GRECO

Enciclopedia Italiana (1933)

GRECO

Giuseppe Fiocco

. Col nome di El Greco è noto il pittore Domenico Theotokópoulos, nato a Candia intorno al 1545, morto a Toledo nel 1614. Creta era dominio fedele della repubblica di Venezia pur rimanendo roccaforte della tradizione artistica bizantina. Questa, che trovava il suo sbocco naturale nell'Oriente, manteneva sempre nella capitale una sua forte rappresentanza, fiorentissima alla fine del sec. XV e agl'inizî del XVI. Il G. ne fece certo parte, ma colpito dalla meravigliosa pittura che gli fioriva intorno, non si sentì di seguire le formule dei padri, e, come pochi altri greci, passò decisamente alla scuola veneziana; nel nostro caso, nella bottega del Tiziano; cioè dal Medioevo al Rinascimento.

Come discepolo è infatti ricordato da G. Clovio, in una sua lettera del 1570; ed è più che probabile sia Domenico il "valente giovane", di cui il Vecellio fa parola in una lettera del 3 dicembre 1567, proprio a Filippo II che doveva poi servirsene in Spagna e forse favorirne l'andata colà. Ma la grandezza del G. sta appunto nell'aver saputo mantenere intatto, attraverso alla conquistata magia del più bel colore veneziano, il mistico ideale nativo bizantino. Cosa che, se lo fece artista di primo ordine, lo fece anche artista eccezionale; quasi senza maestri e del tutto senza discepoli.

È perciò inutile discutere, di fronte a questo risultato tanto originale, quali elementi pittorici lagunari vi predominino. Alchimia che portò J. F. Willumsen a sopravvalutare l'influenza di Iacopo Bassano, fino a creare un Greco giovanile che non esiste, copiatore di cotesto maestro; e altri a negarla, mentre è indiscutibile, non solo nel ritratto del Clovio e nel tipico bimbo che soffia sopra un tizzone acceso, della Pinacoteca di Napoli (di cui esiste altra ignota variante nel Palazzo reale di Genova, e di cui è un'amplificazione la scena di genere, ove al giovanetto si aggiungono un contadino e una scimmia), ma ancora più innanzi, nel ritratto di L. Leoni, dato da alcuni a Bassano stesso, e nell'Adorazione dei pastori di Santo Domingo el Antiguo a Toledo; dove il problema luministico (Tiziano, Bassano, Tintoretto) - come Tintoretto il G. usava per le composizioni un teatrino e piccoli modelli - è complicato da influenze correggesche, tratte dallo studio della Notte e dall'intervento del manierismo del Parmigianino e dei Romanisti, attinto a Roma. Ivi l'artista fu, come attestano il Clovio e il Mancini, dal 1570 circa al 1572, soltanto; poi forse ancora a Venezia, e quindi in Liguria, prima di partire nel 1576 da Genova per la Spagna.

Certo nel 1577 il G. era a Toledo, che divenne la sua terza patria e il centro della sua attività e della sua gloria postuma. Poiché egli si può dire sia stato scoperto solo nel sec. XIX.

Ma in Spagna il pittore arrivò maturo, armato di tutto ciò che poteva servire ai suoi sviluppi meravigliosi: per dare, non per ricevere. Ecco perché le poche testimonianze della sua attività italiana, o meglio veneziana, non sono ancora il G. vero, e vanno ben vagliate, anche per la facilità delle confusioni con quel Pietro de' Marescalchi, detto lo Spada, da Feltre, che fu del pari tizianesco e bassanesco, e che probabilmente ebbe contatti con lui. Ed è a lui infatti che si debbono attribuire, sulla fede del Banchetto di Erode di Dresda (1576), la Medea del museo di Verona, una Madonnina di una raccolta tedesca (Mayer, 33 a.), e forse il carbonioso San Francesco stigmatizzato, ispirato da una nota incisione tizianesca, dell'Accademia Carrara di Bergamo.

Le opere sicure del momento formativo italiano: la Fuga in Egitto di Bilbao (R. A. Gorotiza), Gesù in casa di Marta (già di I. Brass, Venezia), la Guarigione del cieco di Dresda e di Parma, i Mercanti cacciati dal tempio di Richmond (coll. Cook), ripetuti a Minneapolis (Museo), con l'aggiunta istruttiva dei ritratti di Tiziano, di Michelangelo, di G. Clovio e di Raffaello (?), l'Annunciazione già del principe F. Corsini (ora A. Contini, Roma), le due Pietà (coll. Huntington di New York e coll. Johnson di Filadelfia; cfr. Trinità del Prado per lo stesso evidente michelangiolismo), il Bimbo che soffia sulla brace, il ritratto del Clovio, il San Francesco stigmatizzato (collez. Ignacio Zuloaga), ce lo mostrano venezianissimo di mezzi, ma sempre instabile, e talvolta svantaggiosamente, nelle sue preferenze. Fra cui precipua quella delle forme allungate del Parmigianino e dei michelangioleschi; nelle cui eccessività, come nello studio delle incisioni di A. Du̇rer, trovava conforto il suo istinto atavico per la tradizionale arte bizantina. Ed è questa sincerità profonda che ne riscatta il manierismo. Ecco perché la presta andata in Spagna, terra dei misticismi ardenti di Santa Teresa e delle raffinatissime stravaganze poetiche del Góngora, fu per il G. un salvamento e una fortuna. Mentre fra le citate pitture a stento possiamo notare un'opera riuscita, e non mai una eccezionale, quelle che egli produsse nella solitudine toledana, in un ambiente artistico cioè che non poteva, non solo inquietarlo ma nemmeno interessarlo, benché alimentato dalla stessa linfa veneta delle precedenti, sono quasi tutte memorabili, e alcune stupende.

