SUCCESSIONE, GUERRE DI

Enciclopedia Italiana (1936)

SUCCESSIONE, GUERRE DI

Ettore ROTA
Ettore ROTA
Francesco COGNASSO
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. Sotto il nome di guerre di successione s'intende generalmente parlare delle tre guerre di successione spagnola, polacca e austriaca, che si combatterono in Europa nella prima metà del sec. XVIII ed ebbero fine con la pace di Aquisgrana del 1748. Iniziatesi per ragioni dinastiche, esse assunsero fino dall'inizio anche il carattere di guerre per il mantenimento dell'equilibrio politico europeo gravemente compromesso dalle possibilità che la successione ai varî troni portava di unioni di corone e di stati già formidabili per sé stessi. Per esse cadde il predominio spagnolo in Italia, fu fiaccata l'egemonia della Francia, l'Inghilterra si affermò nel Mediterraneo, l'Austria riuscì a stabilire il suo predominio in Italia; la penisola ebbe trasformazioni profonde e l'assetto che poi conservò fino al 1796.

Guerra di successione di Spagna.

È la contesa che si svolse intorno al trono di Spagna, rimasto vacante nel 1701, intrecciata con altre ragioni di rivalità, europee e coloniali; per modo che, non solo scesero in campo le potenze direttamente interessate nella contesa per la corona della monarchia spagnola, ma altre ancora per regolare, con la loro azione e con il loro consenso, i cambiamenti in Europa e nelle colonie. Essa si prolunga fino all'anno 1713, data della pace di Utrecht.

La successione di Spagna costituiva un'eredità, territorialmente, la più vasta del mondo; poiché alla monarchia di Spagna (il Portogallo se n'era staccato nel 1668) erano annesse 21 corone, costituite dai territorî d'Italia (Milano, Due Sicilie, Sardegna, Presidî toscani, il Finale), dai Paesi Bassi del Sud, da un immenso impero coloniale sparso in Africa, nelle tre Americhe, nel Grande Oceano. Il problema della successione comprometteva un ordine assai vasto di rapporti internazionali, e riguardava non solo la possibilità di un'espansione coloniale al di là dell'Atlantico, ma soprattutto la sorte del commercio inglese nel Mediterraneo che si era venuto affermando, in concorrenza con quello francese, sulle rovine del traffico spagnolo e sul lento tramonto di quello olandese. Di fronte all'eventualità di un solo erede che, avendo già altre corone, potesse diventare il primo sovrano del mondo, trova ragione la grandiosità della contesa, tale per numero di combattenti e per il teatro dell'azione. Ma da ciò derivò pure l'interesse che si concentrò da più parti intorno alla questione, già discussa e risolta dalle corti principali, prima della morte di Carlo II che, ammalato, senza figli, ultimo degli Asburgo di Spagna, aveva come parenti prossimi, e legittimi eredi, soltanto principi stranieri. Nella Spagna era ammessa la successione al trono del ramo femminile. Per ciò si fecero avanti anche i discendenti degli Asburgo di Spagna per via di donne. Primi Luigi XIV e l'imperatore Leopoldo che avevano sposato due sorelle, l'uno la primogenita di Carlo II, l'altro, una sorella cadetta. A loro si aggiunsero il principe elettore di Baviera, Giuseppe Ferdinando, nato da una famiglia dell'imperatore; e il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, pronipote di Caterina, figlia di Filippo II. Fra costoro, Luigi XIV si considerava l'erede più legittimo, vantando la primogenitura della moglie. Leopoldo obiettava che quest'ultima, nell'atto di matrimonio, aveva rinunciato ai diritti di successione spagnola, e che essi, pertanto, erano passati alla propria moglie. Luigi XIV replicava negando validità alla rinuncia.

Queste competizioni avevano creato intorno a Carlo II un partito tedesco e un partito francese, espressione dei due maggiori centri di contesa, Vienna e Parigi. Ma nel mondo diplomatico europeo, specialmente a Londra, a L'Aia e a Torino, si considerava la soluzione del problema secondo le norme della dottrina che allora prevaleva, il cosiddetto "equilibrio europeo". Si concepiva l'Europa come divisa in due campi, pari fra loro in potere, e garanti della pace generale attraverso questa parità di forze. Si tendeva quindi a conservare la costanza iniziale dei loro rapporti, e a contenere entro limiti di equità ogni eventuale ingrandimento degli stati, compensando l'uno della crescita dell'altro. Per ciò l'Inghilterra che si atteggiava a mediatrice fra i conflitti continentali, difese il concetto della spartizione dei beni di Carlo II. Luigi XIV che, appena uscito da una grande guerra, non si sentiva forte abbastanza da affrontarne un'altra con l'ostilità di Londra entrò in quell'ordine di idee e aprì negoziati con Guglielmo III, re britannico, per regolare in anticipo, con segreti accordi, sulla base dell'equa ripartizione territoriale, le sorti della eredità madrilena. Il trattato definitivo recava le date del 13 e 25 marzo 1700. Queste pratiche non rimasero segrete, e scatenarono opposizioni nelle corti di Vienna e di Madrid, volendo esse intatta, l'una per considerazioni politiche, l'altra per sentimento nazionale, l'unità della monarchia di Carlo II. Il quale, nauseato da tali macchinazioni, si decise a redigere, il 2 ottobre 1700, un testamento, in cui era nominato erede universale il più giovane nipote di Luigi XIV, il duca Filippo d'Angiò, con la clausola che le proprie corone non si sarebbero mai unite a quelle di Francia. In caso di morte senza figli, lo sostituiva il duca di Berry; poi, nello stesso caso, l'arciduca Carlo, e infine il duca di Savoia. Carlo II morì il 1° novembre 1701. Quando giunse notizia del testamento a Fontainebleau (9 novembre), dove era la corte, Luigi XIV si trovò nell'imbarazzo, se tenere fede al trattato sottoscritto con Guglielmo III o se accettare il testamento. Si risolse per quest'ultimo, facendo persuase l'Inghilterra e l'Olanda che esse non avrebbero più da temere la preponderanza francese nel Mediterraneo, poiché le Due Sicilie rimanevano spagnole. Il duca d'Angiò, entusiasticamente accolto, entrava in Madrid nell'aprile, col nome di Filippo V, col titolo di re di Spagna. La borsa di Amsterdam ne salutò l'avvento con rialzi notevoli. Sulle rive del Tamigi il pubblico fece eco ai voti dei tories (maggioranza della camera) decisamente contrarî alla guerra, e Guglielmo III riconobbe Filippo V. La corte di Vienna, invece, non rinunziò alle proprie pretese né alla vagheggiata ricostruzione dell'impero mondiale asburghese. Aveva da poco fatto la pace con i Turchi (a Carlowitz), disponeva liberamente delle sue forze, vedeva occasione propizia a riprendersi le ultime conquiste della Francia, a cominciare dall'Alsazia, sotto colore di combattere l'imperialismo borbonico. Leopoldo si era già assicurati i contingenti del duca di Hnnover e dell'elettore del Brandeburgo, conferendo all'uno la dignità elettorale, all'altro il titolo di re di Prussia (16 novembre 1700). Così si formò una prima coalizione continentale, che presto si guadagnò l'assistenza delle potenze marittime, per il contegno provocante di Luigi XIV, tale da far credere che egli volesse realmente la riunione dei due regni, franco-ispano, poiché veniva attorniando Filippo V con tutto un ministero francese e mostrava di considerarlo una specie di viceré al servizio della propria politica. Ma che una sola volontà, quella di re Luigi, agisse su tutta la monarchia di Spagna, apparve in modo più allarmante dalla circostanza che nelle sette piazzeforti dei Paesi Bassi, sgombrate nel 1697 a favore degli Olandesi, ricomparvero milizie francesi per proteggere l'autorità del re, non ancora riconosciuto. Volevano poi i governi di Londra e dell'Aia, in compenso della loro precedente attitudine benevola, garanzie commerciali che Luigi XIV si rifiutò di concedere, e un compenso territoriale per l'imperatore, intendendosi con ciò il Milanese, che Luigi XIV fece, al contrario, presidiare da truppe francesi contro un eventuale attacco di Cesare. Vittorio Amedeo aveva offerto alla corte di Vienna di prevenire la proclamazione di Filippo V nel Milanese, occupandolo con le sue truppe; importava al duca sabaudo che la Lombardia non divenisse borbonica, per non vedersi da ogni parte accerchiato da una stessa dominazione che avrebbe causato la fine politica del Piemonte, uso a bilanciarsi fra due potenze rivali. Ma l'Austria indugiò, e frattanto il duca d'Angiò era proclamato a Milano, e Vittorio Amedeo, stretto in mezzo dai Francesi che marciavano verso la Lombardia, chi dal Finale, chi dal Delfinato, dovette sottoscrivere, contro voglia e contro interesse, un trattato d'alleanza con la corte di Versailles (6 aprile 1701) e accettò la carica di generalissimo delle forze galloispane in Italia. L'imprudenza di Luigi XIV giunse a tal segno, che, nel settembre 1701, essendo morto Giacomo II Stuart, il re deposto, egli dichiarò che non avrebbe riconosciuto a re di Inghilterra se non il figlio dello Stuart. Tutto ciò aperse gli occhi degli Inglesi e produsse un cambiamento profondo nella pubblica opinione; quel che poteva essere guerra di equilibrio politico e di gelosie commerciali, divenne guerra nazionale in nome dell'indipendenza del regno e dell'incolumità del culto anglicano. Il parlamento approvò le spese di guerra, con i voti favorevoli di liberali e conservatori, e d'accordo con la corona. Il governo dell'Aia, che aveva chiesto aiuto agl'Inglesi contro le milizie francesi nei territorî di "barriera", si trovò pure a fianco dell'imperatore Leopoldo; e così, le due grandi correnti politiche europee, quella borbonica e quella anglo-olandese asburgica, diedero nuovamente luogo a un grande conflitto. Guglielmo d'Orange morì il 17 marzo 1702; ma egli aveva di già coalizzati insieme, ancora una volta, gli avversarî della Francia, e alla sua politica si attennero, in Inghilterra, la regina Anna (1702-1714), nei Paesi Bassi, il suo fidato amico, il pensionario Heinsius. Alleati di Luigi XIV furono, ma per poco tempo, il re di Portogallo e il duca di Savoia, insieme con l'elettore di Baviera che fornì poche forze ed era pure malfido alleato. Il re Luigi sostenne quasi con le sole sue forze una guerra, la più lunga e la più grave di tutte le altre, sopra quattro fronti i Paesi Bassi, la Germania, l'Italia, la Spagna; e in punti diversi, sul mare.

