PAGANI, Gregorio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)

PAGANI, Gregorio (Goro). – Figlio del pittore Francesco di Gregorio e di Elena Crocini, nacque a Firenze il 14 luglio 1559 (Firenze, Archivio dell’Opera del duomo, Registro dei battezzati maschi, 1558-59, lettera G, c. 232 r, presso S. Pier Maggiore) e non nel 1558, come finora sostenuto sulle orme della biografia contenuta nelle Notizie di Filippo Baldinucci ([1681-1728: cui si fa riferimento ove non diversamente indicato], III, pp. 34-55)

Novella Barbolani di Montauto

Assai  scarse le notizie sulla vita e le opere del padre Francesco, dotato, come il figlio, di una biografia di Baldinucci (II, pp. 465-467). Nato intorno al 1531, probabilmente a Firenze e formatosi tra Firenze e Roma sulle opere di Polidoro da Caravaggio e Maturino, dopo un soggiorno romano tornò a Firenze nel 1552. Nel 1553 realizzò l’opera, oggi perduta, per cui è principalmente noto: gli affreschi in chiaroscuro con scene di storia romana e fregi con trofei, sulle tre facciate del palazzo Ricasoli alla Carraia, commissionati da Giovan Battista Ricasoli, all’epoca vescovo di Cortona (Bocchi - Cinelli, 1677; Thiem, 1964). Benché le fonti ricordino il giudizio positivo del Pontormo, tali affreschi, condotti sugli esempi romani di Polidoro, furono giudicati opera mediocre da Vincenzo Borghini al momento di allestire gli apparati per le nozze di Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria (1565). Già molto danneggiate ai tempi di Francesco Bocchi, le decorazioni sono ricordate da Baldinucci come quasi del tutto perdute. Una traccia della maniera del pittore e dei temi all’antica dipinti, tuttavia, è offerta da alcuni disegni del Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi (tra cui i 17587F, 17588F, 111Orn). Ammalatosi mentre si trovava a Castelfiorentino, Francesco morì a Firenze nel 1561.

Le ‘notizie’ sulla vita di Gregorio Pagani sono, diversamente da quelle riguardanti il padre, particolarmente ricche e attendibili poiché Baldinucci si procurò le informazioni da Matteo Rosselli, allievo prediletto di Pagani e maestro di pittura e disegno del medesimo Baldinucci. In esse si menzionano un numero rilevante di opere e si tramandano pertinenti dati biografici, oggi confermati per la maggior parte da documenti, raccolti a partire dalla imprescindibile monografia di Thiem (1970), alla quale si rimanda per la documentazione citata quando non diversamente indicato.

Orfano del padre, l’educazione di Gregorio fu affidata agli amici di famiglia tra cui il pittore Maso da San Friano e il senatore fiorentino Bernardo Vecchietti, suo padrino, che lo orientò alla pittura, destinandolo alla bottega di Santi di Tito. Qui Pagani incontrò Lodovico Cardi (il Cigoli), con il quale instaurò un rapporto amicale e condivise, negli ultimi due decenni del Cinquecento, il ruolo di riformatore della pittura fiorentina.

Nel 1576 venne accolto nell’Accademia del disegno per cui eseguì nel 1578 un dipinto, non rintracciato, con il Sacrificio di Noè. Nell’istituzione fiorentina, oltre a pagare regolarmente le tasse, fu eletto accademico nel 1594 e ricoprì vari incarichi fino al 1602 (Thiem, 1970, docc. 1-5, 7-15, 18, 20; Zangheri, 2000). Nella bottega di Santi di Tito acquisì esperienza nel disegnare dal naturale, come testimonia il suo cospicuo corpus grafico (Thiem, 1970 e 1977), e insieme al Cigoli, come già intese Baldinucci (III, p. 240), sperimentò un nuovo «modo di colorire naturale e vero», sollecitato soprattutto dallo studio della Madonna del popolo di Federico Barocci giunta nella pieve di S. Maria ad Arezzo nel 1579, e meta di un viaggio che i due artisti fecero insieme. Del vivace cromatismo della pala aretina risente la prima opera a oggi nota di Pagani, la lunetta ad affresco nel chiostro grande di S. Maria Novella a Firenze con S. Domenico ottiene da Onorio III la conferma dell’Ordine, dipinta intorno al 1584 su commissione della famiglia di Andrea Roselli, sottopriore del convento domenicano (Thiem, 1970, G1; Assman, 1997). Sempre al biografo dobbiamo la notizia del passaggio di Gregorio dalla bottega di Santi di Tito, dove si sentiva confinato a «perdere sua età» dipingendo solo «busti e guarnizioni» (Baldinucci, II, p. 540; III, p. 37), allo studio, posto dietro al convento dei serviti, lasciatogli da Girolamo Macchietti, trasferitosi prima a Napoli (1578) e poi in Spagna (1586-1588).

