Cavalcanti, Guido

Enciclopedia Dantesca (1970)

Cavalcanti, Guido

Mario Marti

L'amicizia fra D. e il C. (Firenze 1255 circa - 1300) risale all'epoca in cui D. compose e inviò ai più famosi trovatori del tempo il sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, stando almeno a quanto egli stesso narra in Vn III 14-15. A quel sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie, fra i quali il poeta ricorda esplicitamente colui (e citiamo le sue parole) cui io chiamo primo de li miei amici, cioè appunto il C., che nell'occasione compose il sonetto responsorio Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo, aggiunge D., fue quasi lo principio de l'amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. L'amicizia nacque dunque da un incontro letterario avvenuto intorno al 1283, presumibile data di composizione del sonetto dantesco; e all'epoca della Vita Nuova, circa dieci anni dopo, si era così rinsaldata, che il più giovane poeta la poneva senz'altro al vertice delle proprie relazioni umane (primo de li miei amici). La risposta del C. presenta motivi d'interesse non tanto nelle terzine, ove si propone una blanda e rapida spiegazione della ‛ visione ' dantesca (Amore avrebbe nutrito col cuore del poeta la donna perché questa " alla morte cadea "; e s'allontanerebbe piangendo perché la veglia stava per vincerla sul sonno), quanto nelle quartine, nelle quali è data in sintesi una concezione d'amore beatifico e nobilitante (" Vedeste... onne valore / e tutto gioco e quanto bene om sente "), supremo valore etico-cortese (" che segnoreggia il mondo de l'onore "), e ideale misura insomma di ogni ‛ conoscenza ' (" e tien ragion nel cassar de la mente "). Con la sua ‛ visione ' D. era entrato, secondo il C., " in prova del segnor valente " e si rivelava suo degno fedele. Ce n'era più che a sufficienza perché il giovane rimatore si sentisse estremamente lusingato da una voce già tanto autorevole, specialmente poi se avesse messo a confronto, com'era naturale, la densa e pensosa risposta del C. con quella di Dante da Maiano (v.), volgarmente scherzosa, o con l'altra da attribuirsi probabilmente a Terino da Castelfiorentino (v.), articolata in senso più strettamente tecnico, le sole che ci son pervenute, con la risposta del C., delle molte ricordate da Dante. L'adesione del giovane Alighieri alla poetica stilnovistica significa, dunque, anche omaggio, simpatia e gratitudine al poeta di Donna me prega, il quale andava assumendo la figura di maestro nell'aristocratico cenacolo dei poeti nuovi fiorentini.

Quell'omaggio e quella grata simpatia si tradussero fatalmente in consonanza di scelte spirituali e di tecnica espressiva; ed è infatti fuor di dubbio che nella formazione letteraria di D. abbia avuto assai notevole importanza l'influsso del primo dei suoi amici, almeno fino al momento in cui D. trasse le sue ‛ nuove rime ' cominciando Donne, ch'avete intelletto d'amore, come si arguisce per altro dall'esame psicologico-stilistico delle rime della giovinezza e di parte della Vita Nuova, che a lui è dedicata (XXX 3). D. fa propria la concezione cavalcantiana di amore che viene originato da una torbida condizione proveniente dal maligno influsso di Marte, e che prende suo stato dove sta memoria (cioè nell'anima sensitiva). Anche per lui, in un certo ‛ momento ' giovanile, amore è tramenio dei sensi, ottenebrazione della ragione, stimolo alla virtù irascibile, com'è in tante rime dell'amico Guido. D. però non teorizza; il suo cavalcantismo giovanile è solo una nota, anche se timbricamente ben caratterizzata in una densa sonorità, della sua tastiera sperimentale. Stilnovisticamente egli aderisce a una sodalitas letteraria e alla comune poetica del ‛ correlativo oggettivo ' mediante il C., dal quale mutua non tanto la tradizionale tecnica della ‛ visione ', che pure in Guido è prediletto e preponderante elemento, quanto i modi di essa, le figurazioni drammatiche degli ‛ spiriti ' e ‛ spiritelli ', l'angosciosa solitudine psicologica nel sentimento d'amore, i ‛ tremiti ' metafisici (sulla linea per altro di credenze scientifico-naturalistiche), le ‛ paure ', il ‛ disdegno ' della donna, l'uso di termini insaporiti d'allusività filosofica (‛ mente ', ‛ anima ', ‛ intelletto ', perfino ‛ cuore '). Tutto ciò è particolarmente visibile in taluni componimenti rimasti fuori della Vita Nuova; nel sonetto De gli occhi de la mia donna si move (Rime LXV), per esempio, e nelle canzoni E' m'incresce di me sì duramente (Rime LXVII) e Lo doloroso amor che mi conduce (Rime LXVIII). Ma si può bene anche cogliere generalmente in quella parte della Vita Nuova che precede Donne, ch'avete intelletto d'amore; per esempio, nella prosa dei capitoli III e V, nei sonetti del ‛ gabbo ', Con l'altre donne mia vista gabbate, e Ciò che m'incontra, ne la mente more (Vn XIV 11-12, XV 4-6), e nelle relative narrazioni, non per il tema in sé risaputamente tradizionale, ma per la sua rielaborazione psicologico-linguistica; e ancora nel sonetto Spesse fiate vegnonmi a la mente, con la prosa che lo precede (Vn XVI 7-10); ecc. Cavalcantismo indubbio, che tuttavia non scivola mai a documento di soggezione o d'imitazione passiva, ma rivela e conserva un suo dinamismo di rielaborazione e di adeguazione; vitale nutrimento che darà i suoi frutti in talune poesie, nelle quali difficilmente si penserebbe all'influsso di Guido, per altro altrettanto difficilmente negabile, nella direzione di un'angoscia psicologica espressionisticamente scarnita ed essenzializzata (Donna pietosa e di novella etate, Vn XXIII 17-28), o inattesamente nell'altra direzione che s'inclinerà sul piano dell'allegoria (Voi che savete ragionar d'Amore, Rime LXXX) nel miraggio di una nuova speranza (vv. 25-28). Donna pietosa e Voi che savete son due componimenti del miglior D. lirico, tali da caratterizzarne taluni aspetti; e tuttavia in quella voce... si dolorosa / e rotta sì da l'angoscia del pianto; dietro quegli spirti sì smagati / ... che ciascun giva errando; in quell'immaginare di caunoscenza e di verità fora; nei visi crucciati che ripetono Morra'ti, morra'ti, ecc., della canzone Donna pietosa;

