Governo e Parlamento

L'Unificazione (2011)

Governo e Parlamento

Paolo Pombeni

Se accettiamo che la forza attrattiva del Piemonte, o meglio del Regno di Sardegna, nel porsi come perno del processo di unificazione nazionale risiedesse in parte non piccola nel suo essere di fatto l’unico Stato della penisola retto su un «modello costituzionale», non possiamo fare a meno di partire, nella nostra riflessione, dallo spazio che si era conquistata nell’opinione pubblica italiana quella autentica ideologia della modernità che in politica era il costituzionalismo.

Il problema della rappresentanza nella gestione della cosa pubblica e nella legittimazione delle decisioni che venivano prese dagli organi dirigenti non era ovviamente questione ristretta a ciò che il costituzionalismo avrebbe rappresentato dopo la canonizzazione che ne fece in Europa l’esportazione dei principi rivoluzionari francesi sulle baionette napoleoniche e la conseguente reazione a cui furono costretti i sistemi politici che vollero resistere a quella invasione. Anche i sistemi di antico regime avevano proprie forme di partecipazione e di rappresentanza, certo complicate in Italia dall’intersecarsi di dimensioni locali e dimensioni che chiamavano in causa i rapporti dei territori con i sistemi imperiali in cui si trovavano a volta a volta inseriti (Spagna, Impero asburgico). Tuttavia la diffusione di un dibattito sulla riforma del sistema politico, pur avendo avuto dei precedenti, risaliva prevalentemente alle trasformazioni che il nostro paese aveva subìto a seguito della conquista napoleonica.

La presenza di una tradizione di «partecipazione al governo» nell’antico regime prima della conquista napoleonica venne rivendicata da una vasta letteratura, che non sfuggì anche a mitizzazioni storicamente discutibili: come, ad esempio, l’assimilazione delle organizzazioni municipali del medioevo alle aspirazioni nazional-rivoluzionarie risorgimentali, propria – per citare un caso notissimo – di Giosue Carducci nella sua Canzone di Legnano (che doveva far parte di una più ampia opera significativamente intitolata Il Parlamento), composta nel 1876, anniversario sì della famosa battaglia tra il Barbarossa e la Lega lombarda (con Alberto da Giussano personaggio mitizzato), ma anche anno, come vedremo, della «rivoluzione parlamentare». Un intervento con intenti più scientifici, ma non meno condizionato dal clima di cui s’è detto, fu la decisione presa dalla Camera dei deputati del Regno d’Italia nel 1911, nel cinquantenario dell’Unità, di pubblicare una collezione di fonti parlamentari, intitolata Le Assemblee del Risorgimento, cui seguì nel 1917 la raccolta, promossa dell’Accademia dei Lincei nel 1913, Atti delle Assemblee costituzionali italiane dal medioevo al 1831.

Il parlamentarismo in Italia prima dell’Unità

Se si può discutere su quanto le esperienze che si susseguirono in età napoleonica (prima tra il 1796 e il 1799, poi dopo la riconquista francese che si ebbe l’anno seguente) fossero più o meno foriere di un sistema costituzionale, e quanto già all’epoca accanto all’imposizione del modello francese (che non era già più quello della rivoluzione, ma quello più autoritario dell’Impero) circolasse il modello, anch’esso mitico, inglese (specialmente nell’esperienza della Sicilia nel 1812-13, influenzata anche dalla Costituzione spagnola di Cadice approvata in quello stesso anno), è con i moti liberali del 1820-21 che in Italia si riaccese, dopo la prima fase della Restaurazione, una dinamica politica che puntava all’istituzione del costituzionalismo e del parlamentarismo in senso moderno.

Già la Restaurazione aveva cercato in Europa di non contraddire del tutto la nuova svolta in favore di una legittimazione dei sistemi politici in qualche modo a base rappresentativa: la semplice riproposizione dell’assolutismo, per quanto «illuminato», non poteva più bastare e Klemens von Metternich stesso e gli intellettuali che sostenevano il nuovo corso avevano promosso quel modello che si suole definire «monarchia consultiva». Il compromesso era plasticamente rappresentato dalla Charte che il restaurato re Luigi XVIII aveva concesso ai francesi nel 1814, consapevole di quanto sarebbe stato impresentabile un semplice ritorno alla fase prerivoluzionaria.