Le prime ostilità scoppiarono in Italia, dove la fortuna cesarea dilagò rapidamente. Clemente XI aveva tentato invano di costituire una federazione tra i principi della penisola per evitare la guerra in Italia. Allora la Santa Sede si professò neutrale, ma stando, in cuor suo, con la Francia. Venezia tenne uguale politica, ma lasciò passare anche i Tedeschi, dopo i Francesi. Francesco III di Parma alzò le insegne pontificie, come feudatario della Chiesa; Carlo IX di Mantova si vendette a Luigi XIV e lasciò occupare la capitale dalle sue milizie (5 aprile 1701); Rinaldo d'Este stette saldo nell'amicizia verso l'impero; a Napoli si preparò congiura a favore dell'arciduca Carlo d'Austria.

L'esercito adunato da Leopoldo sotto il comando del principe Eugenio, con l'intento di invadere il ducato di Milano, feudo dell'impero considerato vacante, senza dichiarazione di guerra, si era mosso nella primavera del 1701, e, forzati i passi difesi dal Catinat, sboccò nel Veronese (giugno) puntando su Mantova e sul Ferrarese per aprirsi le vie di Milano e di Napoli. Lo scontro di Carpi (9 luglio) costrinse il Catinat ad abbandonare le posizioni fra l'Adige e il Mincio. L'intervento di Vittorio Amedeo II e i rinforzi poderosi del Villeroy non cambiarono questa cattiva piega. Gli Austriaci passarono il Po e la defezione della principessa della Mirandola mise in loro mano questa preziosa fortezza. Il Villaroy, sorpreso dentro le mura di Cremona, cadde prigioniero. I Francesi si ritirarono dietro le linea dell'Adda. Ma con l'arrivo di Luigi di Vendôme, un vero generale, la fortuna si capovolse. Comandava 80.000 uomini contro 30.000 privi anche delle munizioni. Modena fu riguadagnata. Mantova e Milano poste in salvo. Eugenio ridotto a comunicare con la Germania per la sola via dell'Adige, e immobilizzato dalla povertà delle sue forze. Il Vendôme ne approfitta, e apertosi, attraverso le gole del Tirolo, il cammino verso la Baviera, tenta di attuare il congiungimento con l'armata del Reno, per portare un colpo decisivo all'impero, tagliando le comunicazioni con Vienna.

Ora il campo d'azione si allarga da italiano ad europeo; e mentre l'Europa si riscuote e si coalizza contro la Francia, Luigi XIV restringe gradatamente le sue pretese, e anche la Spagna si dispone a notevoli cessioni: prima i Paesi Bassi, con formale trattato (9 novembre 1702) promessi a Massimiliano II di Baviera, affinché i Franco-Ispani potessero liberamente disporre di questa posizione, necessaria per la saldatura dei loro fronti.

Infatti il Villars, che operava in Germania, dopo le prudentissime azioni del Catinat, sferrò una vigorosa offensiva, e, vinti gli imperiali a Friedlingen (14 ottobre 1702) sulla riva destra del Reno, si spingeva in Baviera; non potendo trascinare contro Vienna l'incerto e pauroso principe elettore, alleato di difficile intesa, lasciò a lui, desideroso di sollevare il Tirolo contro l'Austria, il compito di abbreviare il cammino del Vendôme per l'auspicata congiunzione. I moti tirolesi (Martino Sterzinger fu l'Andrea Hofer del 1703) decimarono le truppe; e la defezione del Piemonte incagliò il seguito dei movimenti. Né Luigi XIV né Filippo V sapevano apprezzare l'alleanza di Vittorio Amedeo II, che, disgustato da personali affronti e deluso nelle sue aspirazioni sul Milanese, negoziò con Vienna; il trattato di lega sottoscritto a Torino l'8 novembre 1703, gli prometteva il Monferrato, Alessandria, Valenza, i paesi posti fra il Po e il Tanaro, la Lomellina e la Valsesia. Questo abbandono si ripercosse su tutta la guerra. Il Vendôme dovette retrocedere. Il piano del Villars non poté essere ripreso. Le azioni rimasero separate. Pochi mesi prima, anche il Portogallo era sfuggito ai Francesi; i suoi interessi commerciali lo legavano strettamente alle potenze marittime; queste avevano minacciato di bloccare le sue coste; per scampare al blocco, Don Pietro II defezionò. La flotta inglese, più libera nei suoi movimenti, occupò Gibilterra (4 agosto 1704), e non la lasciò più, mentre il Portogallo diveniva una comoda strada d'ingresso alla Spagna per i coalizzati, che, alla testa del secondo figlio dell'imperatore, l'arciduca Carlo, successore designato di Filippo V, portavano la guerra al Sud della penisola, appoggiati dalle frequenti ribellioni della Catalogna. Il piano francese di concentrazione nella valle del Danubio, fu adottato dai nemici di Luigi XIV, e con successo. Il principe Eugenio venne in Baviera con l'armata austriaca d'Italia; quivi lo raggiunse il duca di Marlborough, proveniente dai Paesi Bassi, ove egli, capo degli Anglo-Olandesi, aveva tenuto in scacco, per varî mesi, con la sua complicata strategia, il maresciallo Boufflers, soldato impavido ma incapace di vasti disegni. Ambedue, sul medesimo campo di battaglia, a Hochstaedt, dispersero le forze franco-bavaresi (13 agosto 1704). A Versailles si ebbe per la prima volta l'impressione dei grandi disastri. Tutta la Germania meridionale era perduta; chiusa la via di Vienna; la Francia costretta alla difensiva. E tale fu la guerra per 11 anni, eccetto che in Piemonte. Luigi XIV voleva punire l'infedele alleato di ieri, cacciarlo dalla sua capitale. E Torino fu assediata da 25.000 Francesi. Gl'imperiali si fecero molto attendere. Il duca di Marlborough aveva declinato l'impresa d'Italia, ma affidando al principe Eugenio l'incarico di aiutare il duca di Savoia e fornendogli i mezzi sufficienti a tale scopo. Ma tra i due cugini erano profonde divergenze strategiche, volendo Eugenio procurare sollievo al Piemonte per via indiretta con una conquista sistematica non solo della Lombardia ma degli altri stati spagnoli in Italia, mentre il duca persisteva nella convinzione che la partita italiana tra i Borboni e gli Asburgo si avesse a decidere in Piemonte, e quindi sollecitare la congiunzione delle armi. Luigi XIV, pur avendo richiamato il Vendôme dall'Italia per contrapporlo al Marlborough che moveva dai Paesi Bassi assai minaccioso, rinunciava provvisoriamente a tutte le riprese sugli altri fronti, volendo vincere prima di tutti il Piemonte. Il principe Eugenio continuava a vedere nell'assedio iniziato col settembre 1705 un atto piuttosto dimostrativo; e solo quando vide il pericolo che la guerra terminasse rapidamente davanti a Torino, e tutta la massa dei nemici si rovesciasse in Lombardia sopra lui solo, che sarebbe stato a sua volta costretto a soccombere, si scosse dal suo ostinato ottimismo e abbandonò il Trentino per operare la sospirata congiunzione con le forze piemontesi. In Torino era rimasto il conte Daun con la fanteria e 500 cavalli: a lui, Vittorio Amedeo aveva affidato, con assoluta autorità, la difesa interna; egli si era portato al campo, per dirigere la resistenza con il fascino del suo esempio eroico, affrontando il pericolo di essere fatto prigioniero. Il principe Eugenio, sopraggiunto senza difficoltà, attaccò i Francesi nelle trincee per liberare la capitale. Vittorio Amedeo poté rientrare in trionfo nella sua città (7 settembre), e nel nome di Pietro Micca si raccolse la magnanimità di tutto il popolo piemontese in quella giornata.

