DEL PALAGIO, Guido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 38 (1990)

DEL PALAGIO, Guido

Franca Allegrezza

Unico figlio di Tommaso di Neri di Lippo e di Isabella Rinucci, nacque probabilmente a Firenze intorno al 1335. La prima data certa della sua vita è comunque il 1363, anno in cui sposò Niccolosa di Bartolomeo Albizzi. La scelta matrimoniale, compiuta all'interno del quartiere e dell'arte di appartenenza - i Del Palagio e gli Albizzi abitavano entrambi in San Giovanni ed entrambi si occupavano del commercio della lana - ed indirizzata verso una potente ed antica famiglia, non rimase una scelta isolata: in quegli stessi anni, infatti, anche una cugina del D., figlia di Piero di Neri, sposava un Albizzi, a riprova sia della volontà dei due gruppi di stringere saldi legami di parentela, sia della fioridezza economica e dei prestigio goduti alla metà del sec. XIV dai Del Palagio.

La famiglia, stabilita a Firenze già dalla metà del sec. XIII, nella via dei Servi, e proveniente, forse, dal contado di Fiesole - luoghi entrambi dove ancora un secolo dopo possedeva case e terreni - aveva fatto il suo ingresso nella vita politica cittadina nel 1332, con la nomina di Neri di Lippo, nonno del D., a priore. Da quella data l'ufficio di priore venne più volte tenuto sia da Neri, sia dai suoi tre figli. Tra questi si distinse, per la partecipazione all'attività politica, Tommaso, padre del D., eletto nel 1363 gonfaloniere di Giustizia e chiamato, nel gennaio del 1382, a partecipare alla Balia creata dal ripristinato regime delle arti maggiori, dopo la parentesi del governo dei Ciompi e delle arti minori durata dal 1378 al 1382, per la riforma degli ordinamenti politici. Tommaso morì, probabilmente di peste, il 7 giugno del 1383. La fama di uomo giusto, che gli era valsa nel luglio del 1378 la nomina a cavaliere da parte del governo dei ciompi, fu testimoniata pienamente dalle solenni esequie tributategli. L'importanza politica da lui raggiunta negli ultimi anni di vita ebbe indubbiamente un peso notevole nella carriera politica di suo figlio.

Il D., immatricolato come i suoi avi nell'arte della lana, aveva fatto la sua comparsa sulla scena politica cittadina alcuni anni prima della morte del padre, quando, nel 1380, era stato inviato dalla Signoria ambasciatore presso Carlo di Durazzo, sceso in Italia per rivendicare i suoi diritti sul trono di Napoli. Da quella data iniziò per il D. un'attività pubblica sempre più intensa che lo portò numerose volte a ricoprire incarichi esterni per il governo. Nell'aprile del 1382 egli fu inviato ad accogliere, insieme con Guccio Gucci, gli ambasciatori di re Carlo III, giunti a Firenze per discutere con i rappresentanti della Signoria dell'evacuazione di Arezzo, che era stata assalita e messa al sacco dalle truppe del conte Alberigo da Barbiano e di Villanuccio da Brunforte, "i quali combattevano sotto il segno di re Carlo" (Frescobaldi, p. 5)L'accordo per l'evacuazione fu stipulato a maggio, ma appena ne fu spirato il termine, nel 1384, le compagnie di ventura rioccuparono la città e il D. venne nuovamente inviato a trattare con il luogotenente di Carlo, questa volta ad Arezzo, ed insieme con Leonardo Frescobaldi.

In questa occasione i due uomini decisero di recarsi in pio pellegrinaggio al S. Sepolcro e a visitare la Terrasanta; ma al viaggio, che fu intrapreso poi dal Frescobaldi in compagnia di Giorgio Gucci e di Andrea Rinuccini nell'agosto del 1384, il D. non poté partecipare, trattenuto in città dagli affari - che la recente morte del padre gli rendeva più gravosi - e dagli impegni politici.