L’Italia fu di conseguenza interessata da questo dibattito intellettuale (talora sottovalutato dalla storiografia) su quella che si potrebbe chiamare una versione moderata del costituzionalismo, ispirata in parte al pensiero di Benjamin Constant, in parte al fascino che esercitava sempre più il rinvio all’esperienza britannica dove sistema monarchico e parlamentarismo si vedevano uniti in una felice convivenza. Due momenti mostrarono ben presto la forza di queste idee. Il primo fu il biennio 1820-21, quando si verificarono negli Stati italiani moti di natura riformatrice, che sfociarono in brevissime esperienze di parlamentarismo, in seguito destinate ad avere un forte impatto sulla costruzione delle ideologie costituzionali. Citiamo, solo a titolo di esempio, il volumetto del 1829 Essai sur les anciennes Assemblées Nationales de la Savoie, du Piemont, et des pays qui y sont ou furent annexes del barone Ferdinando Dal Pozzo, che era stato ministro dell’Interno nel breve governo costituzionale sabaudo del 1821, sugli antichi Parlamenti di Piemonte, Savoia e Monferrato.

Una seconda ondata di moti riformatori si scatenò nel 1830, sulla scia degli avvenimenti parigini, anche qui con la riproposizione del modello costituzionale monarchico rappresentativo (la Charte concessa in quell’occasione non fu che una rielaborazione aggiornata di quella del 1814). La successiva rivoluzione (liberale) belga del 1831 con la sua Costituzione che rivedeva solo limitatamente la Carta francese avrebbe confermato la bontà di quella iniziativa.

In entrambi i casi in Italia non vi furono né la forza né l’intelligenza politica nelle autorità al potere di cogliere l’occasione, anche per l’opposizione dell’Impero asburgico, che iniziava il suo lento percorso di distacco dal riformismo politico che pure aveva conosciuto nel Settecento. Il fallimento pratico dei moti però non mise fine al dibattito intellettuale sulla necessità di avere sistemi costituzionali moderni sull’esempio della Francia, ma soprattutto della Gran Bretagna, vero modello in cui sembravano convivere garanzie per i diritti di libertà, partecipazione del popolo e stabilità del sistema monarchico contro ogni pericoloso conato rivoluzionario.

Senza tenere conto della forza di questo mito positivo (la cui aderenza alla realtà storica può ben essere messa in discussione), risulta difficile capire il passaggio del 1848, che costituì la vera premessa all’instaurazione in Italia di un regime politico di tipo costituzionale rappresentativo. Il fulcro di questo passaggio fu la concessione dello Statuto da parte del re Carlo Alberto: dopo una iniziale resistenza nel gennaio alle pressioni di coloro che chiedevano la Carta, il 3 febbraio il «Consiglio di Conferenza» si orientava per la concessione e il successivo 8 febbraio Carlo Alberto emetteva un proclama preannunciante le «basi di uno Statuto fondamentale per istabilire nei nostri Stati un compiuto sistema di governo rappresentativo». Il 4 marzo il testo era effettivamente varato e conteneva la famosa frase, oggetto come vedremo di interpretazioni divergenti, «lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo» (art. 2).

Le molte polemiche susseguitesi specie nel secondo dopoguerra sulla reale portata di questa formula sono tutte dominate da una scarsa conoscenza della storia comparata dei sistemi politici europei dell’Ottocento (inclusa la famosa definizione di Maranini che parlava di «pseudoparlamentarismo»). Ovunque, in Europa, l’evoluzione del costituzionalismo fu graduale e dovuta più a trasformazioni politiche che si realizzavano nel tempo, che non a modellistiche istituzionali imposte bell’e fatte in qualche decisione legislativa. Questo vale anche per il Piemonte sabaudo e per il suo Statuto che sarebbe diventato la Carta costituzionale del nuovo Regno dell’Italia unita.