I rovesci dell'esercito francese, naturale sviluppo della battaglia di Torino, procedettero come sospinti da una forza irresistibile: Vittorio Amedeo II marciò direttamente su Milano; in pochi giorni capitolarono le piazze di Lombardia; Luigi XIV ne abbandonò la difesa, stipulando con l'imperatore la neutralità dell'Italia (agosto 1707). Il principe Eugenio fu nominato governatore dello stato di Milano. Il conte Daun, ottenuto il passo per lo stato ecclesiastico, passò il Tevere non lungi da Roma e per la strada di Frosinone e San Germano, entrò nel regno di Napoli. Poca resistenza oppose Gaeta; nessuna, le milizie mandate al Garigliano; Napoli presentò al generale austriaco le chiavi della città. Finiva la dominazione spagnola. Né la bandiera della neutralità salvò gli stati della Chiesa. Clemente XI affisse la censura contro l'imperatore Giuseppe I, che aveva costretto a forti contribuzioni il duca di Parma e lo stesso clero. Giuseppe I rispose facendo occupare Comacchio dalle sue truppe (maggio 1708) e dichiarando che anche Parma e Piacenza appartenevano all'impero. Clemente XI dichiarò guerra all'impero e il generale Marsili ebbe il comando dell'esercito pontificio. Ma fu simulacro di guerra. Gli Austriaci non ebbero il coraggio di marciare su Roma. Il trattato di pace (1709) segnava la rinuncia dell'impero alle pretese di sovranità su Parma, Piacenza e Comacchio.

Nella Spagna, Filippo V fu per due volte cacciato da Madrid (1706-1710). Solo sul finire del 1710 il Vendôme riuscì a travolgere l'armata anglo-austriaca a Villaviciosa, e Filippo V poteva dirsi padrone della Spagna. Ma al nord, la Francia, perduti i Paesi Bassi Spagnoli, con la disfatta di Ramillies (23 maggio 1706), non poté più ricuperarli. Nel 1709, durissimo inverno, essa era caduta nell'estrema miseria. Carestia, pestilenza, debiti, usura, sommosse di mendicanti facevano dire a Fénelon: "On ne vit plus que par miracle". L'orgoglio di Luigi XIV piegò vinto, ancor più che per gli insuccessi militari, per le condizioni interne, e chiese la pace.

Le trattative discusse a L'Aia (maggio 1709) urtarono contro le esorbitanti pretese dei coalizzati: esclusione di Filippo V dal trono di Spagna, rinuncia di tutti gli altri possessi, restituzione di Strasburgo all'imperatore, di Terranova agl'Inglesi, impegni da parte del Re Sole di imporre al nipote le armi proprie e dei collegati; queste le condizioni per quanto si riferiva alla corona spagnola. La. Francia si riscosse indignata: a migliaia affluirono i volontarî. L'11 settembre 1709, Villars li guidava contro Eugenio e Marlborough all'attacco di Malplaquet, villaggio nel dipartimento del nord. Fu la battaglia più accanita e più rabbiosa di tutta la guerra; 90.000 i Francesi, contro 120.000; durò 7 ore; il Villars fu colpito da una palla al ginocchio; Bouffler continuò la lotta; al termine della giornata, i Francesi lasciavano sul campo 11.000 fra morti e feriti; gli alleati avevano 23.000 uomini fuori combattimento. Luigi XIV ridomandò la pace. Le imposizioni del nemico furono più gravi che a L'Aia. Il re ancora le respinse: avrebbe ceduto l'Alsazia e la Lorena; ricusava di detronizzare Filippo V con le proprie forze. E la guerra fu ripresa, questa volta sul suolo della Francia, invasa dagl'imperiali. Il caso le venne in aiuto. La morte repentina dell'imperatore Giuseppe I (1705-1711), deceduto senza figli, riserbava la corona imperiale al fratello, l'arciduca Carlo, che gli alleati avevano riconosciuto come re di Spagna: egli avrebbe, quindi, rinnovato, in altra forma, il pericolo che si voleva evitare combattendo Filippo V. A Londra fu posto il problema: se si doveva proseguire per sostenere la supremazia austriaca in luogo di quella francese. E parve che, nel momento attuale, il riconoscere Filippo V fosse la soluzione migliore.

In quello stesso anno prevaleva, nel parlamento inglese, il partito contrario alla guerra; e il Marlborough che appariva non solo un generale, ma un trafficante, perdette i suoi vecchi sostegni. Londra negoziò la pace separatamente, passando sopra alle clausole del trattato d'alleanza, e nei preliminari di Londra s'intese con la Francia circa le condizioni essenziali della pace (8 ottobre 1711). Ritirò le proprie truppe e firmò un armistizio, con la Francia, che autorizzava gl'Inglesi ad occupare Dunkerque. La grande alleanza era sciolta; ma la dispersione dei coalizzati avvenne gradatamente, durante il seguito delle ostilità. Il principe Eugenio si preparò a infliggere un grande colpo al nemico: voleva marciare su Parigi per la valle dell'Oise. Tre linee di fortezza ne difendevano l'accesso; due furono superate nei primi mesi del 1712; il campo di Denain, sulle rive della Schelda, fu l'ultimo a resistere; ma un'abile manovra di Villars travolse gl'imperiali che, rottisi i ponti durante la fuga, rimasero in grande numero prigionieri, con 15 generali e 17 battaglioni (23 luglio). Denain risolse anche i Portoghesi a firmare un armistizio (7 novembre), poi il duca di Savoia (4 marzo 1713), e anche gli Olandesi si rassegnarono "a bere il calice della pace", che fu sottoscritta l'11 aprile 1713 a Utrecht, senza l'imperatore, ostinato nel continuare la guerra, sperando che la regina Anna d'Inghilterra, prossima a morire, avesse in Giorgio I un successore disposto a riprendere le armi. Una campagna vittoriosa per Villars, sul Reno, lo indusse a segnare la pace di Rastadt (7 marzo 1714), conclusa dopo 73 giorni di conferenza tra il Villars e il principe Eugenio. I trattati del 1713-14 furono, per la Spagna di Carlo V, quel che dovevano essere, per la Francia di Napoleone, i trattati di Vienna. Filippo V conservava la Spagna e le sue colonie; ma doveva cedere: 1. all'imperatore (che lo riconobbe re di Spagna solo nel 1725), il regno di Napoli, l'isola di Sardegna, i Presidî Toscani, il Milanese, i Paesi Bassi; 2. all'elettore del Brandeburgo, la Gheldria spagnola; 3. al duca di Savoia, la Sicilia; 4. agl'Inglesi, Gibilterra e Minorca, il diritto di traffico nel porto di Cadice, dove era concentrato il commercio coloniale, il monopolio del mercato dei Negri, e la facoltà d'inviare ogni anno una nave mercantile in ognuno dei grandi porti americani delle colonie spagnole. Il duca di Savoia, che acquistava, per la Sicilia, il titolo regio, ebbe dall'imperatore meno del convenuto nei patti del 1706, ossia il Monferrato, l'Alessandrino, Valenza, Lomellina e Sesia, e non fu da lui riconosciuto re di Sicilia; cedette alla Francia le vallate di Oulx e Fenestrelle, ed ebbe in cambio Barcellonetta, per confine verso Francia; il Piemonte ebbe la sommità delle Alpi.

I due trattati iniziarono una seconda dinastia borbonica, vietando l'unione delle due corone di Spagna e di Francia; stroncarono l'egemonia francese; affermarono il primato navale britannico assodandone l'azione anche sul Mediterraneo. Al predominio spagnolo in Italia si sostituì quello austriaco, bilanciato in parte dall'accresciuta potenza territoriale e marittima del Piemonte, nel quale Londra comincia a considerare lo stato capace di contenere le vecchie mire francesi e le nuove pretese austriache nella penisola, e atto a divenire un fedele strumento dell'espansione marittima inglese nel Mediterraneo.

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Guerra di successione di Polonia.

Si svolge per la corona elettiva del regno polacco, dopo la morte di Augusto II (1° febbraio 1733), ed è connessa con l'ascesa repentina della Russia che ora tende al Mar Nero, come, pochi anni prima, al Baltico; si accompagna a una nuova fase di lotta franco-asburgica in Occidente, essendosi l'Austria alleata con la Russia; onde l'Italia diventa il teatro principale della guerra, volendo la Francia colpire l'Austria nei suoi possessi al di qua delle Alpi; si chiude nel 1738, con la pace di Vienna.