In queste stanze Pagani era solito organizzare incontri con i colleghi Cigoli e Domenico Passignano, cui si aggiunse in seguito Cristofano Allori, per esercitarsi nel disegno dal vero, con nuove indagini sulla luce e sul colore (la presenza di una stufa agevolava il disegno dal nudo anche d’inverno); ma vi si riunivano spesso anche nobili e letterati per recitare e suonare, poiché Pagani, musico dilettante, suonava il liuto (Baldinucci, III, pp. 40, 52-54, 241).

Echi dei lavori nel chiostro domenicano si trovano nell’affresco, oggi staccato, con l’Incontro tra s. Francesco e s. Domenico nel convento dei cappuccini a Montughi (Thiem, 1970, G 2), che risente dell’analogo soggetto trattato da Santi di Tito.

Delle altre opere riferibili agli anni Ottanta citate da Baldinucci, molte non sono state rintracciate o sono perdute. Tra quelle già censite da Thiem (1970, G 19-23) è riemerso nel 2003 sul mercato antiquario il dipinto con Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia (Moro, 2006), da identificare con quello realizzato per Alessandro Guadagni (Baldinucci, III, p. 39), noto grazie all’incisione dell’Etruria pittrice (1795; Thiem, 1970, K1), ed esposto alla mostra dell’Accademia del disegno nel 1706. Una tavola con lo stesso tema era stata inviata a Roma al cardinale Alessandro de’Medici, poi papa Leone XI.

Tra le opere perdute del medesimo decennio sono da menzionare le commissionie della famiglia Medici, come la grisaille con la Regolamentazione dell’Arno, eseguita per le esequie del granduca Francesco I del 1587, e i dipinti per gli apparati delle nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena (1589), tra cui la Battaglia di Antiochia raffigurata in incisione nella Descrizione di Raffaello Gualterotti (1589, p. 88) e nota anche grazie a una serie di disegni preparatori (Thiem, 1970, Z5-8). Degli stessi apparati faceva parte una tempera con la Natività, documentata da due disegni che mostrano come anche nell’uso dell’acquerello e della biacca su carta azzurra Pagani cercasse esiti fortemente pittorici (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. 8973F e 10477F; Petrioli Tofani, 1979, p. 76).

Gli anni Novanta sono scanditi da una serie di pale d’altare datate e firmate, tutte ricordate da Baldinucci, nelle quali, in parallelo all’attività del Cigoli, Pagani fece fruttare i propri studi su Barocci, sui pittori emiliani e sul colorismo veneto.

In questo decennio, infatti, i due pittori misero in atto il loro rinnovamento espressivo, in un percorso di trasformazione linguistica che portò a una più decisa rottura con la tradizione artistica post-vasariana, rottura sottolineata da Baldinucci (1681-1728) e ribadita da Lanzi (1795-1796), e grazie alla quale la critica moderna li qualifica entrambi come riformatori. Alla genesi del loro cambiamento espressivo, nell’aspirazione verso soluzioni più efficaci sul piano pittorico, contribuì anche l’immissione di orientamenti non fiorentini, in particolare quelli veneziani, fondati sul colore.

Nel 1592 Pagani attese all’opera che lo portò alla ribalta sulla scena fiorentina, il Ritrovamento della vera Croce per la cappella Alidosi nella chiesa del Carmine.

La pala, distrutta nell’incendio della chiesa del 1771 e nota grazie a un’incisione, è descritta con toni encomiastici da Baldinucci (III, pp. 42 s.) e censita con lode anche da Giuseppe Richa (1762). Pagani raffigurò il bozzetto dell'opera alle spalle del proprio Autoritratto (Firenze, Galleria degli Uffizi), verosimilmente eseguito anch’esso nel 1592. In quest’ultimo dipinto l’artista mostra un volto lungo e ossuto cinto da una folta barba che lascia percepire la debole costituzione, cui fa spesso riferimento Baldinucci, e che lo costrinse più volte all’infermità. L’opera non è menzionata dal biografo, che descrive, invece, un ritratto di Gregorio «testa senza busto, ed un poco di collarino» (III, p. 55), fatto dal vivo da Cristofano Allori ed ereditato da Matteo Rosselli, ritratto di cui non è certa l’identificazione con la tela incollata su tavola della collezione Feroni (Firenze, Galleria degli Uffizi, Depositi, inv. San Marco e Cenacoli n. 104). Non è stato rintracciato l’autoritratto a olio di Pagani, esposto nel 1737 alla mostra dell’Accademia del disegno nel chiostro della Ss. Annunziata dal collezionista Francesco Maria Niccolò Gabburri.