Il sistema poggiava inizialmente su due puntelli: la conquista di una statuizione fondamentale che inquadrasse diritti e doveri dei cittadini, accanto alla fissazione tendenziale dei modi di funzionamento del potere pubblico; il riconoscimento che la legittimazione del potere risiedeva nell’origine «rappresentativa» del sistema di controllo, affidato a un «parlamento» scelto attraverso elezioni. Questo metteva insieme il sistema postrivoluzionario inglese del King in Parliament (il re non poteva decidere «sciolto» da questo referente) e il principio della partecipazione al controllo del corpo della nazione nelle forme che esso stesso si dava (qui il principio più banale era il no taxation without representation).

Quella che potremmo chiamare la rivoluzione moderna stava tutta qui ed è improprio interpretarne le origini alla luce di quel che venne dopo, erroneamente presentato come lo sviluppo di princìpi traditi, quando in realtà si era trattato non di un’evoluzione ma di una trasformazione, talora anche radicale, di princìpi che erano solo nominalmente quelli delle origini.

Per dar vita al sistema rappresentativo, in Piemonte si mise subito mano a una legge elettorale, progettata da un gruppo di nove esperti che, a testimonianza di quanto fosse complessa la faccenda, pubblicò il 1° marzo 1848 una legge di ben 115 articoli. All’idea che il corpo della nazione fosse costituito da tutti i soggetti fisici presenti sul territorio, all’epoca aderiva solo una estremamente esigua minoranza di pensatori radicali e dunque non suscita particolare stupore che in sostanza la partecipazione fosse consentita solo a chi, per censo o per alto grado di istruzione, si riteneva fosse in grado di occuparsi «responsabilmente» degli affari pubblici. La scelta di basarsi sul collegio uninominale con sistema maggioritario a doppio turno rispondeva allo standard impostosi in Francia con varie peripezie (e dimostrava come l’ossequio al «modello inglese», che invece avrebbe previsto il maggioritario semplice, fosse ben temperato: il doppio turno permetteva ampi margini di intervento e manipolazione dall’alto).

Poiché questo sistema divenne, con qualche adattamento, quello poi adottato dal nuovo Stato nazionale, va tenuto presente che esso si legittimò risultando funzionale e non, come in altri casi, un esperimento privo di basi sociali e di respiro politico. Il 27 aprile 1848 si tennero effettivamente le elezioni e l’8 maggio si riunì la prima sessione del Parlamento: ciò che lo differenziò da altri esperimenti tentati in quegli anni fu che esso ebbe da subito un certo ruolo politico nel condurre la monarchia alla decisione storica di dichiarare guerra all’Impero asburgico e che fu mantenuto nonostante la sconfitta e l’abdicazione di Carlo Alberto.

Questo avrebbe distinto il Parlamento sabaudo da altri esperimenti dell’epoca, che da un lato erano assai più rivoluzionari nella contrapposizione con i loro «poteri costituiti» (fino all’estremo di quello della Repubblica Romana), e dall’altro erano naufragati miseramente con la restaurazione del 1849. Nel Regno di Sardegna il parlamentarismo si era fatto strada non senza difficoltà, ma aveva retto: nonostante nel primo anno circa di vita il Parlamento fosse stato sciolto e rieletto tre volte, i poteri costituiti (che andavano oltre il solo giovane sovrano) avevano continuato a puntare sul costituzionalismo, fino a ottenere, col proclama di Moncalieri del 20 novembre 1849, un suggello regio alla sua versione moderata, che però lo manteneva bene in vita.