Tre i candidati alla successione del trono di Varsavia: l'infante Emanuele del Portogallo, sostenuto dal re di Prussia, Federico Guglielmo I, che aspirava, per mezzo suo, alla cessione di Danzica e della Bassa Polonia; il figlio di Augusto II, l'elettore di Sassonia Augusto III, che si era assicurato l'appoggio di Vienna col riconoscimento della Prammatica Sanzione di Carlo VI, modo infallibile per avere l'amicizia dell'imperatore; e Stanislao Leszczyński, lo stesso che nel 1704 il re di Svezia Carlo XII, allora in lotta con Pietro il Grande di Russia, aveva fatto eleggere al posto di Augusto II, alleato dello zar, e che questi poi, vincitore a Poltava del re Svedese, aveva detronizzato (1709). Stanislao Leszczyński era suocero di Luigi XV, quindi, il candidato obbligato della Francia, poiché, diceva il d'Argenson, era necessario che la regina fosse figlia di un re, onde non si potesse dire che il sovrano di Parigi aveva sposato "une simple demoiselle". Ma la guerra a cui si esponeva Luigi XV non era solo ispirata da un sentimento di vanità dinastica: l'avere nell'Europa orientale un alleato che potesse, in caso di estremo pericolo, assalire alle spalle gli stati austriaci, era, per la Francia, una necessità, e anche una tradizione politica a partire dal sec. XVI. Invece, non era ancora apprezzata, nella corte di Versailles, l'amicizia della Russia, considerata troppo costosa per la venalità dei suoi ministri. A quante offerte di alleanza vennero da Mosca, la Francia oppose un rifiuto; e l'ultima volta fu nel 1732, ma per le inaccettabili pretese della zarina Anna Ivanovna (1730-1740) sulla Curlandia e sopra la città turca di Azov, in cambio dei suoi aiuti in favore di Stanislao. Respinta dalla Francia, si gettò verso l'Austria e concluse il trattato di Vienna (6 agosto 1732) che solidarizzava l'ambizione degli Asburgo e quella dei Romanov. Così il candidato antifrancese, divenne il favorito della lega austro-russa. La causa del principe del Portogallo fu presto abbandonata dal suo stesso protettore. Rimasero di fronte Augusto III e Stanislao Leszczyński. Con la convenzione di Varsavia (19 agosto 1733) le due corti imperiali s'impegnarono a fare eleggere il sassone con la forza delle baionette. Il periodo elettorale, a Varsavia, era già aperto. Gl'inviati francesi consacravano 3 milioni alla propaganda in favore di Stanislao, e gli creavano un forte partito; la dieta elettorale già ne decretava il successo, ponendo il principio che si dovesse eleggere un polacco, sposo ad una cattolica: il che escludeva, a priori, Augusto di Sassonia e procurava la nomina al suo rivale. Il 1° settembre 60.000 nobili polacchi diedero il voto a Stanislao contro 4000 che votarono per Augusto: il 12 settembre, Stanislao fu gridato re. Ma i dissidenti, guidati dal vescovo di Cracovia, passarono la Vistola, si accostarono ai 20.000 Russi già penetrati in Polonia, e fecero di guida ad essi per piombare insieme sopra Varsavia. Le leggi della repubblica accordavano due mesi per protestare contro l'elezione. Alla vigilia dell'ultimo giorno, giunti a Praga, proclamarono Augusto III. Stanislao rimasto con appena 8000 dei proprî fautori, inseguito dai Sassoni e dai Cosacchi, non trovando un centro di resistenza fidata, fu bloccato a Danzica, donde poté fuggire, travestito, dopo 6 mesi di assedio (febbraio-luglio 1734). Luigi XV aveva già presa la decisione di difendere militarmente il suo protetto e nell'ottobre 1733 aveva dichiarato la guerra all'Austria. L'onore del re francese domandava una riparazione; e l'opinione pubblica, a Parigi, fu con lui. Era contrario a forme aggressive il cardinale di Fleury, primo ministro e già precettore di Luigi XV; prudente e pacifico per natura, ancora più per i suoi 80 anni, non aspirava, diceva, "che il suo ministero diventasse un ministero storico". Il marchese di Chauvelin, suo segretario, teneva in cuore un suo piano di sistemazione dell'Italia, consistente nell'escludere totalmente dall'Italia gli Austriaci, formando nella penisola una confederazione di stati indipendenti sotto il protettorato della Francia e aggirantisi nell'orbita politica di Versailles. Perciò, nell'imminente guerra, vedeva l'opportunità di cancellare i trattati di Utrecht e di Rastadt che, sanzionando la preponderanza asburgica sull'Italia, erano giudicati un danno gravissimo per la monarchia. Né la Francia avrebbe potuto attaccare l'Austria nei Paesi Bassi, unica frontiera comune, senza correr il rischio di allarmare gl'Inglesi, nemico che bene conveniva non risvegliare. Il solo campo di battaglia possibile era l'Italia. E per giungervi facilmente, Luigi XV negoziò la cooperazione del re di Sardegna che solo poteva garentire ai Francesi il libero passaggio delle Alpi, un buon nerbo di truppe e la certezza della ritirata. Le mancate promesse dell'Austria che riteneva Vigevano contro i patti di Torino del 1706, l'ostilità del Piemonte verso Carlo VI che lo aveva privato della Sicilia, sostituita dalla Sardegna, agevolarono un'intesa tra Luigi XV e Carlo Emanuele III, concretata con la convenzione di Torino del 26 settembre 1733 che legava in alleanza offensiva e difensiva la Francia e la Sardegna, promettendo al sabaudo il reame di Lombardia e, se possibile, il Mantovano.

Poco dopo (25 ottobre 1733) veniva stipulato con il re di Spagna il trattato di Madrid, che impegnava il suo intervento con la promessa delle Due Sicilie per l'infante Carlo, primogenito di Elisabetta Farnese (moglie di Filippo V), e di Parma e Toscana per il suo secondogenito Filippo. Così l'Italia avrebbe sostituito, alla dominazione austriaca, sovranità locali. La Polonia era stata l'occasione della guerra: l'Italia ne diventava l'oggetto principale.

Quanto alla Russia, la sua distanza la rendeva invulnerabile ai colpi della Francia: questa tentò di raggiungerla attraverso i suoi nemici, Svezia e Turchia che, insieme con la Polonia, formavano la triplice barriera contro la quale era diretta la politica aggressiva di Mosca, nella sua marcia occidentale e mediterranea. Furono stretti amichevoli accordi: e la Francia poté contare sopra due altri buoni alleati, ancora sanguinanti per le recenti ferite loro inflitte dai Russi. Ma essi non entrarono in azione: tra Mosca e Versailles non ci fu dichiarazione di guerra; la zarina tenne a non alterare le simpatie francesi che riposavano nel fondo del suo cuore.

La guerra fu relativamente corta. Le operazioni non durarono che due anni, dall'ottobre 1733 all'ottobre 1735; ma furono condotte con molto vigore, sia lungo il Reno sia in Italia. Carlo VI fu battuto dovunque, nonostante i notevoli rinforzi dell'armata russa, e il concorso inglese di 6000 uomini, inviati da Giorgio II, neutro come re britannico, non come Elettore del Hannover, e di 6000 Prussiani, inviati da re Federico Guglielmo I come principe dell'impero. I Francesi occuparono la Lorena, ancora feudo imperiale. Con la presa di Kehl, di fronte a Strasburgo, e di Philipsbourg (luglio 1734) conquistarono una testa di ponte al dilà del Reno; ma non andarono oltre: la campagna in Germania ebbe uno scopo diversivo. Le azioni principali si svolsero in Italia.

I 40.000 Francesi che valicarono per cinque diversi passi le Alpi, erano comandati dal Villars, maresciallo generale: i suoi 80 anni non gl'impedivano di concepire grandi speranze sull'esito della campagna, che egli aveva dato certissimo al coetaneo Fleury con l'orgoglioso saluto: "Il re può disporre dell'Italia, vado a conquistargliela". Carlo Emanuele III si mise in marcia con i Franco-Sardi, il 28 ottobre. Il proclama di guerra che egli indirizzò ai Lombardi vibrava d'italianità e di patriottismo. Esso fu ricordato dai rivoluzionarî italiani del 1859, e fu caro ad essi, perché videro in questo episodio militare del sec. XVIII un anticipo della grande alleanza fra Cavour e Napoleone III. Il re sardo parlava della "libertà d'Italia", del "destino d'Italia", dell'oppressione austriaca minacciante l'intera Penisola, della sensibilità sabauda di fronte a questo pericolo nazionale. Carlo Emanuele III, il 29 ottobre, marciò sopra Vigevano e l'ebbe senza contrasto; Pavia gli mandò subito le chiavi della città. Il 3 novembre varcò il Ticino e s'incontrò con i deputati di Milano che gli presentarono le chiavi della città. Il governatore austriaco, conte Daun, povero di forze, chiesti invano a Vienna provvedimenti straordinarî, gettò 800 uomini in Novara, pochi nel castello di Milano, e si ridusse al Mincio con il rimanente delle forze. Il 4 novembre il re sardo entrò in Milano, nominò una reggenza, delegò all'assedio del castello il luogotenente generale Coigny, di là venne a Lodi e mosse contro Pizzighettone. Il 15 giunse al campo il Villars. Il 30 cadeva la fortezza, difesa dal principe di Lobkowitz. In un baleno il re sardo conquistava la Lombardia, mettendo l'assedio alle piazze forti, ultima Tortona, contrariamente alle vedute del Villars che voleva profittare della debolezza del nemico e prevenire l'arrivo dei suoi rinforzi correndo a chiudere le gole del Tirolo. Carlo Emanuele mirava ad assicurarsi integralmente il possesso del suo novello stato e insisteva sulle operazioni d'assedio. Egli era generalissimo, ed il suo volere prevalse. Il 10 dicembre rientrò in Milano; il castello capitolò il 2 gennaio 1734. Il re sardo prese il titolo di duca di Milano, e formò il primo reggimento di Lombardia, composto di forze paesane. Ma in potere del nemico rimaneva Mantova, in attesa di soccorsi. A questo punto, mentre l'impero franava disastrosamente nell'Italia superiore, si approfondì il dissenso nello stato maggiore franco-sardo circa lo sviluppo ulteriore della campagna. La questione politica, in dominio di oscuri maneggi diplomatici, intorbidò la soluzione del problema militare. Torino si ostinava a voler precisare in quale forma Madrid aderiva alla lega franco-sarda, e con quali clausole circa le sorti future di Mantova. Elisabetta Farnese si mostrava insaziabile, non le bastava il promesso, ambiva a portare don Filippo dagli Stati Parmensi fino alla linea del Mincio, accennava a volere per lui anche la Lombardia. Il re sardo, in queste condizioni, si rifiutava di prendere Mantova, non volendo ingrandire soverchiamente i Borbonici, temendo di esserne accerchiato e, quindi, costretto all'immobilità in avvenire. Frattanto, i collegati non agivano di conserto, ma separatamente, ognuno per i proprî fini. L'esercito spagnolo, forte di 30.000 soldati, era entrato in Toscana per il porto di Livorno, si univa con le forze dell'infante, provenienti da Parma e da Piacenza, e moveva alla conquista di Napoli, condotto dal conte di Montemar. Facile fu l'impresa di fronte alla debolissima resistenza delle poche truppe austriache rimaste a difendere le Due Sicilie, e il giovane don Carlos, favorito dalle buone disposizioni del popolo a ricevere un principe di origine spagnola, giunse acclamatissimo in Napoli il 15 maggio 1734, fatto segno a vive speranze di un regime restauratore e indipendente. Il corpo austriaco ritiratosi in Puglia e ingrossato a circa 8400 uomini con l'arrivo di truppe fresche da Trieste e dalla Sicilia, fu battuto dal Montemar il 25 maggio e disperso in disordinata fuga. Caddero poi Gaeta e Capua, difese, l'una dal conte di Tassembach, l'altra dal conte Taun; e parimenti facile fu la conquista della Sicilia, dove ultime a cadere furono le piazze di Siracusa e di Trapani. Don Carlos, per lo più, non fece che una comparsa puramente teatrale. Rimaneva ancora intatta la seconda parte dell'azione commessa al Montemar dalla regina di Spagna: la presa di Mantova, col concorso dei Franco-Sardi, affinché anche Madrid avesse diritto a interloquire sulla sua tanto contesa destinazione. Intanto il conte di Mercy era disceso dal Tirolo senza impedimento, aveva passato il Po a San Benedetto, contando di gettarsi sul Parmigiano per separare i Franco-Sardi dagli Spagnoli che avanzavano dal sud, e di rompere la coalizione, assalendo poi gli Spagnoli in Toscana per correre su Napoli: se questo piano non poté avere esecuzione, fu solo grazie alla battaglia di Parma del 29 giugno, in cui l'esercito imperiale subì una piena sconfitta, e perdette il Mercy.