Nell'agosto del 1385 egli ricevette in consegna da Marco Tarlati, come inviato di Firenze, quel territori del castello di Pietramala che costituivano l'ultimo diaframma per l'acquisizione da parte fiorentina del completo dominio sul contado di Arezzo. Quest'ultima era stata venduta l'anno precedente a Firenze per 47.000 fiorini da Enguerrand de Coucy, il condottiero che l'aveva conquistata in nome del duca d'Angiò. Il mese successivo, con Giovanni de' Ricci e Francesco Ardinghelli, il D. venne inviato ambasciatore a Napoli, presso Carlo III, ormai rafforzatosi sul trono, per invitarlo a ritirare il provvedimento di confisca dei beni dei mercanti fiorentini nel territorio del Regno da lui preso all'inizio di settembre. I tre furono di nuovo scelti per recare le congratulazioni della Signoria a Carlo III quando questi, nel dicembre del 1385, aggiunse alla corona di Napoli quella di Ungheria. Ancora, nel giugno del 1387, il D. si recò in ambasceria, insieme con Stoldo Altoviti, Ludovico di Arezzo e Niccolò di Raffaello, a Lucca, presso il papa Urbano VI, che si era rifugiato nella città toscana dal dicembre dell'anno precedente, dopo aver abbandonato precipitosamente Genova, dove aveva subito un attentato. Solo nel 1388 il D. ricoprì per la prima volta un ufficio nel governo della Repubblica, sedendo tra i Dieci di balia.

Fu quello, per lui, un anno molto doloroso: in agosto, infatti, perdette l'unico figlio maschio, Andrea, che lasciava vedova la giovanissima moglie, Niccolosa di Guido della Foresta, incinta.

L'influenza politica dei D. era andata, tra il 1380 e il 1388, crescendo: la stima che lo circondava è testimoniata soprattutto dalle ambascerie, anche minori, che fu chiamato ad amministrare. Fu tuttavia solo nel decennio successivo, quando per Firenze iniziò la lunga lotta con Milano, che egli acquistò definitivamente un ruolo di spicco nella vita della Repubblica; fu allora, infatti, che la sua personalità di mediatore ebbe modo di esprimersi pienamente nelle trattative a più riprese condotte tra la Signoria e Gian Galeazzo Visconti.

L'inimicizia tra Firenze e Milano ebbe una recrudescenza pochi anni dopo l'insediamento di Gian Galeazzo al posto dello zio Bernabò (6 maggio 1385); per qualche tempo le due città si combatterono sfruttando i mezzi offerti dalla diplomazia ed i contrasti fra le potenze italiane. Poiché le compagnie di ventura - legate o no da contratti di condotta ai diversi contendenti - approfittavano delle lotte locali per saccheggiare e taglieggiare anche territori estranei alla contesa, nel giugno del 1389 Piero Gambacorta, signore di Pisa, valendosi della sua antica amicizia con Firenze, si fece promotore di una tregua tra quest'ultima e Milano. Dopo essersi incontrato a Pavia con Gian Galeazzo, il Gambacorta si recò a Firenze dove venne accolto dal D., da Stoldo Altoviti, da Filippo Corsini e da Marco Ricoveri, i quattro cittadini - uno per quartiere - scelti dai Priori come "auditori" delle sue proposte. Indubbiamente, anche per il prestigio goduto dal D., che si dichiarò. nelle Consulte della Signoria favorevole alle trattative con Gian Galeazzo, il governo fiorentino accettò di avviare incontri direttamente con gli ambasciatori di quest'ultimo. Creato commissario del governo, il D. fu dunque inviato, insieme con il Corsini, con l'Altoviti e con il Ricoveri, nel luglio successivo a Pisa, ove s'incontrò con gli emissari viscontei e con quelli delle altre potenze.