Quanto questa vita fosse vivace e importante si ravvisò nel decennio seguente: la politica di Cavour ben difficilmente avrebbe potuto esercitare la sua spregiudicatezza se non avesse potuto contare su un complesso gioco di sponda tra opinione pubblica, sede parlamentare e circoli di corte. Era qui che si coglieva la «modernità» del Regno di Sardegna rispetto alle altre componenti di un paese che non potevano inserirsi, vuoi per collocazione geo-politica (i territori soggetti all’Impero asburgico), vuoi per dimensioni ridotte (il Granducato di Toscana), vuoi per insipienza dei sovrani e dei gruppi al potere (il Regno delle Due Sicilie, lo Stato pontificio), all’interno di un’evoluzione storica in corso che andava verso il superamento di vecchie formule politiche.

Così lo Stato sabaudo fu legittimato a farsi riconoscere come soggetto credibile per prendersi carico della turbolenza italiana e guidarla dall’arretratezza (non sottovalutiamo il mito, assai vivo all’epoca, delle «società immobili» – la Cina ne era il grande esempio – che erano state grandissime nel passato, ma ora sembravano avere perso le capacità «progressive») all’inserimento nei trend moderni. Il disporre di una costituzione che era a un tempo «rappresentativa» e moderata era un elemento fondamentale, tanto più quando si trattò di fronteggiare l’ipotesi di una sfida sul versante «mazziniano» che avrebbe potuto originarsi dalla conquista garibaldina del Regno delle Due Sicilie, un territorio che per la sua posizione nel Mediterraneo e per la sua ragionevole dimensione sarebbe potuto diventare interessante come polo italiano a sé (non si dimentichi che l’idea originaria di sottrarre l’Italia al controllo asburgico non contemplava una sua unificazione politica). A fronte del pericolo di una «repubblica mazziniana» nel Meridione tutto questo era stato messo tra parentesi.

La soluzione fu, come sappiamo, l’unificazione italiana per mezzo dell’incorporazione della Penisola nel sistema sabaudo: anch’essa una soluzione a suo modo pasticciata, ma che sarebbe stata stravolta, assai più di quel che non si creda, dalle potenzialità intrinseche a quel «sistema rappresentativo» che sembrava una parola priva di contenuto.

Parlamento e governo al momento dell’unificazione: tra modello inglese e modello francese

Nell’unificazione italiana governo e Parlamento giocarono un ruolo importante, anche se da leggere nel contesto del grado di sviluppo che queste istituzioni avevano all’epoca in cui si svolsero i fatti. Dal puro punto di vista letterale dello Statuto albertino i margini di manovra potevano anche essere ristretti. La centralità monarchica era completa: il governo era il governo del re (art. 3: «al Re solo appartiene il potere esecutivo») e non si parlava del «gabinetto», ma di «ministri del re», senza alcuna menzione né di un primo ministro, né di un presidente del Consiglio. In teoria al re apparteneva anche una partecipazione al potere legislativo assieme alle Camere (art. 6), anche se direttamente non esercitò mai questo potere (visto che poteva farlo lo stesso attraverso i suoi ministri, e solo la legge del 14 novembre 1901 rese obbligatoria una previa delibera del gabinetto per la presentazione dei disegni di legge).

Ma questa era la lettera, ben presto messa in secondo piano per quel che riguardava la figura del presidente del Consiglio dalla personalità di Cavour, che certo non poté annullare del tutto la sua dipendenza dal monarca (nel 1855 e nel 1859 dovette dimettersi per i suoi contrasti con Vittorio Emanuele II), ma che divenne il perno centrale di tutta la vita politica. Cavour però era anche, sia pure cum grano salis, un fautore del parlamentarismo (magari opportunamente manipolato), perché si rendeva conto di quanto ciò fosse necessario per legittimare la sua azione e vincere le numerose resistenze che incontrava.

Nella fase seguita all’armistizio di Villafranca (12 luglio) e poi alla pace di Zurigo (10-11 novembre 1859), Cavour, che si era dimesso dal governo, capì che ancora una volta il Parlamento era il luogo centrale della legittimazione. La pace di Zurigo, negoziata da una diplomazia asburgica che non aveva colto i tempi nuovi, prevedeva una cervellotica soluzione restaurativa con il reintegro dei sovrani deposti e la creazione di una confederazione italiana sotto Pio IX. Cavour, tornato a capo del governo il 20 gennaio 1860, promosse subito non solo un’azione politica sulla nuova base rappresentativa (i plebisciti a favore dell’unione col Piemonte), ma una sua sanzione parlamentare, facendo approvare dalle Camere i decreti di annessione l’11-12 marzo 1860.