e di là da quella donna disdegnosa, la quale Tanto disdegna qualunque la mira, / che fa chinare gli occhi di paura, ecc., della ballata Voi che savete; si delinea ben chiara, pur se vaga e sfumata, la fisionomia dell'amico Guido.

Del resto, uno dei documenti diretti e più significativi di questo avventuroso sodalizio è costituito dal sonetto Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (Rime LII). È vero che in questo caso il nome di Guido è affiancato a quello di Lapo Gianni; ma proprio questo fatto è indicativo della natura del legame dantesco, che è squisitamente letteraria nel segno di un' elezione decisamente aristocratica. Il breve componimento è scritto nel tradizionale genere del plazer; ma, come in altre occasioni, anche in questa D., nella propria e individuale rielaborazione del genere, ha nell'anima (o nell'orecchio?) talune note cavalcantiane che risuonano nel sonetto Biltà di donna e di saccente core, per quanto questo non sia composto nella tecnica del plazer strettamente intesa; per esempio, gli " adorni legni 'n mar forte corenti " del v. 4 (e D,: un vasel ch'ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio, vv. 4-5), o il " ragionar d'amore " del v. 3 (e D.: e quivi ragionar sempre d'amore, v. 12). I versi con i quali Guido rispose a D., S'io fosse quelli che d'amor fu degno, non sembrano essere tra i più felici di lui, e par che impallidiscano, quando siano raffrontati al sonetto dantesco (com'è doveroso in questi casi di corrispondenza poetica), alla sua ampiezza dolcemente musicale e soavemente malinconica, seppur non priva, alla fine, di un ammiccare sorridente di grazia maliziosa (e ciascuna di lor fosse contenta, / sì come i' credo che saremmo noi, vv. 13-14). Al C. assai " piacerla " quel vascello d'amore (" siffatto legno "), se la sua donna " tenesse altra sembianza "; ma egli confessa di non appartenere a quell' " amoroso regno / là onde di merzé nasce speranza " (è il tema dantesco svolto anche nella ballata, poco fa ricordata, Voi che savete ragionar d'amore), ma di essere invece disfatto dagl'irrazionali colpi di Amore, che, togliendogli ogni fiduciosa previsione, tengono immerso il suo spirito in una greve e incontrastabile " pesanza ".

Sostanzialmente, la tenzoncina non travalica i confini di un'amabile casistica amorosa stilnovisticamente discussa; né la travalicano i sonetti Se vedi Amore, assai ti priego, Dante, e Dante, un sospiro messagger del core, in entrambi i quali, al nome dell'amico cui son diretti, seguono argomentazioni e immagini che riguardano Lapo; onde sembra ricomporsi il trittico del plazer dantesco con la rispettiva sostituzione di mittente a destinatario: Guido, Lapo, Dante. È proprio troppo arrischiato pensare che il sonetto Guido, i' vorrei abbia un legame pur occasionale con questi due sonetti che Guido inviava a D. col letterario pretesto di accertarsi se veramente Lapo fosse vinto da Amore (Se vedi Amore, assai ti priego, Dante) o di narrargli di una propria intercessione a favore di lui presso Amore " ch'affilava i dardi "? e che quel sonetto dantesco (scritto prima o dopo, è impossibile precisare) costituisca comunque una felice e fortunata sintesi di questi rapporti e il definitivo insediamento di Lapo nello sparutissimo gruppo degli eletti, autorizzato dall'intercessione cavalcantiana?