L'accordo fra le parti fu raggiunto il 3 ottobre: una lega di Comuni e di Signorie dell'alta e media Italia, con lo scopo di combattere le compagnie di ventura e di difendere la penisola contro "i barbari", alla quale aderirono, tra gli altri, Milano, Firenze, Siena, Bologna, Mantova, Perugia, Lucca, e i Maiatesta, gli Ordelaffi, i Manfredi, i da Varano, gli Orsini.

Nonostante i solenni impegni presi, la lega, che doveva durare tre anni, si dissolse di fatto di lì a pochi mesi sopratutto a causa degli interessi antitetici, che erano alla base della linea politica dei due maggiori contendenti, Milano e Firenze. Queste ultime si cercarono dentro e fuori d'Italia alleati e sostenitori, e li riunirono ciascuna attorno a sé: la tensione andò progressivamente aumentando, finché non sfociò in guerra aperta nella primavera del 1390, quando furono coinvolte nella lotta anche la Repubblica di S. Marco ed il Regno di Francia. Dopo alcuni successi iniziali, la lega antiviscontea promossa da Firenze subì tutta una serie di sconfitte, conclusasi con quella clamorosa presso Alessandria. Fu grazie all'opera del doge di Genova Antoniotto Adorno ed alla autorevole mediazione del papa Bonifacio IX, che le potenze in conflitto si acconciarono alla fine a trattare; ma solo dopo molte esitazioni, perché temeva la parzialità dell'Adorno, Firenze accettò la proposta di inviare suoi delegati a Genova, dove si sarebbero dovuti discutere i termini della pace. E appunto a Genova, sotto la presidenza del legato pontificio Riccardo Caracciolo, gran maestro dei cavalieri di Rodi, la lega antiviscontea, Gian Galeazzo e gli aderenti di quest'ultimo si accordarono infine sullo status quo ante.

Il D., che fu - insieme con Filippo Adimari e con Ludovico Albergotti di Arezzo - scelto dal governo fiorentino a rappresentare il suo Comune alla conferenza di Genova, raggiunse la città ligure nel gennaio del 1392. Sebbene l'Adorno e la stessa Curia romana premessero. perché si giungesse rapidamente ad un accordo che potesse essere accettato da tutte le parti in causa, per il D. e per i suoi colleghi si dimostrò subito difficile portare a termine, in breve tempo, l'incarico loro affidato dal Comune. Ad una convenzione di compromesso, che sanciva una tregua provvisoria traGian Galeazzo ed i suoi aderenti da un lato, e Firenze, Bologna, Venezia ed i loro alleati dall'altro, si arrivò soltanto alla fine di gennaio. Nel mese di febbraio il D. ed i suoi colleghi furono richiamati in patria dal loro governo, contrario ad una ulteriore prosecuzione dei negoziati.

Per i Fiorentini l'accordo di Genova significò la liberazione dalla grave pressione fiscale cui erano stati sottoposti per ragioni di guerra - le operazioni militari erano costate sin'allora più di un milione di fiorini. Per il D. rappresentò il culmine della carriera politica. Fautore - probabilmente convinto - del mantenimento della tregua con il conte di Virtù, la cui stima si era del resto conquistata a Genova, il D. si incontrò nuovamente con Gian Galeazzo a Pavia nel 1393, nel corso di un'ambasceria inviata al signore di Milano per rassicurarlo circa le finalità dell'alleanza allora conclusa tra Firenze e Maritova. L'anno dopo il D. fu eletto gonfaloniere di Giustizia con una maggioranza quasi plebiscitaria: tale nomina coronava i successi da lui ottenuti in politica estera quale ambasciatore di Firenze.