Allo stesso 1592 risale la Madonna col Bambino e i ss. Giovanni, Margherita, Francesco e Nicola (San Pietroburgo, Ermitage) dipinta per l’amico Giovanni Berti, destinata alla parrocchiale di villa S. Margherita a Sciano in Valdelsa, che denuncia, nella costruzione monumentale, nella gestualità e nella morbidezza dei profili perduti, la conoscenza di Annibale Carracci e del Correggio (dalla cui pala di S. Giorgio è tratto il S. Giovanni Battista).

A Berti apparteneva anche una delle versioni apografe, cosiddette ‘abbreviate’, del Trattato della pittura di Leonardo da Vinci (Los Angeles, University of California, The Elmer Belt Library of Vinciana, n. 35), che il proprietario fece illustrare da Pagani. A esso va ricondotto il disegno del Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi (inv. 10506 F) con l’Allegoria della Pittura recante la scritta autografa «G. Pagani F. 1582» e appartenuto a Gabburri (Thiem, 1970, Z58; Barbolani di Montauto, 2008, n. 2.5).

Per la famiglia Concini di Terranuova Bracciolini, Pagani dipinse la Crocifissione con la Madonna dolente e i ss. Bartolomeo, Niccolò e Agata (firmata e datata 1593), ancora oggi nella chiesa di S. Bartolomeo al Pozzo nella cittadina valdarnese, e la Madonna col Bambino tra i ss. Michele Arcangelo e Benedetto (firmata e datata 1595) nella vicina parrocchiale di S. Michele a Le Ville, opere che riflettono l’ammirazione per le morbidezze tonali del Correggio e in cui emergono le peculiarità stilistiche e compositive di Pagani come il disegno regolare dei volti, le mani schiuse, la meticolosa restituzione della superficie delle vesti e in generale la solennità e la saldezza strutturale dell’impostazione.

Sempre all’inizio dell’ultimo decennio del Cinquecento vanno collocate altre opere in cui più forte è l’adesione alla maniera del Correggio. Tra queste l’Adorazione dei pastori già in collezione Cook a Richmond (Gregori, 1979), collegata al tempo in cui Gregorio era impegnato a «imitare a tutta sua possa la maniera del Correggio» e identificata con il dipinto riferito da Baldinucci (III, pp. 43 s.) a una commissione di Jacopo Giraldi, e la tavola con lo stesso soggetto in collezione statunitense (Miller, 1985). Non è stata rintracciata, invece, la lunetta a olio dipinta nel 1594 per le monache del convento di Fuligno a Firenze (Baldinucci, III, p. 44).

Per la reinterpretazione in tono moderato del Correggio e per la consonanza coi pittori bolognesi di quegli stessi anni, sono stati datati alla fine del secolo gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino in trono e i ss. Miniato e Nicola, S. Bartolomeo, S. Rocco, S. Sebastiano, S. Lucia del piccolo oratorio di Urbana a Montespertoli, indubitabilmente vicini alle pale di Sciano e di Terranuova Bracciolini (Paolucci, 1979; Trenti Antonelli, 2011, pp. 17-20).

Si è poi riconosciuta (Fabbri, 1994) nel Compianto su Cristo morto (Londra, collezione privata; ripr. ibid., tav. V), tavola firmata e datata 1596, la «tavola d’un Cristo morto» con un ritratto di «Cosimo suo figliolo allora giovane» descritta dal Baldinucci (III, p. 45) come opera commissionata da Francesco de’ Medici (in realtà si tratta di Ferdinando). Il volto malinconico del fanciullo inserito sulla sinistra del dipinto ricorda effettivamente quello di Cosimo, primogenito del granduca Ferdinando I e di Cristina di Lorena. Dell'immagine  di Cosimo non vi è traccia, invece, nella più matura Pietà (Roma, Galleria Pallavicini), assegnata a Pagani da Claudio Pizzorusso (comunicazione orale in Thiem, 1986) e che Thiem (1986 e 1998) aveva proposto di identificare nella tavola per la famiglia Medici. La firma e la data 1597 sono state individuate, dopo il restauro, nella più modesta pala di Vernio (Mannini, 1998, p. 56; Trenti Antonelli 2011, p. 22).