Così operava nell'ambito dello Stilnuovo il sentimento della sodalitas, di un'amicizia che era accettazione di una comune poetica, adesione fervente e sincera ai comuni ideali di una letteraria aristocrazia. E nel suo enuclearsi e costituirsi, il gruppo si caratterizzava e differenziava con impegno militante dal guittonianesimo diffuso, e con precisa coscienza scolastica e culturale dalla più e meno recente tradizione. Entro questa cornice vanno disegnati i rapporti fra D. e Guido nell'epoca più felice e fiduciosa; l'epoca cioè che precede l'aperta dichiarazione ben autentica e indiscutibile della Vita Nuova: quelli cui io chiamo primo de li miei amici (III 14), compiaciuta e forse anche un po' orgogliosa indicazione di un vincolo ideale, che troverà spiegazione e conferma sotto il profilo tecnico particolarmente nella conclusione del cap. XXX, là dove pare attribuita proprio al prestigio del C. la volontà di evitare nella Vita Nuova l'uso del latino, o almeno ampie e lunghe citazioni in lingua latina (E simile intenzione so ch'ebbe questo mio primo amico a cui io ciò scrivo, cioè ch'io li scrivessi solamente volgare, XXX 3); e sotto un più ampio profilo ideologico nel cap. XXIV del giovanile libello e nel sonetto Io mi senti' svegliar dentro a lo core §§ 7-9), che ne conclude la narrazione.

È il capitolo dell'apparizione di Amore che viene a preannunziare le figurali immagini di monna Vanna e di monna Bice. Amore si mostra lietissimo al poeta; e subito dietro di lui ecco apparire una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fue già molto donna di questo mio primo amico, Giovanna detta la Primavera. E appresso lei, continua D. a narrare, guardando, vidi venire la mirabile Beatrice (§ 3). È assai noto il retorico gioco etimologico compiuto in questa occasione da D. sull'appellativo di Primavera: come s. Giovanni precedette la verace luce, così la Giovanna cavalcantiana precede Beatrice; ella è denominata Primavera perché ‛ prima verrà ', seguita dalla gentilissima donna di D. alla quale piuttosto competerebbe il nome di Amore: Amor mi disse: Quell'è Primavera, / e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia (XXIV 9 13-14). Giovanna e Beatrice; Primavera e Amore; Guido e D.; due poetiche, due concezioni sembrano qui integrate e fuse, quasi considerate reciprocamente necessarie e complementari, nel tempo stesso in cui si riconfermano con ostentata compiacenza l'esistenza e il valore . dell'amicizia (molto donna di questo mio primo amico, § 3; scrivere per rima a lo mio primo amico, § 6; credendo io che ancor lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile, § 6) già così decisamente sottolineata fin dal citato passo di III 14. Tuttavia a chi ben consideri non potrà sfuggire che Giovanna detta la Primavera, la donna-simbolo della poesia cavalcantiana, è rievocata solo come prefigurazione di Beatrice in questo importante episodio della Vita Nuova, e in qualche modo è posta su un gradino più basso, così come a lei imposto... era nome Primavera, in quanto gentile donna, la quale era di famosa bieltade (XXIV 3), mentre la donna di D. è la mirabile Beatrice (§ 3), della quale Amore così parla: E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore, per molta simiglianza che ha meco (§ 5). Giovanna è la Primavera, ma Beatrice è l'Amore; la prima sta alla seconda come il Battista sta a Cristo; e questo è il preciso rapporto formulato da Dante. Egli dunque, fatalmente, con l'invenzione della mirabile sua donna è portato ad attribuire alla donna altrui un valore diverso e inferiore. Non forse una contrapposizione, ma certo un'integrazione o una gerarchia; lo Stilnovo dell'amico Guido sembra diventare, in sostanza e in definitiva, una prefigurazione di quello dantesco, viene ‛ superato ' da quello delle ‛ nuove rime '; e se non ancora un dissenso, almeno una diversa caratterizzazione, una differenziazione sono da riconoscere alla posizione dantesca.

Un aperto dissidio invece, pur se in modi pensosi e dolenti, i soli permessi dai cronologicamente precedenti (è lecito pensarlo) rapporti di affettuosa amicizia e di comunanza ideologica, è difficile negare che si riveli nel sonetto cavalcantiano l' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte.