Accanto a questi incarichi, il D. fu ancora scelto ad amministrare ambascerie forse di minore rilievo, ma certamente prestigiose. Nell'ottobre del 1392 venne inviato a Lucca, dove, profittando dei disordini scoppiati per l'uccisione di Piero Gambacorta in Pisa, i fondaci dei mercanti fiorentini erano stati messi a sacco. Nell'aprile dell'anno seguente fu inviato a Perugia, insieme con Andrea Minerbetti, per rappacificare, su richiesta degli stessi Perugini e del papa Bonifacio IX, la città divisa da lotte interne, "il che seguì con gran lode di detti ambasciatori" (Naddo da Montecatini, p. 135). Nel maggio del 1395 partì di nuovo alla volta di Pavia, insieme con Donato Acciaiuoli e con Giovanni de' Ricci, ambasciatore presso Gian Galeazzo "per sapere se dovevano avere con lui pace o guerra" (Anonimo fiorentino, pp. 194 s.). Il conte, pur facendo gran festa e onore al D., preferì non sbilanciarsi: l'unico risultato raggiunto dai legati fiorentini fu quello di far trasferire la sede delle trattative da Pavia a Firenze, dove, tra lungaggini e sottili discussioni, il 16 maggio del 1396, venne firmata una nuova lega tra le potenze italiane contro le compagnie di ventura.

Tale lega, come le precedenti, rimase lettera morta, giacché le tensioni tra Milano e Firenze continuarono e l'anno dopo, in novembre, il D., con Filippo Magalotti e Ludovico Albergotti, venne inviato a Venezia per concludere l'ennesima pace col Visconti. Questa fu, probabilmente, l'ultima carica esterna ricoperta dal D., che, eletto di nuova gonfaloniere di Giustizia nel 1397 ed entrato gonfaloniere di compagnia nel settembre del 1398, morì, dopo aver dettato il proprio testamento al notaio ser Iapo Mazzei, il 25 agosto 1399, a Firenze.

Personalità ricca e varia, accanto all'attività mercantile ed a quella politica, vissuta innanzi tutto come impegno civile dettato da un'etica intransigente, il D. coltivò anche interessi filosofici e letterari. Fu infatti assiduo frequentatore, insieme con Coluccio Salutati e con Giovanni Gherardi da Prato, delle conversazioni su argomenti filosofici, teologici e letterari tenute nel convento di S. Spirito da fra' Luigi Marsili. Probabilmente sulla scia di tali incontri, scrisse una canzone politica dedicata a Firenze (edita in Rime di Cino da Pistoia e d'altri del secolo XIV, ordinate da G. Carducci, Firenze 1928, pp. 605-608), l'unica a noi pervenuta di una produzione forse più cospicua. Al Marsili lo legava un'amicizia che precedeva gli incontri fiorentini: i due uomini erano in rapporti epistolari già dal 1373, periodo in cui il frate agostiniano seguiva, a Padova prima, a Parigi poi, gli studi che lo avrebbero portato a conseguire il grado di maestro di teologia. Il D. fu in corrispondenza anche con un altro religioso, Giovanni dalle Celle, monaco eremita di Vallombrosa, legato da comuni discepoli alla scuola mistica di Caterina Benincasa. A parte i risvolti più puramente intellettuali, il D. ebbe una visione concreta dell'impegno religioso: testando nell'agosto del 1399, egli lasciava l'usufrutto di due suoi poderi, posti nei pressi di Prato, al convento di S. Maria del Fiore sul colle di Fiesole, perché l'opera di ricostruzione di quel complesso architettonico, intrapresa grazie al suo intervento pochi mesi prima, non venisse ad interrompersi con la sua morte.

