GUGLIELMO da Vercelli, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUGLIELMO da Vercelli, santo

Giancarlo Andenna

Non si conoscono né la data né il luogo di nascita, né la famiglia da cui G. ebbe origine; tuttavia, poiché le fonti medievali lo designano sempre con il toponimo da Vercelli, si può ragionevolmente ritenere che fosse originario di questa città o del suo territorio. Molto tarde e prive di ogni valore storico sono le attribuzioni di G. a famiglie nobili vercellesi e la congettura che egli sia nato attorno al 1085.

La fonte principale della vita di G. è la Legenda de vita et obitu sancti Guilielmi confessoris et heremitae, contenuta in un manoscritto della prima metà del secolo XIII, scritto in caratteri beneventani, conservato nell'Archivio dell'Abbazia di Montevergine, il cui nucleo centrale fu redatto da un monaco appartenente alla generazione successiva a quella di G., per ordine di Giacomo, abate di S. Salvatore al Goleto nella seconda metà del XII secolo.

Il racconto agiografico mostra G. come penitente volontario, che a quattordici anni decise di abbandonare la famiglia e la città natale per recarsi in pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella.

Il suo proposito era di vivere solo a pane e acqua, di dormire sulla nuda terra, di mantenere il silenzio durante le ore notturne come i monaci. Inoltre, durante il viaggio egli si fece cingere con due cerchi di ferro il petto e il ventre, costume tipico dei penitenti coatti, ma pure accettato dai penitenti volontari. Anche la più antica iconografia del santo, inserita nel predetto codice della Legenda, raffigura G. con in mano il bastone ricurvo dei pellegrini e con la veste nera segnata da croci rosse, distintivo peculiare di coloro che appartenevano all'ordo poenitentium, la cui religio si esprimeva con una perfetta humilitas.

Concluso il pellegrinaggio in Galizia G. decise di recarsi a Gerusalemme, pertanto si diresse "in Apuliam" e soggiornò per qualche tempo a Melfi in casa di un certo Ruggero, forse normanno. Egli in quel momento era privo di ogni formazione letteraria e pertanto il padrone di casa per favorire il suo impegno di preghiera gli fece apprendere a memoria il Salmo 109 (Dixit Dominus Domino meo). Allontanatosi da Melfi, raggiunse Atella, ove visse per due anni sulle proprietà del miles Pietro, conducendo vita eremitica sul monte Serico. Ivi, secondo la Legenda, avrebbe compiuto il suo primo miracolo, guarendo un cieco. La fama provocata dal prodigio lo convinse ad abbandonare la località e a riprendere il suo antico sogno di raggiungere Gerusalemme. Arrivato a Ginosa, G. incontrò Giovanni da Matera e fu ospitato nella sua comunità di S. Pietro, da poco istituita; Giovanni gli consigliò di abbandonare il sogno del pellegrinaggio ai luoghi santi per rendersi utile alla salvezza dei fedeli del Mezzogiorno d'Italia. Ma G. decise ugualmente di recarsi in Terrasanta; tuttavia, giunto a Oria, fu assalito da malviventi.

Il fatto va collocato prima del 1130, anno in cui Ruggero II divenne re di Sicilia: infatti la Legenda dice espressamente che l'episodio poté avvenire in quanto il conte di Sicilia non aveva ancora acquisito il potere regio e quindi le strade non erano sicure. Anzi, il testo della Legenda, proprio nell'inciso relativo al sovrano, indicato come "aequitatis amator, malorum omnium exterminator", dimostra che l'autore conobbe le pagine di encomio scritte da Alessandro di Telese per Ruggero II. Questa parte della Legenda dovrebbe essere stata scritta quindi tra il 1150 e il 1178, dopo la diffusione dell'opera dell'abate telesino, ma prima della stesura della Cronaca di Romualdo Guarna (Romualdo Salernitano), che attribuisce invece gli interventi contro il banditismo al re Guglielmo II.

G. abbandonò allora l'idea del pellegrinaggio e ritornò da Giovanni da Matera, che gli predisse il suo futuro ruolo di fondatore di una congregazione monastica. Questa seconda visita appare funzionale, nel testo della Legenda, alla decisione di G. di recarsi in Campania per cercare un luogo adatto alla vita eremitica di un piccolo gruppo di persone. Raggiunse pertanto Atripalda, nei pressi di Montevergine, e fu ospitato da una nobildonna dalla cui servitù apprese che la montagna era adatta a condurre "solitariam vitam".