Lo statista piemontese non era un sostenitore del Parlamento nel senso radicale del termine, ma piuttosto nel senso costituzionale moderato. Lo dimostra una sua famosa risposta data il 21 aprile 1858 a una interrogazione del conservatore Luigi Federico Menabrea (che, sia detto per inciso, riprendeva, non sappiamo se intenzionalmente, un ragionamento molto simile di François Guizot al Parlamento francese il 18 agosto 1842):

L’on. Menabrea, se ho bene interpretato le sue parole, ci disse: questa vostra politica sarà forse accettata dalla parte più colta della nazione, ma il popolo, il vero popolo, il popolo non legale ha un’altra politica. Io sarei lieto di sapere cosa intende l’on. Menabrea per popolo non legale. Io credo che la sola rappresentazione del popolo si trovi in questa Camera. Non so se ci siano altre rappresentazioni; in verità, se pongo mente al nostro sistema elettorale, che è uno dei più liberali d’Europa, io credo che sarebbe un errore immenso il dire che la vera opinione della nazione non sia qui fedelmente rappresentata. Che questa politica abbia trovato finora appoggio nella maggioranza dei deputati della nazione, è argomento per indurre che il vero popolo, legale e non legale, la approva (cit. in Pombeni 1994, p. 438).

Proprio in quest’ottica Cavour si premurò di condurre la sua rivoluzione moderata nel quadro del Parlamento, discutendo anche di questioni spinose, come la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia (cosa che lo portò a un pesante scontro con Giuseppe Garibaldi). A questo fine promosse subito un allargamento della rappresentanza parlamentare, aumentando i collegi da 204 a 387 (e ampliandone la dimensione: da 25.000 a 30.000 abitanti) e facendo votare il 25 marzo 1860 per un Parlamento allargato (pur con una partecipazione di solo il 53,5% degli aventi diritto: la scarsa partecipazione era tuttavia un male endemico nell’Europa del periodo). L’intento era di dimostrare la partecipazione dei nuovi territori alla trasformazione in corso, al di là del puro risultato dei plebisciti: anche Carlo Cattaneo fu eletto, ma non accettò la carica per non dover prestare giuramento alla monarchia.

Contemporaneamente aumentavano anche i senatori, che erano di nomina regia, il cui numero passò da 93 a 161, per arrivare di lì a non molto a 212 (ma sul ruolo del Senato torneremo).

Il precipitare inatteso degli eventi favorì la strategia «costituzional-parlamentare» di Cavour. L’impresa dei Mille infatti (maggio-ottobre 1860) non solo consegnava quasi l’intera penisola al nuovo ordine, ma apriva anche una questione internazionale non di poco conto: se non si consentiva al «moderno» Piemonte di prendere il timone della trasformazione ci si consegnava al rischio della rivoluzione mazziniana. Tuttavia, stabilizzare la situazione significava assorbirla nell’ottica del nuovo sistema politico: così venne fissato il turno elettorale per l’intero nuovo territorio nei giorni 27 gennaio e 3 febbraio 1861 portando i collegi a 443 (uno ogni 50.000 elettori). Anche questa volta la partecipazione elettorale fu limitata (57%), ma a contare, secondo quanto abbiamo visto sopra, era quello che gli oppositori di destra e di sinistra avrebbero chiamato «il paese legale». In termini politici, per quel che possono valere queste definizioni nell’incerta geografia parlamentare di metà Ottocento, si ebbero circa 300 deputati «governativi» e un centinaio attribuibili all’arcipelago della sinistra.