A dir vero la dimora spagnola incominciò con un mezzo insuccesso; perché, dopo la prima buona prova dell'Assunta, dipinta nel 1577 per Santo Domingo el Antiguo di Toledo - ove fece anche una Resurrezione, i Ss. Giovanni Evangelista e Battista, e l'Adorazione dei pastori, citata per il suo evidente bassanismo, opere pei cui pare fosse chiamato a Toledo, tutte in sito, eccetto l'Assunta oggi all'Istituto d'arte di Chicago, uno dei suoi dipinti più tizianeschi - essendogli stato offerto nel 1579 di lavorare per l'Escuriale ed essendo la prova stata vinta (con il Nome di Cristo venerato da Filippo II ?), è certo che gl'incarichi non andarono oltre a questa pittura e alle tre tele con i Ss. Ildefonso, Pietro e Francesco, e alla pala San Maurizio e la legione tebana, che ancora vi si conservano.

Ma anche l'uscire dalle catene antiche gli fu vantaggioso, permettendo al suo temperamento di espandersi appieno in opere che spaventarono i bempensanti di allora, e diedero modo ai decadenti di poi, di vedere in lui il campione di un'arte al di là della regola.

Il vero è invece che in Spagna, lontano da ogni influenza, si fece sempre più strada nel Greco quella bizantinità fondamentale che la cognizione della pittura veneziana del pieno Cinquecento non aveva mai soffocato. Ed è il suo naturale e sempre più deciso affiorare, che dà alla pittura una voce insolita, appassionata e quasi dolorosa; che non è né pazzia spirituale né deficienza fisica.

Subito questo urgente bizantinismo si rivela nello Spolio per la cattedrale; ove la composizione addensa le figure, le luci divengono lividi barbagli e l'aria pare stagnare sulle cose: il primo capolavoro del maestro. Esplode poi nel tragico Entierro del Conde de Orgaz, certo finito nel 1584, in cui l'intensità espressiva dei ritratti prepara Velásquez; ma dove l'aria si rapprende nella gloria, in strati di nubi, sotto i quali la scena pare composta come in una grotta.

Questo ascetismo diviene sempre più predominante nella Pentecoste del Prado, nel Cristo nell'Orto del barone Herzog a Budapest, nell'Ultima Cena già a Parigi e oggi in una raccolta privata di Amsterdam, per raggiungere quasi il parossismo nella scena dell'Apocalisse di I. Zuloaga (Zumaya), ove i corpi, allungati e numerosi fino al massimo, sono quasi solo un pretesto per esprimere l'estasi.

Eppure questa pittura allucinata, che trasforma violentemente anche gli schemi più noti, quella ad esempio del Laocoonte ucciso con i figli dai serpenti (oggi a Charlottenburg, coll. E. Fischer), che sconvolge gli Apostoli del Museo provinciale di Toledo, e corrode sino al massimo le forme dell'Adorazione dei pastori del Museo metropolitano di New York, sa divenire, quando occorre, dolce e carezzosa; per esempio nell'Immacolata e nella Sacra Famiglia delle ciliegie, già nella coll. Nemes, e pare chiudersi quasi con un sorriso su quell'originalissima Veduta di Toledo del Museo del Greco, dove il ragazzo che ci mostra il piano della città, distesa dietro sulle rocce bruciate, sotto un cielo di tempesta, ha già la sagacia nervosa di un Watteau o di un Tiepolo. È impossibile ricordare tutte le opere del grande maestro; ma se si può tacere della sua secondarissima attività di scultore, non si può dimenticare che l'arte gli deve alcuni dei ritratti più vivi che possa vantare la pittura; in cui l'acuità spirituale di Tiziano si sposa alla semplificazione tintorettesca, in modo magnifico. Più del bassanesco Vincenzo Anastagi, del 1586, e della soave Dama dell'ermellino, opere di transizione, chi non ricerda la malata effigie del giovanetto S. Luigi, oggi nella raccolta von Auspitz a Vienna, o la terribile figura dell'inquisitore Niño de Guevara, nelle due edizioni: l'una a figura intera, oggi a New York, e l'altra, a mezza figura, nella raccolta Reinhart a Winterthur?

Nel giudizio del grande maestro non si dimentichi poi che molta parte delle ripetizioni delle opere più significative, che diminuiscono la sua gloria, non gli va imputata; ma spettano a Francisco de Preboste, suo criado, cioè suo aiuto, dal 1587 (già a Roma aveva con sé un discepolo in Lattanzio Bonastri) e alla collaborazione del figlio naturale Jorge Miguel, nato nel 1578 e già nel 1597 suo assistente, il quale continuò pigramente, sino alla morte (22 marzo 1651), quest'opera di ripetitore stanco delle pitture paterne.

V. tavv. CXCVII e CXCVIII.

Bibl.: Monografie: M. B. Cossio, El G., Madrid 1908; M. Barrès, Greco, ou le secret de Tolède, Parigi 1912; J. F. Willumsen, La jeunesse du peintre El G., Parigi 1927; A. L. Mayer, D. Theotocopoli-El G., Monaco 1926; id., El G., Roma s. a.; id., El G., Lipsia 1931; J. Cassou, El G., Parigi 1931; V. Magnoni, El G., Firenze 1931; G. Fiocco, Pietro de' Marescalchi detto lo Spada, in Belvedere, VIII (1929), pp. 211-223; A. M. Brizio, IL G. a Venezia, in L'Arte, XXXV (1932), pp. 51-69.