Ma prima volle sostituire i cerchi di ferro di cui si era cinto, poiché si rompevano con frequenza ed egli era costretto a farli riparare dai fabbri. Si recò allora a Salerno e si presentò a un miles, che gli mostrò le sue corazze e lo invitò a scegliere quella più adatta. Coperto da una veste di ferro, ritornò ad Atripalda e qui si fece forgiare una cuffia di maglia di ferro, che decise di portare sempre sul capo; così egli, che aveva sempre frequentato i milites normanni, diveniva "miles Domini". Decise quindi di salire sul monte, con un compagno di nome Pietro, alla ricerca di una sorgente.

Le guardie del vicino castello di Mercogliano, pensando che i due fossero dei ladri, li arrestarono e li portarono di fronte al baiulo della fortezza, che, dopo averli interrogati, li liberò in quanto si rese conto che erano degli uomini religiosi. Tornato ad Atripalda, G. convinse i consanguinei e i vicini della nobildonna che lo ospitava a salire sul monte e a costruire presso la fonte alcuni edifici di scarsa rilevanza ("domuncula") in cui condurre vita eremitica.

Dopo una interessante divagazione sull'incontro che G. ebbe con un orso, che utilizzava la stessa sorgente, la Legenda illustra il suo regime alimentare eremitico: egli si cibava di fave e castagne, che raccoglieva con le sue mani, e di un pane d'orzo cotto sotto la cenere. Si unì a lui un monaco, che desiderava porsi sotto la sua guida spirituale, e insieme i due pregavano Dio anche di notte, davanti a una croce che avevano conficcato per terra.

Nel volgere di un biennio si formò una comunità di donne e uomini, fra cui anche alcuni sacerdoti, che avevano scelto di sottomettersi al suo magistero. Questi ultimi chiesero a G. quale norma di vita religiosa egli prescrivesse. Egli, evidentemente digiuno di diritto canonico, fornì questo consilium, o meglio proposito: "Lavoriamo con le nostre mani, per poter ricavare dal nostro lavoro il vitto e il vestito e tutto ciò che doniamo ai poveri. Inoltre nelle ore stabilite, dopo esserci ritrovati insieme, celebriamo l'ufficio divino".

I preti del gruppo mantennero per breve tempo la semplice disposizione normativa, poi sostennero ad alta voce di essere sacerdoti, cui competeva l'amministrazione delle cose sacre, e di non essere pertanto tenuti al lavoro e tanto meno alla coltivazione della terra come se fossero stati dei rustici. Al contrario essi volevano che sul monte si edificasse una chiesa e si acquistassero dei libri e dei paramenti liturgici, in modo che essi potessero occuparsi del servizio divino. G. accettò le loro proposte e ottenne da amici e da conoscenti gli oggetti liturgici.

I preti allora vollero che fosse costruita la chiesa e prepararono un luogo per fare la calce, aiutati dagli abitanti dei vicini villaggi. In breve la chiesa fu edificata e con essa sorsero anche le cellule per ospitare i confratelli. La presenza di piccole celle permette di sostenere che la prima comunità ebbe una normativa eremitica, non ispirata alla regola benedettina. La chiesa fu poi consacrata in onore di Maria Vergine dal vescovo di Avellino, chiamato da G., poiché l'edificio era sul suo territorio diocesano. Questi fatti avvennero probabilmente nel 1124.

