniarie.

Affidato in un primo momento alla custodia, non certo severa, di Carlo d’Angiò, che lo relegò nei pressi di Siena, nel 1274 fu trasferito in un carcere sul lago di Como, a Lecco, dove fu assolto dalle censure ecclesiastiche.

Per i successivi quattro anni non si hanno notizie di Montfort (con ogni probabilità rinchiuso ancora nella prigione di Lecco); tuttavia era certamente tornato in libertà nella tarda primavera del 1278 quando, verisimilmente con l’assenso del re di Sicilia, stava per ottenere un incarico presso il capitano di Bologna, Giovanni di Montfort, al quale dovette rinunciare per la netta contrarietà di papa Niccolò III che minacciò di colpire la città con l’interdetto.

Con la speranza forse di ricostruirsi una posizione riparò in Norvegia dove, tradito dall’abate di Lysa – che tentò di consegnarlo agli emissari del re d’Inghilterra in cambio di una ricompensa –, nel febbraio del 1280 riuscì a stento a sfuggire alla cattura. Solo nel settembre successivo, grazie alla mediazione di Carlo di Salerno, che sin dall’anno precedente in più occasioni aveva sollecitato il perdono del monarca inglese, Edoardo si disse disposto a concedere il perdono all’assassino del cugino a condizione che Montfort si recasse in Terrasanta, oppure che tornasse in Italia ma senza più rientrare in territorio francese, se non previa autorizzazione del re inglese.

Fatto ritorno in Italia, Montfort cercò di recuperare un ruolo di primo piano in Toscana: il 22 marzo 1281, il giorno prima della consacrazione papale di Martino IV, in nome del re di Sicilia accolse a Orvieto Clemenza d’Asburgo, che si recava a Napoli per sposare il principe angioino Carlo Martello.

Due anni dopo, l’11 maggio 1283, fu nominato da Martino IV capitano generale delle milizie della Chiesa impegnate in Romagna; in tale veste attaccò Urbino, dove si erano rifugiati i ghibellini forlivesi e devastò i territori di Guido da Montefeltro, suscitando, peraltro, le rimostranze del rettore della Marca Anconitana, Goffredo di Anagni, senza il cui consenso si erano svolte le operazioni militari nel territorio urbinate.

Dopo la morte del suocero Ildebrandino il Rosso, avvenuta il 18 marzo 1284, con il consenso del papa lasciò la Romagna, si portò in tutta fretta in Toscana per difendere l’eredità della moglie minacciata dal conte di Santa Fiora e dal conte Pandolfo dell’Anguillara e, dopo un lungo conflitto, nel corso del quale fu gravemente ferito al collo, nel giugno dell’anno successivo rinnovò gli accordi con il comune di Orvieto. Respinte con le armi le pretese dei suoi nemici, tra l’ottobre del 1285 e i primi di aprile dell’anno successivo, al comando dei cavalieri assoldati dai guelfi toscani partecipò all’assedio di Poggio Santa Cecilia, castello posto in posizione strategica tra Siena e Arezzo, da poco occupato dai ghibellini aretini.

Nel 1287 fu incaricato da Roberto d’Artois, vicario generale del Regno, di raccogliere navi a Venezia e in Toscana per la formazione di una flotta destinata a una grande offensiva navale contro la Sicilia. Il 23 giugno dello stesso anno, la flotta angioina, mentre si apprestava a prendere il largo per soccorrere un contingente francese che si era impadronito del castello di Augusta, fu pesantemente sconfitta nel golfo di Napoli dalla flotta siculo-aragonese guidata da Ruggero di Lauria: 44 galee, 5000 uomini e molti personaggi di rilievo caddero nelle mani degli avversari; fra essi Montfort, per il quale fu chiesto un riscatto esorbitante: ottomila once d’oro, pari a una somma di 40.000 fiorini d’oro che, nel corso delle trattative, lievitò fino a diecimila once. Diversi tentativi di raccogliere una somma così elevata si rivelarono vani: inutilmente amici e parenti – tra i quali il fratello Amaury, Giovanni di Montfort camerario del Regno di Sicilia e Raoul de Clermont connestabile del Regno di Francia – si rivolsero al re di Francia; gli stessi guelfi toscani, che in più occasioni si erano avvalsi della perizia militare di Montfort, si dissero disposti a versare somme del tutto insufficienti: mille fiorini d’oro furono offerti dai fiorentini, duemila dai senesi, tremila dagli orvietani. Un estremo tentativo di raccogliere denari in Toscana per la sua liberazione, esortando in tal senso anche la moglie Margherita, fu affidato nel maggio del 1290 a Corrado di Licinardo.