Intimo amico di ser Lapo Mazzei, fu tramite questo che, nell'ultimo periodo della sua vita, il D. conobbe e frequentò Francesco Datini. Francesco gli era stato raccomandato nel 1394da ser Lapo perché il D., allora gonfaloniere di Giustizia, gli ottenesse una riduzione dell'esosa prestanza imposta al pratese dal governo fiorentino. In seguito furono probabilmente i ripetuti consigli di ser Lapo e del D. che convinsero il Datini a donare i propri beni, non alle compagnie ecclesiastiche, come aveva in un primo tempo stabilito, ma direttamente, tramite l'istituzione del Ceppo, ai poveri di Prato. Del resto l'influenza raggiunta dal D. tra i suoi amici, come tra i suoi concittadini, era tale che nel gennaio del 1396, durante il suo soggiorno a Pavia come ambasciatore presso il Visconti, se ne attese di giorno in giorno il ritorno in patria perché riportasse la concordia tra i Fiorentini turbati e divisi. Bonaccorso Pitti, d'altro canto, ci narra come, avendo deciso nel 1390di prendere moglie, egli avesse deliberato di "torla per le sue mani e qualunque a lui piacesse, pure ch'ella fosse sua parente", onde acquistare l'appoggio e la parentela del "maggiore e piú creduto" uomo di Firenze (Pitti, p. 74).

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, s. I, filza 137, c. 20;Naddo di Nepo da Montecatini, Croniche fiorentine, in Delizie degli eruditi toscani, XVIII (1784), pp. 12, 57 s., 65, 79 s., 96, 104, 110 ss., 128, 132-135, 146 s., 151s.; G. Cambi, Istorie, ibid., XX (1785), pp. 23, 54, 62 s.; G. Cavalcanti, Istorie fiorentine, a cura di F. Polidori, II, Firenze 1839, pp. 478, 561 s.; Lettere del beato Giovanni dalle Celle monaco vallombrosiano e d'altri, a cura di B. Sorio, Roma 1845, pp.11-27; B. Pitti, Cronica, a cura di A. Bacchi della Lega, Bologna 1905, p. 74; Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, in Rer. Italic. Scriptores, 2 ed., a cura di N. Rodolico, XXX, 1, pp. 169, 183, 188, 190, 211, 219, 252, 262, 266, 276, 324, 410; Cronica volgare di Anonimo fiorentino..., ibid., XXVII, 2, a cura di E. Bellondi, pp. 164-167, 170 s., 194 s.; Il tumulto dei Ciompi, ibid., XVIII, 3, a cura di G. Scaramella, pp. 74, 86, 110, 145, 148; L. Frescobaldi, Viaggio in Terrasanta, Novara 1961, pp. 5 s.; G. M. Mecatti, Storia cronol. della città di Firenze, I, Napoli 1755, pp. 301, 304, 327; A. Wesselofsky, Introduzione a Giovanni da Prato, Il Paradiso degli Alberti, I, Bologna 1867, pp. 93-96; C. Guasti, Introduzione a Lapo Mazzei, Lettere di un notaro ad un mercante del secolo XIV, I, Firenze 1880, pp. LVIII-LXVI; A. Della Torre, Storia dell'Accad. Platonica di Firenze, Firenze 1902, pp. 172 s., 179, 181; P. Cividali, Ilbeato Giovanni dalle Celle, Roma 1907, pp. 17, 24, 32-39; B. Dei, S. Maria del Fiore sui colli di Fiesole, Firenze 1907, pp. 20 s.; L. Calvelli, Un fiorentino del Trecento: G. D., Firenze 1913; A. Lanza, Introduzione a G. Gherardi da Prato, IlParadiso degli Alberti, Roma 1975, pp.73 s., 220; G.A. Brucker, The civic world of early Renaissance Florence, Princeton 1977, pp. 38, 62, 96, 103, 131, 133, 155, 158 s., 168; F. G. W. Kent, Household and lineage in Renaissance Florence, Princeton 1977, pp.56, 62; D. Kent. The rise of the Medici. Faction in Florence, 1426-1434, Oxford 1978, p. 2 12;.G. A. Brucker, Firenze nel Rinascimento, Firenze 1980, pp. 64, 93 s.; I. Origo, Ilmercante di Prato, Milano 1980, pp. 109 s., 112, 140, 153, 175, 184, 237, 248, 261, 294; G. Mazzatinti, Inventario dei manoscritti delle Biblioteche d'Italia, IX, p. 13.

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