I rapporti con il vescovo di Avellino, Giovanni, sono inoltre documentati da una "charta libertatis" del maggio 1126, sulla cui autenticità sono state sollevate numerose obiezioni, in quanto alcuni con buone argomentazioni la ritengono posteriore. In ogni caso il documento pone i problemi della esenzione dai poteri dell'ordinario e dell'esercizio della pastorale da attribuire agli eremiti. G. avrebbe chiesto al presule, prima della consacrazione della chiesa di S. Maria, di garantire alla fondazione sicurezza, libertà e indennità. Il vescovo, attorniato dai chierici e dai rappresentanti del potere signorile, nonché dal suo advocatus e dai boni homines della città, non solo avrebbe concesso la libertas, ma avrebbe anche aggiunto che dopo la morte del fondatore i "monachi et fratres" avrebbero potuto scegliere liberamente il successore, indicato come abbas, traendolo "de eorum congregatione", senza alcun intervento del presule. Infine al capo della congregatio Giovanni avrebbe concesso il potere di "constituere presbiteros et clericos et monacos" non solo a Montevergine, ma anche in tutte le chiese dipendenti. A tale concessione il vescovo avrebbe aggiunto anche la possibilità di esercitare direttamente la cura delle anime degli abitanti e l'amministrazione dei sacramenti sul territorio del monastero e su quello delle cappelle dipendenti. Infine, Giovanni avrebbe previsto per i fratres la possibilità di ricevere i beni donati dai moribondi alla fondazione di Montevergine. I termini congregatio, abbas, monachi, nonché la concessione della libera elezione del superiore e la possibilità di costituire sacerdoti e di esercitare tutte le funzioni della cura delle anime, compreso il battesimo sembrano francamente prematuri ed eccessivi per la nascente comunità eremitica. Il documento testimonia invece un momento del successivo sviluppo della fondazione, quando G. si era ormai allontanato da essa per dissidi intervenuti con i sacerdoti della comunità a proposito della norma di vita.

La Legenda sottolinea inoltre che l'iniziativa di G. era appoggiata dai proceres della zona. Intanto sul monte la comunità eremitica prosperava, anche per l'accorrere delle popolazioni vicine, che donavano al fondatore oro, argento e altri beni materiali.

Tra questi si possono annoverare sei donazioni di castagneti e una vigna, che G. accettò tra il 1125 e il 1127 da alcuni piccoli proprietari della località denominata "Mandre". Erano le poche terre che sarebbero servite al sostentamento dei membri della comunità, impegnati a lavorarle direttamente con le proprie mani. L'atteggiamento di G. nei confronti del denaro era quello tipico degli asceti, o meglio del bonus dispensator: egli tratteneva solo ciò che considerava strettamente necessario alla comunità, donando ai poveri il resto. Infatti la sua formazione penitenziale ed eremitica lo portava a diffidare del denaro e delle ampie proprietà immobiliari, in quanto egli desiderava che la sua comunità permanesse in uno stato di precarietà assoluto.

Su questo punto avvenne lo scontro con i preti del gruppo. Nessuno degli oppositori di G. sollevava questioni sulla povertà personale degli aderenti all'esperienza eremitica; ciò che essi chiedevano era la sicurezza economica dell'istituzione, i cui beni, mobili e immobili, erano legati alla Chiesa e non ai singoli componenti. I sacerdoti presenti nell'eremo accusavano G., troppo largo nelle alienazioni ai poveri, di agire contra ius e di donare agli indigenti i beni mobili, che erano di proprietà comune, senza averli prima interpellati. Inoltre, la necessità di avere il loro assenso era sottolineata dal fatto che le offerte erano legate più all'esercizio dell'ufficio sacerdotale e alle preghiere, che non ai meriti del fondatore. Di fronte alle accuse, basate sul diritto canonico, G. si difese citando il Salmo 118: "Avete scelto Dio come vostra eredità". Inoltre aggiunse che il denaro serviva più a distruggere la Chiesa che a edificarla. Le posizioni erano divenute inconciliabili e G. tra il 1128 e il 1129 abbandonò Montevergine, seguito solo da cinque confratelli privi di cultura ("ydioti"), per riprendere la vita eremitica e penitenziale.

La comunità di Montevergine, governata dal priore Alberto, si legò sempre più ai Normanni della zona, da cui ricevette chiese, mulini, terre e denaro, ed esercitò in accordo con i vescovi di Avellino la pastorale verso gli abitanti dei villaggi legati alle chiese di cui era proprietaria, sinché tra 1161 e 1172 papa Alessandro III le permise di abbandonare la norma anacoretica per abbracciare la regola di s. Benedetto.

G. raggiunse il monte Laceno, sul territorio di Bagnoli Irpino, allora coperto da una densa foresta, con l'eccezione di un pianoro attraversato da un torrente, ove furono costruite le singole capanne ("tuguria") dei sei eremiti. Ma il clima era così rigido e il vitto così scarso che in breve i soci si allontanarono; G. al contrario perseverò nella sua scelta. Di nuovo fu visitato da Giovanni da Matera, che volle fermarsi per qualche tempo, e i due ebbero la grazia di vedere Gesù Cristo in vesti candide come la neve, che impose loro di allontanarsi dal monte in quanto la loro opera era necessaria in altre contrade.