A quello scontro non presero parte né il Villars che ottenne di essere sostituito, per il disaccordo con il re sardo, né quest'ultimo che dovette allontanarsi qualche giorno prima per la malattia della moglie Polissena. Giunse all'alba del giorno seguente, e diresse l'inseguimento degli Austriaci, e riprese Guastalla. Qui la battaglia fu ripresa, due mesi dopo, e con eguale effetto: impedito l'aggiramento dei Franco-Sardi e l'avanzata degl'Imperiali verso il centro della Penisola. Essi però conservavano la valle del Mincio e la fortezza di Mantova: ma Carlo Emanuele era deliberato a non lasciarla cadere in mano borbonica, preferendo piuttosto la conservazione dell'Austria in Italia. E l'Austria, sebbene ridotta a una situazione che il principe Eugenio, consigliere di pace, giudicava disperata, si mantenne ancora con un piede nella Penisola, salvata da questo antagonismo sabaudo-borbonico, che vietava alle due parti, momentaneamente collegate, di avere una superiorità decisa l'una sull'altra, temendosi che tale superiorità stimolasse a più ampî disegni politici. Nel 1735 la guerra languì e lasciò il passo alla diplomazia. L'Olanda esprimeva con insistenza la sua opinione: esser necessario per l'equilibrio d'Europa che l'Austria non uscisse dall'Italia. Londra non osteggiava questo principio. Ambedue le potenze marittime offersero mediazioni di pace sopra questa base. Ed ecco quale fu il piano proposto nel febbraio 1735: l'Austria avrebbe rinunziato alle Due Sicilie ed allo Stato dei Presidî in favore dell'infante Carlo ricevendo in cambio il dominio di Parma e Piacenza e l'aspettativa della successione di Toscana, dove stava per estinguersi, con Gian Gastone, la dinastia medicea, ad eccezione però di Livorno che sarebbe dichiarata città libera; Stanislao Leszczyński conserverebbe il titolo regio, abbandonando peraltro qualunque pretesa alla corona di Polonia assicurata al suo competitore sassone; Carlo Emanuele III riterrebbe le tre provincie milanesi di Novara, Tortona e Vigevano, restituendo all'imperatore il resto della Lombardia; Francia e Sardagna avrebbero riconosciuto la Prammatica Sanzione. Questo progetto, opera del ministro inglese Roberto Walpole, ebbe dovunque un'accoglienza molto ostile. In Francia fu unanime la rivolta dell'opinione pubblica. Essa ambiva a conservarsi la Lorena militarmente occupata. Grande rumore levò Elisabetta di Spagna, delusa nelle sue grandi ambizioni italiche. Scontento Carlo Emanuele III il quale domandò che gli fossero almeno aggiunte la provincia di Pavia, i feudi delle Langhe e il marchesato di Finale, specialmente quest'ultimo (già venduto dall'imperatore ai Genovesi) per avere una comunicazione diretta col mare. E non meno intransigente dei suoi nemici appariva l'Austria, ostinata nell'esigere l'alleanza dell'Inghilterra per proseguire insieme nelle operazioni di guerra. Il cardinale di Fleury, cogliendo l'opportunità che il re Giorgio II, nel discorso di apertura del parlamento, aveva palesato i termini della mediazione, in modo aperto li respinse. La campagna del 1735 proseguiva indecisamente; il duca di Montemar, venuto in Toscana, s'impadroniva dei Presidî e avanzava nel Modenese, a capo di 25.000 uomini, col proposito di cacciare gli Austriaci dalla riva destra del Po e di penetrare poi nel Mantovano. Il conte di Königseck, comandante gl'Imperiali, vistosi in pericolo di perdere le comunicazioni col Tirolo e con Vienna per la congiunzione degli Spagnoli coi Franco-Sardi, lasciò Mantova bene provvista e si ritirò oltre l'Adige, accampando nei monti del Trentino. All'esercito francese stava ora preposto, in cambio dei marescialli di Coigny e di Broglio, il duca di Noailles. La fortezza di Mantova poteva essere facilmente espugnata. Ma a chi sarebbe toccata poi? La corte di Madrid, non precisava ancora il suo pensiero circa il contrastato problema; Elisabetta ricusava di mettere le sue truppe sotto il comando di Carlo Emanuele III e pretendeva che don Carlos conducesse in persona l'assedio di Mantova. Il duca di Noailles, fatto proprio l'animo del re sardo, e secondo le intenzioni di Luigi XV, mandò in lungo l'impresa di Mantova. Frattanto giungevano lungo il Reno le legioni russe e dal Tirolo potevano scendere rinforzi, lungamente attesi dal conte di Königseck. Allora il duca di Montemar accennò a ritirarsi in Toscana, per lasciare che i Franco-Sardi ricevessero dal nemico, fatto più forte, i colpi che essi non gli avevano inflitto quando era più debole. Le trattative diplomatiche avevano ripreso la discussione della pace, ma non per la via di Londra. Incominciava a formarsi l'opinione, nella corte di Vienna, che la vecchia rivalità franco-asburgica aveva passato i limiti assegnati ad essa dalle circostanze politiche dell'Europa; e che era necessario seminare fino da questo momento per un accordo futuro. Infatti, nel luglio del 1735, mentre le naturali resistenze di Mantova accennavano a cedere anche contro la buona volontà dei Franco-Sardi di tenerla in piedi, l'imperatore scrisse direttamente al cardinale Fleury, proponendogli di porre termine alla rivalità secolare della Francia e dell'Austria e di venire a un accordo duraturo. Il ministro accolse l'invito e segretamente fu negoziata la pace tra le corti di Vienna e di Versailles, a insaputa dello Chauvelin e fra le tacite mura di un convento di Vienna, dove s'incontrarono un agente del cardinale, La Baune, e due ministri dell'imperatore, Sinzendorf e Bartenstein. Essì ripresero le convenzioni che il Walpole voleva proporre pochi mesi addietro, passando sopra al trattato franco-sardo del 1733 che impegnava la Francia "a non cessare la guerra se non dopo avere procurato al re di Sardegna il possesso effettivo dello stato di Milano". Invece i preliminari di Vienna assegnavano la Lombardia col Mantovano e il ducato di Parma all'Austria, meno due provincie da cedersi a Carlo Emanuele III; la Lorena, in vitalizio a Stanislao Leszczyński appena fosse lasciata libera dal duca attuale, Francesco, per ricadere alla Francia dopo la morte del Leszczyński, ed a Francesco la Toscana, come equivalente della Lorena, alla morte di Gian Gastone; Luigi XV avrebbe riconosciuto la Prammatica Sanzione, e Augusto III come re di Polonia. Questi i preliminari di Vienna, sottoscritti il 3 ottobre 1735. Poco dopo, da Parigi e da Vienna giungeva al campo degli alleati e al comandante austriaco Kevenhüller l'ordine di sospendere le ostilità e di stipulare un armistizio, segnato a Mantova il 1° dicembre. La notizia dell'avvenuto accordo tra Francia ed Austria suscitò un immenso stupore in tutta l'Europa impreparata a considerare come un fatto normale l'orientamento nuovissimo che veniva prendendo la politica estera di Versailles in relazione all'impero. Grande lo strepito di Madrid, poiché Elisabetta non si rassegnava alla rinuncia del suo piano di egemonia borbonica in Italia. E solo le minacce sempre più incalzanti della Francia di unire le sue forze a quelle dell'Austria per costringerla a sottomettersi, la indussero, nel febbraio del 1736, ad accedere ai preliminari di Vienna. Carlo Emanuele fece di necessità virtù. Ma le maggiori difficoltà vennero proprio dalla Francia, dove molti osservarono che le clausole poste alla successione francese della Lorena non la svincolavano totalmente dalle sorprese che le poteva giocare il caso. E Fleury, tenendo conto di queste preoccupazioni, tentò di anticipare la data della cessione loronese, e di ottenere che questa non fosse legata alla morte di Gian Gastone de' Medici. L'Austria puntò i piedi e fece assumere all'armata d'Italia un atteggiamento allarmante. Nel gennaio 1736 Fleury, che aveva messo in disparte lo Chauvelin, partigiano della guerra all'Austria quasi fino all'ultimo sangue, gli affidò la decisione della controversia. Non bastò un anno di discussioni per dare partita vinta allo Chauvelin. Questi dovette intimare a Vienna che la Francia non abbandonerebbe le piazze forti di Philipsbourg, Kehl, Treviri, ancora in mano sua, se la Lorena non fosse immediatamente assegnata a Stanislao. Allora ne fu steso l'atto speciale, che sanciva la piena separazione dalla Germania della contestata provincia (15 febbraio 1737). Il trattato di pace definitivo fu concluso il 18 novembre 1738, e fu il secondo trattato di Vienna: Stanislao Leszczyński rinunciava alla Polonia, ma conservava il titolo di re. In compenso del reame perduto riceveva Nancy, il ducato di Lorena e la contea di Bar, tolte al duca Francesco di Lorena, sposatosi recentemente con Maria Teresa, la figlia di Carlo VI. Alla morte di Stanislao, ducato e contea passerebbero al re di Francia. Carlo VI cedeva Napoli e la Sicilia a Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta e di Filippo e già duca di Parma; il nuovo re delle Due Sicilie abbandonava all'Austria Parma e Piacenza che venivano unite alla Lombardia; Francesco di Lorena, in compenso della perdita del suo ducato, s'insediava nel granducato di Toscana rimasto vacante il 9 luglio 1737 per l'estinzione dell'ultimo Medici. Carlo Emanuele III riceveva i territorî di Novara e di Tortona, allargandosi fino al Ticino, i feudi delle Langhe e le quattro terre di S. Fedele, Torre di Torti, Gravedo e Campo Maggiore. La Francia aderiva alla Prammatica Sanzione e si rendeva garante della sua esecuzione. In complesso, il nuovo trattato iniziava una terza dinastia borbonica, ricostituendo nell'Italia meridionale uno stato indipendente; in Polonia sostituiva l'influenza russa a quella francese; ma sanzionava il successo degli avversari degli Asburgo in Occidente; completava l'unità francese lungo la frontiera orientale; indeboliva l'impero; riaffermava, sia pur timidamente, l'importanza di Casa Savoia, entrata nella vita europea per fini dinastici e nazionali, che essa incomincia ad attuare, con piccole ma periodiche annessioni di terre lombarde.