Nel 1598 Pagani partecipò agli apparati per le esequie in effigie di Filippo II con il monocromo raffigurante Filippo II esamina i progetti del monastero di S. Lorenzo de El Escorial, opera perduta ma di cui conosciamo l’invenzione tramite il disegno preparatorio, quadrettato per il trasporto su tela (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. 10504F).

Incarichi di un certo rilievo giunsero a Pagani ancheda fuori Firenze, come è il caso della monumentale Madonna col Bambino e i ss. Francesco, Domenico, Giovan Battista, Giuseppe, Matteo, Lodovico di Francia e Antonio Abate commissionata da Antonio Corvini per la cappella di famiglia in S. Domenico a Città di Castello (firmata e datata 1597, oggi nella Pinacoteca comunale), che, oltre a evocare ancora i Carracci, rivela quella nuova attenzione alla descrizione delle raffinatezze materiche delle vesti e degli accessori che avrebbe caratterizzato le opere di Gregorio negli anni successivi. Analoghe ricercatezze affiorano nella Madonna col Bambino e i ss. Tommaso d’Aquino, Paolo, Nicola da Bari e Agnese firmata e datata 1598 del Museo civico Villa Colloredo Mels di Recanati (Chelazzi Dini, 1963; Blasio, 2007, pp. 198 s.), che lascia presagire, nella resa della mitra dorata e dei ricami sul manto di s. Nicola, il risultato stupendo dell’elegante figura di S. Lorenzo, dalla dalmatica in velluto rosso e trapunta di fili d’oro, dipinta tra il 1599 e il 1600, insieme al S. Giovanni Battista, per il nuovo altare maggiore della basilica di S. Maria delle Grazie a San Giovanni Valdarno (oggi nel Museo della basilica).

Analogamente alla pittura, la grafica di Pagani mostra il conseguimento di soluzioni più pittoriche e di artifici chiaroscurali – conosciuti tramite le opere di Barocci e di Correggio – ottenuti grazie all’uso di carte colorate o tinteggiate e del gessetto bianco per distribuire le lumeggiature: un rinnovamento delle tecniche che coinvolse la nuova generazione di artisti e che portò al perfezionamento del disegno dal naturale appreso nella bottega di Santi di Tito. Lo si osserva soprattutto nei fogli dell’ultimo decennio del secolo, come la Testa di fanciullo, la Figura femminile con lira e gli studi per le pale di Terranuova Bracciolini (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. 2430S, 0468F, 10462F, 10471F; Thiem, 1970; Barbolani di Montauto, 2008, nn. 2.2, 2.3).

Artista versatile, Pagani fu anche modellatore in terra e in cera, architetto e scultore. Eseguì prototipi per orefici e argentieri e disegnò per scalpellini e intagliatori, come precisa Baldinucci (III, p. 47), che ricorda anche come la madre di Gregorio fosse imparentata con i Del Tasso, famiglia di legnaioli, scultori ed architetti fiorentini. È sempre il biografo a riferire dell’unica testimonianza pervenutaci della sua attività di scultore (Baldinucci, II, p. 569, III, p. 47), ovvero le formelle in bronzo, pagate nel 1599 e realizzate tra il 1600 e il 1601 per la porta destra della facciata del duomo di Pisa sotto l’egida dell’anziano Giambologna, che Pagani aveva conosciuto tramite Vecchietti. A Gregorio furono assegnati ben tre pannelli (indice dell’ottima reputazione di cui godeva come scultore) raffiguranti l’Orazione nell’orto, Cristo deriso e la Flagellazione (Thiem, 1970, P 1-3), quest’ultima dotata di un disegno preparatorio e del modello finito in cera rossa (Philadelphia Museum of Art; Avery, 1977).

È recente il riferimento al Pagani di una serie di stendardi processionali dipinti su seta del monastero benedettino di S. Clemente a Prato, già assegnati a Matteo Rosselli e databili agli ultimi anni del Cinquecento (Trenti Antonelli, 2011).

Nella maturità la strada percorsa da Pagani era ormai disgiunta da quella dell’amico Cigoli, e la preferenza accordata ai temi biblici e all’interpretazione morale del soggetto corrisponde a una mutazione stilistica per cui la materia tende a fissarsi in preziosità cromatiche e in più severe articolazioni sentimentali rivelatesi ricche di conseguenze per la pittura fiorentina del Seicento.

L’attenzione alla resa capillare dell’epidermide delle cose, dai broccati ai ricami di corpetti e calzari, quale emerge anche nell’Adorazione dei magi della chiesa del Carmine (1603), sarebbe stata influente nella pittura della Spagna austera e cavalleresca degli Asburgo (Voss, 1920, p. 259; Longhi, 1927, pp. 7 s.), dove, come riferisce Baldinucci, Pagani inviò molte opere tramite l’amico Bartolomeo Carducci.