È noto che il Barbi interpretò questi versi come una robusta e vigorosa consolatoria dell'amico all'amico profondamente addolorato e abbattuto per la morte di Beatrice, e li avvicinò alla canzone Avegna ched el m'aggia più per tempo che Cino da Pistoia scrisse appunto, ed espressamente, per confortare D. della morte della sua gentilissima. Ora, nel suo sonetto, Guido rimprovera, diciamo pure, a D. di frequentare certa " annoiosa gente ", che non merita il suo interessamento: " Solevanti spiacer persone molte; / tuttor fuggivi l'annoiosa gente... / Or non ardisco, per la vil tua vita ", ecc. (dove il vero significato dell'allitterazione ‛ vile vita ', che formalmente ritorna in Vn XXXV 3, è da ricavarsi appunto da quelle precedenti locuzioni); e questo fatto recide alla base la proposta del Barbi, sia perché su di un piano generalmente psicologico non si vede qual relazione possa esserci tra il dolore per la morte di persona cara (e di D. poi per Beatrice, prescindendo dalla costumanza di osservare il lutto in solitudine) e il sollecitare l'amicizia dei mediocri o considerati tali (" solevanti spiacer "), sia perché della propria desolata solitudine è D. stesso ad assicurarci: Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia tristizia... (Vn XXXI 1); e meglio: e sì fatto divento, / che da le genti vergogna mi parte (§ 14 52-53). Più persuasiva la proposta secondo la quale il rimprovero di Guido si riferirebbe al ‛ traviamento ' di D.; e perciò il sonetto cavalcantiano sarebbe riferibile all'epoca immediatamente successiva alla stesura della Vita Nuova (che fu compiuta, secondo i calcoli più verosimilmente approssimativi, intorno al 1293 e forse nel primo 1294). Che C. esprimesse turbamento per un ‛ traviamento ' retorico-stilistico dell'amico, il quale, gravemente contravvenendo alla poetica stilnovistica, si era messo a tenzonare con Forese Donati nei modi della tradizione comico-giocosa, sembra anche poco credibile (in tal caso il " tu' dir " del v. 10 del sonetto cavalcantiano, " Or non ardisco, per la vil tua vita, / far mostramento che tu' dir mi piaccia ", Si riferirebbe appunto alla tenzone). Non aveva alcuna ragione infatti di atteggiarsi a giudice severo, sotto questo specifico esponente, l'autore di Guata, Manetto, quella scrignutuzza o di Se non ti caggia la tua santalena; il quale scambiava rime scherzose con Guido Orlandi, e, dopo avere scritta la ‛ pasturella ', doveva sentirsi dire da Lapo degli Uberti che per lui sarebbe stato assai più adatto " un bel pastore ". Tale interpretazione retorico-stilistica per altro si inserisce nella più ampia valutazione etica del cosiddetto ‛ traviamento ' dantesco, la quale ispirò al D'Ovidio il singolare titolo del suo importante studio sull'argomento, cioè La rimenata di Guido. Ma il C., ammessa e non concessa la realtà storiografica di un traviamento etico di D., di un suo ‛ incanaglirsi ', non aveva alcuna ragione di commuoversi, perché, tutto considerato, era ben lontano dall'avere le carte in regola per assurgere a immacolato e incorruttibile mentore di D.; egli con le sue Mandette, con le sue forosette, con la sua ‛ pasturella ' quanto agl'interessi letterari, e con la sua faziosità rissosa e con la sua incontrollata violenza spinta fino al limite del. tentato omicidio (Compagni I 20) quanto agl'interessi più propriamente morali. Né per ragioni retorico-stilistiche, né per ragioni più precisamente etiche, dunque, C. si sarebbe dovuto e potuto meravigliare dell'amico, tanto da indirizzargli la famosa ‛ rimenata '. Vero o non vero poi che sia un ‛ traviamento ' dantesco di carattere filosofico o teologico, istituito fondamentalmente come disorientamento dell'intelletto, pare indubbio che nei versi del C. esso non si possa configurare affatto; poiché è incredibile che l'averroista Guido si preoccupasse di ricondurre all'ovile (quale?) lo smarrito D., inducendolo a meditare sulla sua vile vita; a parte l'intoppo di quell'" annoiosa gente ", che difficilmente ci si potrebbe indurre a identificare nelle scuole dei religiosi e nelle disputazioni dei filosofanti, specialmente quando si consideri la necessità che quella locuzione venga intesa come integrante del verso precedente (" solevanti spiacer persone molte "). V'è infine chi pensa che il dissidio fra D. e Guido possa essere intervenuto a proposito dell'invenzione di Beatrice, che D. finiva per considerare insieme donna amorosa e santa e tuttavia donna reale (e certo, come s'è visto, Beatrice rappresenta l'integrazione e il superamento di Giovanna), e ciò è pur possibile; ma il sonetto cavalcantiano non può adombrare neanche una siffatta situazione, poiché neanche dalla parte di Guido l'esperienza cultuale di Beatrice può valere il " pensar troppo vilmente " del v. 2; e d'altronde non si saprebbe come giustificare le parole " di me parlavi sì coralemente ". Nella Vita Nuova e nelle Rime non v'è traccia di uno scadimento della stima e dell'affetto amichevole di D. per Guido, né prima né dopo l'indiamento di Beatrice creatura terrena; anzi, tenuto conto che ‛ molto coralemente ' si parla di lui nella Vita Nuova (abbiamo citato III 14, XXIV 3 e 6, XXX 3, e ora aggiungiamo anche XXV 10), ne consegue la conferma che il sonetto debba essere stato composto dopo la stesura del giovanile libello. Né è pensabile che con l'esperienza cultuale di Beatrice da parte di D. abbiano che vedere, ancora una volta, le " persone molte " e l'" annoiosa gente ".