Il 10 luglio 1291 Niccolò IV, considerato che a causa della prigionia Montfort non poteva occuparsi del governo del comitato di Sovana, feudo della Chiesa, affidò l’amministrazione di quel comitato e la tutela di Margherita Aldobrandeschi al cardinale Benedetto Caetani.

Ormai abbandonato a se stesso, Montfort morì sul finire del 1291, dopo quattro anni di dura detenzione in un carcere siciliano: probabilmente malato, secondo quanto riferito da un cronista locale, pose fine volontariamente ai suoi giorni (Nicolai Specialis Historia Sicula, p. 341).

Dalla moglie aveva avuto due figlie: Tommasa, nata intorno al 1280, e Anastasia, nata pochi anni dopo. La primogenita nel 1290 fu promessa in moglie dalla madre a Pietro di Vico, all’insaputa di Montfort e contro la sua volontà. Il matrimonio, già consumato nel 1295, non aveva ottenuto l’assenso del re di Sicilia: per questo motivo, probabilmente, Tommasa fu esclusa dalla successione dei beni feudali posti nel Regno.

Margherita, subito dopo la morte del marito, si risposò con Orsello Orsini, fratello del cardinale Napoleone.

L’amministrazione dei beni spettanti alla figlia minorenne Anastasia – inizialmente affidata alla tutela dello zio Amaury di Montfort, da poco portatosi nel Regno, poi alla custodia della contessa di Chieti, Matilde di Fiandra, infine, dall’ottobre 1292, alle cure della principessa Clemenza d’Asburgo – fu demandata dapprima al salernitano Nicola Capograssi, fino al maggio 1293, quindi al magister Guglielmo de Sectays. Il 28 ottobre successivo, dopo il matrimonio con Romanello Orsini, pronipote del cardinale Matteo Rosso Orsini, Carlo II concesse ad Anastasia i beni che erano stati sequestrati a suo padre dopo il misfatto di Viterbo (Nola, Cicala e il casale di Baiano in Terra di Lavoro; Monteforte, Atripalda e Forino in Principato Ultra); tuttavia, non avendo l’Orsini prestato il giuramento di ligio omaggio, non ottenne l’investitura feudale di quei beni e ne conservò solo il possesso per mezzo di un procuratore (Guglielmo de Sectays). Finalmente, il 27 maggio 1294 a Romanello Orsini, stabilitosi nel Regno, furono concessi definitivamente i beni appartenuti al padre di Margherita, alla quale furono restituiti anche altri beni in Palma, Ottaiano e Avella.

La gravità del delitto di Viterbo, che ebbe immediatamente un’eco internazionale, arricchendosi di particolari atti a ingigantire la drammaticità dell’evento (come la circostanza, riportata in alcuni racconti cronachistici e in diversi commentatori danteschi, dell’omicidio che si sarebbe consumato nel momento più sacro della celebrazione: l’elevazione del corpo di Cristo), ha assicurato la triste fama di Montfort attraverso i secoli. Dante – senza farne il nome, poiché la notorietà del delitto commesso era sufficiente a identificarne l’autore – lo colloca nel settimo cerchio dell’Inferno, fra gli assassini, immerso fino alla gola nelle acque ribollenti del bulicame, isolato persino rispetto agli altri dannati, «un’ombra da l’un canto sola», per l’enormità del crimine commesso «in grembo a Dio», ovvero in un luogo consacrato e durante la celebrazione della messa (cfr. Inferno, XII, vv. 118-120). Nel corso del Trecento, se in alcune fonti letterarie è ricordato in maniera apparentemente neutra, come avviene nel Dittamondo di Fazio degli Uberti («Un poco prima, dove più si stava sicuro Arrigo, il conte di Monforte l’alma del cuor con un coltel li cava»), in altre viene ricordato positivamente: Boccaccio in una novella del Decameron testimonia la fama di ascoltato e virtuoso consigliere di Carlo I d’Angiò che accompagnava Montfort negli ambienti guelfi e filoangioini.

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