Abbandonato il Laceno, i due eremiti si divisero: Giovanni si recò sul monte Gargano, mentre G. si stabilì sul monte Cognato (Serra Cognata) alla destra del Basento, nelle vicinanze di Tricarico e di Pietrapertosa. Il terzo incontro con Giovanni da Matera, conclusosi con la separazione e con la delimitazione geografica dei centri di espansione delle due congregazioni, potrebbe rappresentare, entro la narrazione della vita, esigenze più tarde, imposte dall'insorgere di difficili rapporti tra verginiani e pulsanesi.

A Serra Cognata G. ebbe buoni rapporti con il signore del territorio, il conte Roberto di Montescaglioso, che gli permise la fondazione di una chiesa. Ben presto però egli si allontanò dal luogo, ove era operante una piccola comunità a lui legata, per raggiungere il centro di "Munticulum", lungo il corso dell'Ofanto, ove costruì tra 1133 e 1134, con l'aiuto del signore del luogo e con il beneplacito del vescovo di Sant'Angelo dei Lombardi, un cenobio dedicato al Salvatore, che in seguito fu denominato S. Salvatore al Goleto.

L'idea era quella di innalzare un doppio chiostro, in cui ospitare uomini e donne, che avevano effettuato una scelta religiosa di vita; tuttavia dal testo della Legenda sembra di arguire che le religiose fossero in numero più elevato. In ogni caso va sottolineata la novità di erigere un doppio chiostro, decisione che inserisce G. tra i riformatori monastici più aperti del XII secolo e lo toglie dalle angustie della dimensione locale, in cui una storiografia di tradizione esclusivamente monastica lo aveva inserito. Alle monache del Goleto G. impose una serie di consuetudini, quali l'astinenza dal vino, se non in caso di malattia, e il rifiuto totale della carne, delle uova e del formaggio. Per tre giorni la settimana le consorelle avrebbero mangiato solo pane, frutta e ortaggi crudi, mentre nei rimanenti tre giorni avrebbero potuto condire il pane e gli ortaggi con l'olio. Dal 1° novembre a Natale e per tutta la quaresima, sino a Pasqua, era prevista solo un'alimentazione a pane e acqua; era concesso mangiare, al posto del pane, i legumi e gli ortaggi.

Dopo essere rimasto per otto anni al Goleto, G., ammalatosi, volle essere deposto davanti alla croce e nella notte del 24 giugno 1142 spirò. Il suo corpo rimase in quel monastero sino al 1807, quando fu trasferito nell'abbazia di Montevergine.

La Legenda racconta la storia di Gualterio, che aveva confessato a G. di essere un architetto ("architectonica arte peritus"), proveniente "Liguriae partibus", cioè dalla Lombardia e dai territori in cui G. era nato. Questa annotazione permette di datare il testo della vita di G. alla seconda metà del XII secolo, quando negli ambienti imperiali di Federico I era di moda indicare i territori tra Milano e Vercelli con il termine classico di Liguria. Gualterio, che nella natia Liguria aveva avuto un braccio paralizzato a causa di una caduta da una torre che stava edificando, per invito di G. divenne monaco e a lui fu affidata secondo la narrazione della Legenda la costruzione della chiesa di Montevergine, della domus nella obbedienza di S. Cesario e della chiesa di Serra Cognata.

Risultano invece falsi, dopo gli studi di Brühl, i due precetti per G. di re Ruggero II, datati rispettivamente 1137 e 1140, che vorrebbero dimostrare la stretta collaborazione tra i due protagonisti. Pertanto, anche le parti della Legenda che narrano di incontri e dialoghi tra G. e il sovrano sono da ritenere non veritiere, ma imposte dalla necessità politica dei successori di G. sia a Montevergine, sia al Goleto, di accreditare presso la corte normanna il fondatore della congregatio. Ma su questo punto e sugli evidenti rapporti dell'eremita con i nobili e con i milites normanni della Campania, della Puglia e della Basilicata appare necessario intraprendere più ampie ricerche.

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