Esaminate, dunque, tutte le ragioni finora proposte per spiegare il dissidio sorto fra D. e Guido e il rimprovero di costui, non v'è alcuna di esse che illumini adeguatamente tutte le parti del sonetto l' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte. Il quale si regge insomma su due fondamentali accuse: l'una chiaramente di carattere etico-sociale (u Solevanti spiacer persone molte; tuttor / fuggivi l'annoiosa gente "); l'altra di carattere assai presumibilmente letterario (" di me parlavi sì coralemente, / che tutte le tue rime avie ricolte. / Or non ardisco per la vil tua vita, / far mostramento che tu' dir mi piaccia "). Ora, proprio fra il 1293 e il 1295-96, cioè subito dopo la stesura della Vita Nuova, il C. aveva ben ragione di rampognare l'amico, quando si considerino gli avvenimenti fiorentini di quel tempo.

Con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella (1293) e successivi ‛ rafforzamenti ' veniva interdetta ai nobili, ai magnati e ai cavalieri fiorentini ogni partecipazione legittimamente giuridica al governo della cosa pubblica, cui poteva accedere solo chi fosse iscritto a una delle Arti e la esercitasse; onde il potere era venuto saldamente nelle mani del popolo. Con i secondi Ordinamenti (6 luglio 1295), che miravano a correggere i primi sotto la pressione politica e militare dei Grandi, fu deciso che potessero iscriversi alle Arti, e quindi inserirsi con ogni diritto nella vita politica, anche coloro che non ne esercitassero alcuna, ferma tuttavia l'esclusione delle grandi famiglie fiorentine di magnati e cavalieri. Si tratta di avvenimenti di fronte ai quali né D. né Guido potevano rimanere estranei e indifferenti. E infatti, quando con i secondi Ordinamenti la costituzione fiorentina permise ai nobili non magnati di iscriversi comunque a una delle Arti e di entrare così nell'attività politico-amministrativa, D., che era appunto nobile non magnate, scese a collaborare col popolo sotto la spinta di attive e dinamiche sollecitazioni etiche. Guido C., che era nobile e magnate e cavaliere, continuò a essere escluso dalle corporazioni artigiane, quale che fosse la sua volontà (e dunque il credere che egli abbia orgogliosamente ‛ rifiutato la tessera ' è solo una stortura antistorica), rimanendo sempre fuori della vita politica giuridicamente costituita, e forte soltanto della propria potenza familiare e della propria faziosa e scontrosa violenza. La decisione di D. non dovette (né lo poteva) essere improvvisa e precipitosa, poiché oltretutto lo. impegnava radicalmente e lo costringeva a prender posizione di fronte ai problemi della vita. E i segni della sua maturazione in questo senso possono anche cogliersi nel mutarsi delle esigenze letterarie di lui dopo la Vita Nuova.

Il giovanile libello segna in sostanza il primo concreto consuntivo di D., la conclusione di un periodo ben chiaro e determinato; ma la scoperta di Beatrice è anche la scoperta dei supremi valori della vita e dello spirito, in un impegno integrale. E proprio l'aver portato a compiuta perfezione questo mito luminoso, e quindi al suo esaurimento, spingerà D. a staccarsi da una letteratura raffinata e calligrafica, da una cultura elegante e aristocratica, ma avulsa dalla vita, e a volgersi da una parte alla tastiera realistica (tenzone con Forese e in prospettiva rime ‛ petrose ') e dall'altra alla poesia dottrinale e allegorica, che è poesia d'impegno, si direbbe, soprattutto civile e morale, nonché letterario. Il C. non poteva seguire D. su questo terreno; egli rimase ancorato al suo ideale di schifiltosa aristocrazia della cultura, conclamato maestro dello Stilnuovo fiorentino, con una fisionomia immobile, definita per sempre. Dal suo punto di vista egli ha tutte le ragioni di lamentarsi degli orientamenti politici dell'amico, ormai decisamente democratici (" Solevanti spiacer persone molte; / tuttor fuggivi l'annoiosa gente ") e del suo progressivo ben sensibile allontanamento dai modi e dai miti dello Stilnuovo (" di me parlavi sì coralemente... / Or non ardisco, per la vil tua vita, / far mostramento che tu' dir mi piaccia "); e le due realtà erano ben interdipendenti. Poi, sulla strada che aveva scelto, D. verrà a trovarsi fatalmente di fronte, anzi di contro al suo vecchio amico, così com'è fatale che la legge dell'ordinata e civile convivenza, la legge della giustizia e della morale, operino sempre contro la violenza e la fazione. D. era dei priori (nonostante qualche dubbio in proposito, per altro ben persuasivamente fugato), quando dopo il tumulto del s. Giovanni del 1300 in Firenze, si decise di espellere dalla città i capi più turbolenti; e fra questi, appunto, Guido C., che poco dopo morì.