Bibl.: L. Chodzko, La Pologne historique, Parigi 1839-41; Guerrier, La guerra di successione di Polonia (in russo), Mosca 1862; R. de Flassan, Histoire... de la diplomatie française, V, Parigi 1811; C. P. Pajol, Les guerres sous Louis XV, ivi 1881-1887; D. Carutti, Storia della diplomazia della corte di Savoia, IV, Torino 1880; A. Vandal, Guerre de la succession de Pologne, in Lavisse-Ramband, Le XVIIIe siècle, VII; E. Robiony, Gli ultimi Medici e la successione al granducato di Toscana, Firenze 1905; M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napoli 1908; J. Aulneau, Histoire de l'Europe centrale, Parigi 1926; H. Bédarida, Parme dans la politique française au XVIIIe siècle, ivi 1930.

Guerra di successione d'Austria.

Fu determinata dallo spegnersi della famiglia d'Asburgo regnante negli stati d'Austria e nell'impero, il 1740, con la morte dell'ultimo rappresentante maschio della stirpe, Carlo VI. Questi aveva provvisto alla successione fino dal 1713 con la Prammatica Sanzione: gli stati erano dichiarati uniti in perpetuo e indivisibili; la successione riconosciuta anche alla femmine, mancando i maschi. La legge fu proclamata solo nel 1724, dopo il riconoscimento degli stati provinciali. E Carlo VI, non avendo speranza di eredi maschi, dichiarò erede la sua primogenita Maria Teresa (nata nel 1717), a danno delle figlie del fratello maggiore e suo predecessore, Giuseppe I: Maria Giuseppa sposata ad Augusto di Sassonia (1719), e Maria Amelia, sposata all'Elettore di Baviera, Carlo Alberto (1722).

Le potenze europee mercanteggiarono a lungo il riconoscimento della Prammatica Sanzione, costringendo l'imperatore a cedere sulle varie questioni europee, dibattutesi fra il 1715 ed il 1740. Il primo ad aderirvi fu Federico Guglielmo, re di Prussia, nel 1728, ottenendo vaghe promesse per il ducato di Berg; nel 1731, l'Inghilterra acconsentì, ma a condizione che Maria Teresa d'Asburgo non sposasse un principe né della casa borbonica né di altra dinastia potente e pericolosa per l'equilibrio europeo, mentre la Spagna progettava appunto di ricostruire, mediante il matrimonio di Maria Teresa e di don Carlos, primogenito di Elisabetta Farnese, l'impero di Carlo V. L'ostilità della Francia andò crescendo, specie quando la principessa austriaca fu destinata a Francesco Stefano, duca di Lorena, la quale regione, riunita così agli stati austriaci, sarebbe stata definitivamente perduta per le ambizioni francesi. Solo nel 1738, alla pace di Vienna, Carlo VI era riuscito ad ottenere il consenso franco-spagnolo, facendo le maggiori concessioni così su Parma e Piacenza, come sulla Lorena, rispettivamente a Filippo di Borbone e a Luigi XV.

La responsabilità di avere riaperta la questione austriaca, alla morte di Carlo VI (20 ottobre 1740), spetta al re di Prussia, Federico II, da pochi mesi successo al padre (31 maggio 1740). Giudicando che nulla in pratica la Prussia avesse ottenuto, egli volle cogliere l'occasione propizia: l'Austria, dopo le due guerre degli anni precedenti, la polacca e la turca, era stremata di forze e incapace di sostenere un conflitto; anche le potenze europee erano impreparate. Mentre dunque l'ambasciatore prussiano a Vienna chiedeva a Maria Teresa la cessione della Slesia in cambio della garanzia della Prammatica Sanzione e dell'appoggio a Francesco di Lorena nell'elezione imperiale, Federico, con agguerrito esercito, passò la frontiera e invase la Slesia (16 dicembre 1740). Maria Teresa, sdegnata, sperando nelle potenze garanti, rifiutò di trattare. Federico II agì allora diplomaticamente presso i varî governi: incoraggiò l'Elettore di Baviera ad affermare i diritti che vantava per il suo matrimonio con Maria Amelia, figlia del predecessore di Carlo VI, Giuseppe I; cercò un'intesa con la Francia, dove un vivace partito spingeva Luigi XV e il suo ministro, il cardinale Fleury, alla vecchia politica antiaustriaca, progettando di smembrare gli stati asburgici a favore di Baviera, Sassonia e Prussia, sì da assicurare l'egemonia francese sulla Germania intera e sull'Europa.

Riuscì tuttavia a Federico II di avere alleati solo dopo la faticosa e cruenta vittoria riportata a Mollwitz sull'esercito austriaco del Neipperg (10 aprile 1741). Col trattato di Breslavia (5 giugno 1741), Luigi XV s'impegnò a riconoscere alla Prussia il possesso della Bassa Slesia, a spingere la Svezia contro la Russia austrofila: l'Elettore bavarese divenne ora il candidato delle due potenze all'impero. Già la Spagna si era, il 28 maggio, accordata con la Baviera (trattato di Nymphenburg) per assicurarsi l'acquisto della Lombardia, nella sperata spartizione, con la Baviera, dei possessi asburgici. Così, mentre Federico II, il 7 agosto, entrava solennemente in Breslavia, l'esercito francese sotto il maresciallo Belleisle il capo del partito antiaustriaco, attraversava il Reno e si univa ai Bavaresi che entrarono in Austria. Contemporaneamente, la Svezia, spinta dalla Francia, dichiarava guerra alla Russia. Anche la Sassonia, col trattato di Francoforte (19 settembre 1741), aderì alla Baviera, dietro promessa della Moravia e dell'Alta Slesia; e il Piemonte, a sua volta, sembrava appoggiare la Francia, nella speranza di partecipare allo smembramento dell'Austria occupando la Lombardia. Maria Teresa si trovò così circondata da nemici. Condizioni adunque disperate, che misero in evidenza l'energia e la fermezza della principessa asburgica. Solo l'Inghilterra assisteva amichevolmente Maria Teresa, promettendo un sussidio: 300.000 sterline l'anno. Così pure la Porta respinse le insistenti richieste francesi di riattaccare l'Austria. Infine l'Ungheria, avuta la riconferma dei vecchi diritti, sostenne lealmente la sua regina.