Baldinucci elenca in più occasioni (III, pp. 38, 46, 476) dipinti mandati da Pagani in Spagna. Probabilmente all’inizio degli anni Ottanta inviò una «storia d’Adamo ed Eva quando mangiano del pomo vietato» e quadri raffiguranti le «Nove muse», mentre alla fine del decennio successivo si dovrebbe riferire la spedizione, tramite Carducho, di una Natività, una Resurrezione, e due versioni della storia di Cefalo e Aurora. Nessuno dei dipinti citati dal biografo è stato rintracciato, ma un disegno del Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi (inv. 10509; Thiem, 1970, Z25) documenta probabilmente la composizione con Cefalo e Aurora.

Tessuti preziosi, delicatissimi veli e trine ricorrono in altri dipinti di soggetto profano degli ultimi anni d’attività dell’artista, come il teatrale Piramo e Tisbe (Firenze, Galleria degli Uffizi), dove la luce lunare enfatizza le espressioni e gli ‘affetti’ e lascia affiorare le soluzioni materiche del corpetto azzurro e oro di Piramo e delle vesti di Tisbe, intessute d’argento con racemi blu cobalto. Vicino a questo dipinto è il quadro con Diana dormiente e Pan (firmato e datato 1602), da poco aggiunto al corpus del pittore (Acanfora, 2011).

Eseguito in più versioni (non rintracciate), anche a pendant con un perduto Diana ed Endimione, il dipinto si unisce al gruppo di opere mitologiche per lo più tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, grazie alle quali al pittore è stato riconosciuto, insieme ad Andrea Boscoli e al Cigoli, il ruolo di traghettatore dei temi ovidiani alle generazioni successive di artisti fiorentini (Pagliarulo, 2009, pp. 152 s.).

Ancora nei primi anni del Seicento si collocano opere austere e anticonvenzionali come il Cristo in casa di Marta e Maria (Thiem, 1972 e 1986; oggi nella Galleria degli Uffizi), e il Lot e le figlie comprato dal granduca Ferdinando I forse tramite Rosselli, entrambe caratterizzate da un impianto compositivo monumentale e sostenute da disegni preparatori (Thiem, 1970 G 14; d’Afflitto, 1997). Al termine del percorso di Pagani si situano la grande e non persuasiva Discesa dello Spirito Santo del duomo di Pistoia, terminata nel 1603, e il Tobia rende la vista al padre, datato 1604 (Firenze, Galleria Palatina), ancora un modello per le successive inclinazioni emotive della pittura fiorentina.

Negli anni estremi la malattia limitò molto il lavoro di Pagani, che lasciò terminare ai collaboratori molte delle opere per le quali si era impegnato. In particolare, al favorito Rosselli fece concludere le opere per la Madonna di Fontenuova a Monsummano Terme (Madonna in gloria e angeli musicanti del 1604-05 e Annunciazione,1604-20) e la tela con le Nozze di Cana (Pistoia, Museo civico).

A Pagani appartengono anche alcuni dipinti a mezzo busto, caratterizzati da una pittura preziosa e smaltata, come l’enigmatico Ritratto di giovane (Firenze, Galleria Palatina; Thiem, 1970 G 18), un Ritratto di ecclesiastico (ubicazione sconosciuta; Gregori, 1979, p. 96 e fig. 65) e la S. Caterina d’Alessandria di collezione privata (Thiem, 1977, p. 285). Sono note anche più versioni del S. Giovanni Battista nel deserto (in coll. priv.; Bellesi, 2009) e una sfarzosa S. Maria Maddalena rinuncia alle Vanità (coll. priv.; Baldassari, 2007).

Baldinucci scrive di numerosi giovani pittori che frequentarono lo studio di Pagani, ma pochi possono essere considerati propriamente degli allievi: tra questi il già citato Rosselli e i due fratelli Filippo e Andrea Tarchiani.

Nel 1605 un peggioramento della malattia rese Pagani inattivo; affidati i propri beni al cugino Domenico Fedini, lasciò tutti i dipinti e le commissioni rimaste a Rosselli (Baldinucci, IV, p. 158).

Morì a Firenze il 3 dicembre 1605 e fu sepolto il giorno successivo nella cappella di S. Luca alla Ss. Annunziata (Archivio di Stato di Firenze, Medici e Speziali, Libri dei morti, 254, c. 185r).

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