Non è impossibile che il riflesso di queste vicende compaia fin nelle pagine del De vulgari Eloquentia, dove la preminenza nell'ambito stilnovistico è attribuita non già al primo ‛ amico ', bensì a Cino da Pistoia (v.). È vero che Guido C. è nel numero di coloro che conobbero che cosa fosse l'eccellenza del volgare illustre: Sed quanquam fere omnes Tusci in suo turpiloquio sint obtusi, nonnullos vulgaris excellentiam cognovisse sentimus, scilicet Guidonem, Lapum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoriensem, quem nunc indigne postponimus, non indigne coacti (I XIII 3). E qui sovviene il ricordo di Vn XXV (nonché di XXX 3), là dove, sostenendo D. il principio secondo il quale alla poesia volgare vanno applicati anche i principi retorici che regolano la poesia in latino, il giovane discettatore si appoggia di nuovo, con entusiasmo un po' ingenuo, all'autorità del suo primo amico (E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente, XXV 10). Ora invece, nel brano del De vulgari Eloquentia, mentre sono con chiara decisione indicati i principali rappresentanti dello Stilnuovo toscano, a Guido non è riconosciuta alcuna posizione di prestigio; al contrario, D. sente il bisogno di giustificarsi per l'ultimo posto che nell'elenco è indigne assegnato a Cino, non di Firenze ma di Pistoia. Guido è solo uno dell'eletta schiera, nulla di più. E se è vero che egli è ricordato successivamente per Poi che di doglia cor convèn ch'i' porti, accettata fra le illustres cantiones ornate del gradus constructionis excellentissimus (II VI 6); e che, volendo esemplificare canzoni composte di soli endecasillabi, D. si richiama anche a Donna me prega; risulterà certo singolare e strano che proprio questo famoso componimento cavalcantiano, per il quale l'ammirazione fu tanto grande, generale e ben durevole da sollecitare commenti e chiose e imitazioni fino all'insigne citazione di Marsilio Ficino nel suo dialogo De Amore (VII 1), sia allegato dall'amico D. esclusivamente perché composto per intero di endecasillabi; e altrettanto singolare che Cino da Pistoia e non Guido C., già maestro a tutti, sia giudicato il più grande poeta d'amore in volgare (II II 9). Forse, a spiegare tutto ciò, non è sufficiente la sola ragione che D. avesse mutato (e fino a qual punto nel De vulgari Eloquentia?) le proprie prospettive letterarie; certo nei giudizi in quel suo trattato emessi da D. sui rimatori contemporanei operano nel profondo elementi irrazionali di carattere autobiografico.

Nel poema la situazione appare rovesciata: nessun accenno né diretto né indiretto a Cino da Pistoia (né può valere la giustificazione che Cino fosse ancor vivo), mentre il pensiero del poeta si rivolge al C. in due memorabili episodi (If X 58 ss. e Pg XI 97-98); la prima volta sullo sfondo di un'inquisizione filosofico-dottrinaria, e la seconda nella cornice di una vicenda letteraria portata a simbolo del fluire del tempo e del vanificarsi di ogni umana vicenda. Più semplice e lineare questa, più opinabile, discussa e intricata l'altra.

Fra i superbi della prima cornice del Purgatorio D., oltre che con Omberto Aldobrandesco, si ferma a parlare con Oderisi da Gubbio, onor di quell'arte / ch'alluminar chiamata è in Parisi (XL 80-81); ma Oderisi umilmente respinge quell' ‛ onore ', esaltando le più luminose carte che dopo di lui è venuto pennelleggiando Franco Bolognese. Così, egli aggiunge, è accaduto con Cimabue rispetto a Giotto, e così ha tolto l'uno a l'altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà del nido (XI 97-99).

Esclusa l'ipotesi che le parole l'uno e l'altro si riferiscano rispettivamente a Giotto e al secondo Guido per le precise e irrefutabili argomentazioni già recate dal D'Ovidio, resta chiara l'affermazione che Guido C. ha oscurato Guido Guinizzelli nella gloria della lingua, cioè nella gloria della poesia; e che a sua volta la gloria di Guido C. verrà oscurata da un terzo poeta, se non giungeranno etati grosse. Troppo forte è la tentazione di intravvedere in questo terzo poeta lo stesso Alighieri, per potervi resistere; e infatti questa è stata sempre ed è tuttora l'interpretazione più diffusa, sebbene non siano pochi a credere che qui D. abbia soltanto genericamente enunciato, sottolineandola e insistendovi su, la legge fatale della vana gloria de l'umane posse (Pg XI 91). Quanto poi al peccato di superbia di cui in tal caso si sarebbe macchiato il poeta, è superfluo osservare, prescindendo da ogni considerazione sulla distaccata, esatta e obbiettiva coscienza del proprio valore e della propria posizione storica (Sapegno, per esempio, ad L.), che D. qui porrebbe sé stesso, tutt'al più, come rinnovato esempio di fama ineluttabilmente caduca, ridimensionando la propria fortuna letteraria sulla misura delle altrui vicende da lui assunte a paradigma di un'eterna legge. Certo è che in questo episodio (pur ammettendo la genericità indeterminata del terzo poeta che l'uno e l'altro caccerà del nido) la grandezza di Guido è osservata con occhio smagato e maturo, senza più l'antico ingenuo entusiasmo; è racchiusa nei limiti di una precisa prospettiva storica e pensosamente inserita - brevissimo momento del tempo - in una valutazione assai amara e delusa di ogni mondan romore.

In prospettiva analoga sarà da fissare l'altro episodio che nel poema riguarda direttamente Guido, quello di If X 58 ss. Nella città di Dite (cerchio sesto, degli eretici) D. incontra Cavalcante dei Cavalcanti, padre di Guido, e Farinata degli Uberti, del quale Guido aveva sposato la figlia Bice; l'uno e l'altro della setta degli ‛ epicurei ' che l'anima col corpo morta fanno (X 15).