Maria Teresa, decisa a difendersi, trattò, per guadagnar tempo, con Federico II, e col trattato segreto di Kleinschnellendorf gli promise la cessione della Bassa Slesia (9 ottobre 1741). Il maresciallo Neipperg poté allora, senza inquietudine, abbandonare la Slesia e correre a parare i colpi dei Franco-Bavaresi, giunti a poche decine di chilometri da Vienna. Il nemico, respinto dalla capitale, entrò in Boemia e occupò Praga (25 novembre), ove Carlo Alberto di Baviera fu proclamato re (7 dicembre). Sotto l'impressione di tali avvenimenti, la dieta dell'impero, a sua volta, lo proclamò imperatore (24 gennaio 1742); un mese più tardi Carlo (Alberto) VII fu incoronato in Francoforte (22 febbraio). La situazione di Maria Teresa venne ancora aggravata dalla rivoluzione di Pietroburgo, che portò al governo Elisabetta Romanov, avversa all'Austria. Federico II, non tardò a rompere l'accordo conchiuso, intendendosi con l'Elettore bavarese (4 novembre 1741). Ma la situazione migliorò nella primavera del 1742, allorché un nuovo esercito austriaco, sotto il maresciallo Khevenhüller, abile condottiero, spinto dalla calda parola della regina, rioccupò Linz e Passavia. Subito dopo, la Baviera venne invasa, e Monaco stessa occupata. Allora Federico II, temendo un accordo austro-francese a suo danno, si riaccostò a Maria Teresa, la costrinse a lasciare le sue esitazioni, e a trattare, sconfiggendo a Chotusitz l'esercito di Carlo di Lorena. I preliminari di pace furono firmati a Breslavia l'11 giugno; il trattato a Berlino il 28 luglio. Anche l'Elettore di Sassonia, per paura di Federico II, si decise a intendersi con Maria Teresa. L'esercito francese, allora, minacciato di blocco in Praga, fu costretto a una penosa ritirata verso il Reno. Le proposte francesi furono respinte da Maria Teresa, poiché questa intendeva indennizzarsi sulla Baviera della dolorosa rinuncia alla Slesia. Anche in Italia gli avvenimenti presero nel 1742 un corso favorevole all'Austria. Carlo Emanuele III, dapprima aderente al blocco antiaustriaco, s'impaurì delle intenzioni spagnole sulla Lombardia, specie dopo lo sbarco di un esercito sotto il duca di Montemar, cui si unirono le forze napoletane di Carlo III. Si accordò allora con Maria Teresa, impegnandosi a difendere Milano dai Borboni con riserva dei proprî diritti. Poi, fece regolare alleanza. Mentre forze franco-spagnole minacciavano la Savoia, l'esercito sardo occupò Parma, cacciò da Modena il duca favorevole alla Francia, e a Camposanto sul Panaro, insieme con forze austriache, batté gli Spagnoli del Gages (8 febbraio 1743), mentre una flotta inglese costringeva il re di Napoli a rientrare nella neutralità.

La situazione di Maria Teresa migliorò ancor più nel 1743. L'Inghilterra, stanca della politica prudente del Walpole e dei suoi aiuti coperti a Maria Teresa, passò col governo di lord Carteret a una politica più energica, diretta non contro la Prussia, ma contro le velleità egemoniche della Francia. Il sussidio annuo a Maria Teresa fu portato a 500.000 sterline; furono votati dalla Camera ampî fondi per la guerra; la diplomazia inglese intervenne attivamente a Pietroburgo in senso antifrancese, spinse l'Olanda contro la Francia, iniziò trattative a Berlino, cercò di concretare accordi fra Torino e Vienna. Nel marzo del 1743, Giorgio II con un esercito d'Inglesi, Hannoveriani, Assiani, Austriaci (l'armée pragmatique), si avanzò dai Paesi Bassi austriaci sul Reno, marciò su Francoforte e costrinse i Francesi del generale Noailles a ritirarsi dalla linea dell'Isar. I Bavaresi, rimasti soli, non poterono ostacolare l'avanzata austriaca; e a Niederschönfeld (27 giugno 1743), firmarono un impegno di separarsi dai Francesi e di rimanere nella neutralità. Quello stesso giorno, gl'Inglesi battevano il generale Noailles a Dettingen. E a Vienna già si progettava di occupare la Lorena, l'Alsazia, la Borgogna, per darle all'Elettore bavarese, in cambio della Baviera, che avrebbe ricompensato Maria Teresa della perdita della Slesia. Così la Francia avrebbe fatto le spese della guerra. Nell'estate del 1743 i diplomatici inglesi portavano a compimento l'intesa austro-sarda: a Worms fu firmato il trattato (14 settembre). Maria Teresa prometteva a Carlo Emanuele III la concessione di Vigevano e dei territorî sulla destra del Ticino e del Lago Maggiore; a sud del Po, Bobbio e Piacenza; sulla Riviera, il marchesato di Finale. In cambio, il re riconosceva la Prammatica Sanzione, rinunciava a far valere i suoi diritti su Milano, s'impegnava coi sussidî finanziarî inglesi a tenere in armi 45.000 uomini.

La Francia, che dopo la morte del cardinale Fleury (29 gennaio 1743) era più che mai dominata dalle tendenze bellicose, rispose al trattato di Worms stringendo con la Spagna un nuovo Patto di famiglia, diretto a dare a Filippo di Borbone, secondogenito di Elisabetta Farnese, tutto il Milanese, oltre a Parma e Piacenza (trattato di Fontainebleau, 25 ottobre 1743); riconoscendo apertamente lo Stuart che pretendeva al trono inglese e dichiarando guerra al regno di Sardegna, all'Inghilterra (15 marzo 1744) e, anche formalmente, all'Austria (26 aprile 1744), dato che, fino allora, gli eserciti francesi per tre anni avevano combattuto contro Maria Teresa, come dipendenti da Carlo VII. Anche Federico II fu inquietato dalla notizia del trattato di Worms, che credette rivolto contro di lui. Per qualche tempo, egli era rimasto ad osservare l'atteggiamento dei varî governi. Ma quando l'Inghilterra cominciò ad agire energicamente con le armi e la diplomazia, egli, temendo un trionfo completo di Maria Teresa sulla Baviera e sulla Francia, intervenne a Londra per essere assicurato sulle intenzioni di quel governo e sul programma dell'armée pragmatique; lavorò, sebbene inutilmente, per conciliare Maria Teresa con Carlo VII; s'intese con Elisabetta di Russia; cercò di formare una lega di principi tedeschi a favore della Baviera. Dopo Worms, temette una ripresa attiva degli Austriaci in Slesia: e allora si riaccostò alla Francia, stipulando con Luigi XV formale alleanza (5 giugno 1744). I Paesi Bassi austriaci sarebbero stati assaliti dalla Francia con grandi forze; la Boemia, dai Prussiani, con diritto a compensi territoriali locali. Si sferrò allora un violento attacco all'Austria: solo mancò la necessaria contemporaneità nelle operazioni militari. Un esercito franco-ispano, occupata Nizza, attraverso le Alpi, respinse in Val di Stura, a Madonna dell'Olmo, le forze di Carlo Emanuele III, e cercò d'impadronirsi di Cuneo. Fallito l'assedio, per la difesa del Lautrun, l'esercito dovette ritirarsi (22 ottobre 1744). Nei Paesi Bassi, i Francesi, sotto il Noailles e Maurizio di Sassonia, occuparono Courtrai (18 maggio), Ypres (25 giugno), Furnes (11 luglio), Dixmunde e altre città; ma furono costretti a fermarsi, quando l'esercito austriaco di Carlo di Lorena attraversò il Reno e invase l'Alsazia, costringendo Luigi XV ad accorrere a Metz per fermare l'invasione. In Italia, il generale austriaco Lobkowitz, dopo aver costretto gl'Ispano-Napoletani alla ritirata su Napoli, si lasciò sorprendere a Velletri (10 agosto 1744); battuto, si ritirò a nord, nelle Marche. Solo nel settembre, Federico II entrò in Boemia e occupò Praga. Carlo di Lorena fu allora costretto a rinunciare alla penetrazione in Francia; ma, ricomparso in Baviera, riuscì a minacciare l'esercito prussiano e ad obbligarlo a ritirarsi da Praga. Al principio del 1745, la situazione era dunque, complessivamente, favorevole alla tenace Maria Teresa. Le relazioni delle due alleate Francia-Prussia, poco buone. A Versailles, scomparsi i due capi del partito della guerra, con la morte della favorita del re, la duchessa di Chateauroux (8 dicembre 1744) e la cattura in Germania del maresciallo Belleisle. A Pietroburgo, la diplomazia austro-inglese riconquistava la zarina Elisabetta. In Baviera, mentre gli Austriaci erano in gran parte padroni del paese, Carlo VII moriva il 20 gennaio 1745, e il nuovo elettore, Massimiliano Giuseppe, inesperto, subiva l'influsso di quanti volevano la pace, accettava la mediazione inglese che lo riaccordò con Maria Teresa, riconosceva la Prammatica Sanzione, rinunciava a tutte le pretese, pur di avere integra la Baviera (trattato di Füssen, 22 aprile 1745).