A quella setta, secondo gli studi di B. Nardi, appartenne anche Guido, avendo costui fatte proprie talune fondamentali proposizioni averroistiche, come quella dell'individualità dell'anima sensitiva, quale sola forma e perfezione del corpo; e quindi l'altra, che strettamente ne consegue, della morte dell'anima sensitiva col corpo stesso. Ciò risulterebbe dal complesso dei testi cavalcantiani, ma soprattutto dalla famosa canzone Donna me prega, rettamente interpretata in una sua glossa dal medico fiorentino e maestro bolognese Dino del Garbo, il quale sottolinea gli aspetti irrazionali e patologici di quell'amore-passione. Altri, invece, e fra questi più recentemente Guido Favati, non sono d'accordo sull'averroismo cavalcantiano. Il Favati anzi, negando valore probante alla glossa di Dino e traendola a puro documento della cultura del tempo, riporta il pensiero del C. al " dilagante neo-aristotelismo scolastico, del tipo di quello che formava oggetto di dispute e discussioni tra filosofi arabisti e filosofi cristiani a Bologna, alla scuola di Taddeo Alderotti sulla fine del Duecento " (La glossa latina..., pp. 77-78).

Nell'episodio dantesco Cavalcante dei Cavalcanti, quasi intuendo che D. conduca lo straordinario viaggio solo fidando nella propria altea d'ingegno, sembra meravigliarsi del fatto che il figliuolo non sia accanto a lui in quell'impresa sovrumana. E il poeta gli risponde con la tormentatissima terzina: Da me stesso non vegno; / colui ch'attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno (X 61-63).

Il nocciolo sintattico per interpretare rettamente questi non certo perspicui versi, sta nel valore e nella funzione del ‛ cui '. Tradizionalmente Io si considerava complemento diretto della locuzione ebbe a disdegno, il soggetto della quale era indicato in Guido. Ma nessuna ipotesi riusciva a spiegare poi adeguatamente perché Guido dovesse avere a disdegno Virgilio, un grande poeta volgare il massimo poeta latino; non certo quella che Guido appunto scrivendo in volgare le sue poesie spregiasse il latino e quindi Virgilio; o l'altra che Guido fosse piuttosto filosofo e dimostrasse disdegno per la poesia; né che Guido, alta espressione del guelfismo fiorentino, ripudiasse Virgilio simbolo dell'Impero, e così via. Maggior credito ottenne invece la proposta secondo la quale le ragioni del disdegno di Guido per Virgilio erano di carattere dottrinario, filosofico: egli si sarebbe rifiutato di riconoscere in Virgilio il simbolo della ragione illuminata dalla fede; oppure il suo epicureismo sarebbe in antitesi con la religiosità dell'Eneide; o ancora D. avrebbe saputo cogliere nel poema latino una più alta forma di poesia e un più nobile e virile concetto dell'amore rispetto alla produzione giovanile propria dell'amico, " il quale, chiuso nel suo pessimismo, aveva rinunciato a seguir Dante nel ricalcare le orme di Enea, e s'era adagiato in una morale averroistica che lo isolava dalla società cristiana e tarpava in lui lo slancio della fantasia per più alti voli " (B. Nardi, D. e la cultura medievale, pp. 83-84). Ma il ‛ cui ' è poi stato inteso anche nel senso di ad eam quam, secondo una prima interpretazione del D'Ancona (su uno spunto del Torraca), che accettata inizialmente da pochi è venuta via via acquistando il favore degli studiosi, fino a diventare la più diffusa e plausibile. In tal modo il disdegno di Guido non sarebbe rivolto a Virgilio, bensì a Beatrice, " nella quale il Cavalcanti non scorse quel raggio di divina luce, che Dante seppe ravvisarvi " (D'Ancona, Scritti danteschi, pp. 218-219); o meglio, il disdegno di Guido per Beatrice ipostatizzerebbe immaginosamente la sua eterodossia. E su questa interpretazione ha raggiunto l'accordo la critica più qualificata, dal momento che l'acuta, ulteriore penetrazione sintattica del Pagliaro, volta a cogliere e a sciogliere il costrutto ellittico cui.., ebbe a disdegno (" costui mi conduce attraverso questi luoghi da chi Guido vostro sdegnò, si rifiutò di venire ", con la conseguente precisazione semantica dell'ebbe; cfr. Saggi di critica semantica, p. 372), non muta sostanzialmente, come ha notato il Chimenz nel suo commento al passo dantesco, il contenuto ideologico dell'espressione secondo la più recente interpretazione, che porta a non riconoscere alcun rapporto fra l'episodio del poema e il sonetto l' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte. Sicché si può dire che, se anche D. nell'incontro con Cavalcante riconosce schiettamente all'amico Guido altezza d'ingegno (e non è necessario limitare la lode alle sue capacità filosofiche), già nel momento in cui egli pronunzia le parole Da me stesso non vegno, lo esclude automaticamente dal regno della ragione illuminata dalla fede e dalla grazia, nel quale fin dal tempo della scoperta di Beatrice (cui Guido vostro ebbe a disdegno) egli sentiva di aver meritoriamente militato. Un giudizio, anche questo, che crea una matura e conclusiva prospettiva dottrinale e spirituale, e colloca Guido, per sempre, al suo giusto posto.

Bibl. - Nel 1957 apparve la prima completa e corretta edizione critica delle Rime di G. C., a cura di G. Favati, Milano Napoli; e, tre anni dopo, quella di G. Contini, commentata, nei Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, 487-568. Altra edizione delle Rime del C. ha curato lo stesso G. Contini per G. Mardesteig, Verona 1966, con vari ritocchi testuali e con un'introduzione intitolata C. in D., sui rapporti tra i due poeti sotto il profilo strettamente letterario. Sulle relazioni invece fra i due in una più ampia prospettiva storica e ideologica: G. Contini, D. come personaggio-poeta della D. C., in " L'approdo letterario " IV (1958) 19-46, dove l'argomento è inserito nella visione di una generale problematica dantesca; e M. Marti, Sulla genesi del realismo dantesco, in Realismo dantesco e altri studi, Milano-Napoli 1961, 1-32, dove il problema dei rapporti fra D. e il C.è posto al centro di una diversa interpretazione del ' traviamento '; inoltre, B. Nardi, D. e Guido C.; in " Giorn. stor. " CXXXIX (1962) 481-512; e ancora M. Marti, Gli umori del critico militante, nel vol. Con D. fra i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 69-94; Id., Un'avventura letteraria dell'ultimo Duecento: l'amicizia fra D. e Guido, in " Annuario della Fondazione Melli ", Lecce 1969; utili riescono i commenti ai componimenti poetici di D., direttamente o indirettamente riguardanti Guido C., che compaiono in D. A., Rime della " Vita Nuova " e della giovinezza, a c. di M. Barbi e F. Maggini, Firenze 1956, e in D.A., Rime, a c. di G. Contini, Torino 19462. Sull'interpretazione del sonetto I' vegno 'I giorno a te: L. Perroni-Grande, Un sonetto di Guido per la morte di Beatrice, Messina 1901, in accordo con M. Barbi, Una nuova opera sintetica su D., in Problemi I, particolarmente alle pp. 40-41; F. D'Ovidio, La rimenata di Guido a D., in Studi sulla D. C., Palermo 1901, 202-214; E. Lamma, La " rimenata " di Guido, in Questioni dantesche, Bologna 1902, 35-50; E. Rivalta, D. e Guido, in " Nuova Antologia " 10 ottobre 1904, 469-476; L. Pastine, Il sonetto di Guido, in " Giorn. d. " XXXIV, n. s. IV (1931) 201-208, ov'è anche una breve storia della questione; L. Vitetti, Il sonetto a D. di Guido C. " I' vegno 'l giorno a te... ", Torino 1962. Sulla diversa posizione dei due poeti di fronte agli ' Ordinamenti ' fiorentini: M. Barbi, Guido C. e D. di fronte al governo popolare, in Problemi II 371-378. Ma l'interpretazione del sonetto di Guido a D. è da legarsi alla letteratura dantesca sul ‛ disdegno di Guido ' di If X 63; sul quale si vedano almeno I. Del Lungo, Il disdegno di Guido, in " Nuova Antol. " 10 nov. 1889, 37-67 (poi in Dal secolo e dal poema di D., Bologna 1898); F. D'Ovidio, Il disdegno di Guido, in Studi, cit., 150-201; A. D'Ancona, Scritti danteschi, Firenze 1913, e particolarmente l'Appendice II allo studio su Beatrice, 215 ss.; G. Mazzoni, Il disdegno di Guido (Inf. X, 32-63), in Almae luces malae cruces, Bologna 1941, 213-221; S. A. Chimenz, Il disdegno di Guido e i suoi interpreti, in " Orientamenti culturali " I (1945) 179 ss.; B. Nardi, L'averroismo del " primo amico " di D., in D. e la cultura medievale, Bari 19492, 93-129, ove si afferma l'averroismo di Guido: ma, per contro, v. G. Favati, La glossa latina di Dino del Garbo a " Donna me prega " del C., in " Annali Scuola Normale Sup. Pisa " n. s. XXI (1952) 70-103, scritto vivacemente discusso da B. Nardi, Noterella polemica sull'averroismo di Guido C., in " Rassegna di filosofia " III (1954) 47-71, cui replicò ancora G. Favati, Guido C., Dino del Garbo e l'averroismo di Bruno Nardi, in " Filologia romanza " II (1955) 67-83. Una sintesi della lunga questione sul ‛ disdegno ' è in A. Pagliaro, Il disdegno di Guido, in Saggi di critica semantica, Messina-Firenze 19612, 357-380, integrato da M. Lucidi, Ancora sul disdegno di Guido, in " Cultura neolatina " XIV (1964) 203-216. A proposito dell'interpretazione di l'uno e l'altro (in Pg XI 99), cfr. F. D'Ovidio, Studi, cit., 567-568.

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