La Francia, nonostante gl'insuccessi, riprese la lotta con la maggiore attività, mirando ai Paesi Bassi austriaci e all'Italia. Un nuovo alleato trovò nella repubblica di Genova, che, irritata contro il Piemonte e contro l'Austria per la minaccia al suo possesso del Finale, pur essendo apparentemente neutrale, aderì all'alleanza franco-spagnola col trattato di Aranjuez (7 maggio 1745). Con l'aiuto dei Genovesi, due eserciti franco-spagnoli del Maillebois e del Gages entrarono dalla Riviera in Piemonte, batterono gli Austro-piemontesi a Bassignana (28 settembre), occuparono successivamente Tortona, Piacenza, Parma, Pavia, poi Alessandria, Asti, Casale, mentre Filippo di Borbone entrava finalmente in Milano, il 19 dicembre 1745. Carlo Emanuele III, isolato completamente, si rassegnò ad accordarsi con la Francia coi preliminari di Torino (25 dicembre). Il governo francese voleva eliminare completamente la dominazione austriaca dalla Penisola e parlava di dare Milano e i territorî lombardi a nord del Po al Piemonte, dividere i territorî a sud fra Piemonte, Genova, Parma, Modena, riunire in confederazione i principi italiani e averli alla propria mercé. Anche nei Paesi Bassi, la Francia si affermava energicamente. Il valente maresciallo Maurizio di Sassonia vinse gli Anglo-Olandesi a Fontenay (11 maggio 1745) ed occupò Tournai (22 maggio), Gand (10 luglio), Bruges (18 luglio), Oudenarde (21 luglio), Ostenda (23 luglio). Per minacciare l'Inghilterra e costringerla a pensare a sé, i Francesi organizzarono nell'estate del 1745 lo sbarco di Carlo Edoardo Stuart in Scozia (4 agosto).

Ma in Germania l'influsso francese era ormai quasi annullato. L'esercito del principe Conti venne respinto sul Reno dagli Austriaci; il tentativo di contrapporre a Maria Teresa l'Elettore di Sassonia pure fallì; la dieta di Francoforte riconobbe imperatore, il 15 settembre 1745, il marito di Maria Teresa. Solo Federico II riaffermava il suo prestigio, vincendo gli Austriaci ad Hohenfriedeberg (4 giugno 1745). Intanto l'Inghilterra, minacciata dallo Stuart, cercava di riconciliare ancora una volta Maria Teresa e Federico II. E quest'ultimo acconsentì a riconoscere il nuovo imperatore Francesco di Lorena. Ma l'altra non si piegò. Essa infatti, dopo la scomparsa del rivale di Baviera, era propensa a trattare con la Francia, per isolare il re di Prussia e costringerlo a restituire la Slesia. Federico II ritornò allora a combattere: vinse gli Austriaci in Boemia; invase la Sassonia, alleatasi all'Austria per timore di un accerchiamento prussiano; vinse a Kesselsdorf (15 dicembre), occupò Lipsia e Dresda. Così ottenne il suo scopo: Maria Teresa rinunciò alla Slesia e fece pace (trattato di Dresda, 25 dicembre 1745).

Il conflitto, così, veniva semplificato: la Francia, appoggiata da Spagna, Napoli, Genova; l'Austria, alleata del regno di Sardegna, Inghilterra, Olanda. Lo sbarco dello Stuart determinò nell'autunno del 1745 una generale sollevazione degli Scozzesi e causò terribile panico a Londra. Ma tutto poi sfumò con la battaglia di Culloden (16 aprile 1746). Sola conseguenza fu la possibilità offerta a Maurizio di Sassonia di allargare l'occupazione dei Paesi Bassi austriaci, vincendo un esercito austriaco a Rocoux nel settembre e minacciando l'Olanda. In compenso, Carlo Emanuele III riprendeva le armi d'accordo con Maria Teresa. Si ebbe allora la rioccupazione di Asti l'8 marzo 1746, la cacciata dei Franco-Ispani dal Piemonte e dalla Lombardia, la vittoriosa battaglia di Piacenza (16 giugno) che ricacciava l'esercito nemico su Genova. In questo momento veniva a morte Filippo V re di Spagna (9 luglio) e il successore Ferdinando VI inclinava alla pace e al ritiro delle sue genti dall'Italia. Gli Austro-sardi incalzando il nemico scendevano in Riviera, e qui il maresciallo Botta-Adorno occupò il 7 settembre Genova, Carlo Emanuele III bloccò Savona, prese il Finale e inseguì sino al Varo i Franco-Ispani. Genova subì tre mesi di dura occupazione austriaca; ma se ne liberò con una violenta insurrezione popolare, accortamente diretta dagli uomini di governo (5-10 dicembre 1746). Carlo Emanuele III riuscì invece a occupare Savona (18 dicembre). Da Vienna, si chiedeva una spedizione su Napoli per cacciare anche di là i Borboni. Ma l'Inghilterra non voleva un sopravvento assoluto dell'Austria in Italia. S'invase invece la Provenza, per occupare il porto militare di Tolone e costringere la Francia a fermare le sue operazioni nei Paesi Bassi. Le forze austro-sarde si avanzarono sino ad Antibes, poi si ritirarono (febbraio 1747).

Nell'autunno del 1746, inizio delle trattative di pace tra Francia, Inghilterra, Olanda. La Francia, per influire sulle discussioni, mentre trattava in Germania per risvegliare un'opposizione a Maria Teresa, spedì un esercito contro l'Olanda e fece occupare Maastricht. Anche in Italia nuove forze francesi cercarono di penetrare in Piemonte, per costringere Carlo Emanuele III a pace separata: ma furono vittoriosamente respinti al Colle dell'Assietta (19 luglio 1747: v. assietta). La minaccia francese determinò nuovi provvedimenti degli avversarî. In Olanda, Guglielmo IV d'Orange-Nassau era proclamato statolder (25 aprile 1747), creato governatore generale e grande ammiraglio della repubblica (4 maggio): dignità che nell'ottobre fu dichiarata perpetua ed ereditaria. Il 30 novembre, Inghilterra e Olanda si procuravano l'alleanza della Russia. Il 26 gennaio 1748, Austria, Inghilterra, Sardegna, Olanda stringevano un patto per la ripresa della guerra. La Francia allora cedette e acconsentì alla pace. L'11 aprile 1748 s'iniziarono le discussioni ad Aquisgrana; il 30 aprile si firmarono i preliminari; il 30 ottobre, il trattato definitivo (v. aquisgrana, III, p. 816).

Fonti: Die Kriege Friedrichs des Grossen, ed. dal Grosser Generalstab, parti I e II, voll. 3, Berlino 1890-95; Die Kriege unter der Regierung der Kaiserin-Königin Maria Theresia (Der österreichische Erbfolgekrieg 1740-48), ed. dalla direzione del K.u.K. Kriegsarchiv, voll. 7, Vienna 1896-1903. Cfr., inoltre: Øuvres de Frédéric le Grand, II e III, Berlino 1864 (per la prima redazione dell'Histoire de mon temps, Publikationen aus den k. preussischen Staatsarchiven, IV, Lipsia 1879); Politische Korrespondenz Friedrichs des Grossen, I-IV, Berlino 1874; F. E. de Vaulte, Guerre de la succession d'Autriche. Mémoire extrait de la correspondance de la cour et des généraux, a cura di P. Anvers, voll. 2, Parigi 1892. Il testo della Prammatica Sanzione in G. Turba, Die Pragmatische Sanktion, Autentische Texte samt Erläuterungen u. Übersetzungen, Vienna 1913.

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Di carattere particolare: A. Wolf, Die Geschichte d. pragmatischen Sanktion bis 1740, Vienna 1850; Fournier, Zur Gesch. d. pragmat. Sanktion, in Hist. Zeitschrift, XXXVIII (1877); K. Th. Heigel, Der österr. Erbfolgestreit u. die Kaiserwahl Karls VII., Nördlingen 1877; D. Droysen, Friedrichs d. G. politische Stellung im Anfang d. schles. Krieges, in Abhandl. z. neueren Gesch., Lipsia 1876; C. Grünhagen, Gesch. des ersten schlesischen Krieges, voll. 2, Gotha 1881; A. de Broglie, Histoire de la politique extérieure de Louis XV, Parigi 1883; id., Le cardinal Fleury et la Pragmatique Sanction, in Revue Historique, XX (1882); F. Crousse, La guerre de la succession d'Autriche dans les provinces belges, Bruxelles 1885; P. Karge, Die russisch-österreichische Allianz von 1476 u. ihre Vorgeschichte, Gottinga 1887; H. Santai, Les préliminaires de la guerre de la succession d'Autriche, Parigi 1907; id., Les débuts de la guerre de la succession d'Autriche, I, ivi 1909; R. Becker, Der Dresdener Friede und die Politik Brühls, Lipsia 1902. Sui suoi riflessi in Italia: D'Agliano, Memorie storiche sulla guerra del Piemonte dal 1742 al 1747, Torino 1840; D. Carutti, Storia della diplomazia della Corte di Savoia, ivi 1876; id., Storia di Carlo Emanuele III, ivi 1859; E. Ricotti, Storia della monarchia piemontese, Firenze 1869; H. Moris, Opérations militaires dans les Alpes et les Apennins pendant la guerre de la succession d'Autriche, Parigi 1886; C. Buffa di Perrero, Carlo Emanuele III di Savoia a difesa delle Alpi, Torino 1888 V. E. Dabormida, La battaglia dell'Assietta, studio storico, Roma 1891; E. Pandiani, La cacciata degli Austriaci da Genova nel 1746, in Miscellanea di storia italiana, LI, Torino 1924; S. Wilkinson, The defence of Piedmont 1742-48, Oxford 1927. V. anche federico ii di prussia: Bibl.