Qui si aprì una delle questioni di fondo: la mancata convocazione di un’assemblea costituente per sancire la novità del Regno d’Italia. La Costituente era un’icona del passaggio di regime, come aveva insegnato la rivoluzione francese, ma proprio per questo non era esattamente popolare tra i governi europei. Tuttavia, essa era stata promessa da Carlo Alberto quando era intervenuto a favore di Lombardia e Veneto nel 1848 (legge del Parlamento subalpino, 11 luglio 1848, n. 747) e «assemblee costituenti» si erano tenute a Modena, a Parma e in Toscana nel 1859. Cavour decise invece per una soluzione «continuista», ottenuta però attraverso la legittimazione parlamentare, come scrisse a Luigi Carlo Farini: «L’Italia non sarà legalmente costituita se non il giorno in cui i deputati di tutta la penisola proclameranno Vittorio Emanuele re d’Italia» (cit. in Arangio-Ruiz 1985, p. 25). Espresse molto bene qualche anno dopo, nel 1879, i ragionamenti di allora, il liberal-moderato Ruggiero Bonghi: «La costituente è una parola mite per dire rivoluzione» (Bonghi 1933, p. 195).

Il 18 febbraio 1861 si riuniva (sotto la presidenza di Urbano Rattazzi) il primo Parlamento italiano, il quale però continuava a contare le sue legislature a partire da quella sabauda del 1848, sicché quella dal 18 febbraio 1861 al 7 settembre 1865 fu la VIII legislatura. Similmente il re continuò la numerazione sabauda (Vittorio Emanuele II) anziché iniziarla nuovamente da capo, considerando che egli era il primo re d’Italia, come si fece proclamare dal Parlamento il 17 marzo 1861.

Il Parlamento aveva però sostenuto compattamente la soluzione dinastica della rivoluzione italiana, poiché il 14 marzo l’aveva approvata con 294 voti a favore e nessun contrario. I numeri non devono trarre in inganno: la partecipazione dei parlamentari ai lavori dell’Aula era molto scarsa. Fino all’ultima legislatura della Destra storica (la XII) la partecipazione media si aggirava intorno al 30% dei membri, ma era arrivata a toccare anche il 19%. In parallelo, però, non vi erano grandi battaglie politiche, a eccezione di qualche momento particolare e per lo più di indirizzo generale. Per quel che riguarda i provvedimenti legislativi fino al 1870 ben l’80% di essi passarono con il 90% dei consensi; solo a partire dal 1874-75 questo unanimismo si incrinò fortemente (allora solo l’11% dei provvedimenti vide un sostegno del 90% dei votanti).

A dispetto di questo, il Parlamento ebbe un ruolo importante nel promuovere la necessaria legislazione per l’unificazione del paese. È inesatto tanto sostenere che all’inizio esistessero decise forze che, con linguaggio improprio, si definiscono federaliste, quanto dipingere un quadro in cui tutti erano protesi all’omologazione del paese sotto un presunto colonialismo piemontese. In realtà la classe dirigente risorgimentale si pose il problema di cosa fare in rapporto a un paese che non era davvero facile da unificare.

In astratto si avevano davanti due vie, sulle quali il dibattito continuò a lungo. La prima era la via inglese, o almeno quella che si riteneva tale: il self-government, cioè un alto riconoscimento delle capacità di autogoverno delle varie comunità che formavano il paese. Questa via, che all’inizio sembrava quella più facilmente percorribile, poiché erano coinvolte le realtà del Nord e del Centro fino alla Toscana, fu poi abbandonata in seguito allo shock della conquista del Sud che aveva tradizioni municipali di segno molto diverso e di ben scarsa efficienza. Così la soluzione «all’inglese» che Marco Minghetti fece balenare con le sue proposte di legge sul decentramento presentate il 13 marzo 1861, fu lasciata cadere dallo stesso Cavour che pare fosse inizialmente favorevole. Il deus ex machina dell’opposizione parlamentare fu il siciliano Giuseppe La Farina, presidente della Società nazionale, che era favorevole al modello centralista-amministrativo della tradizione francese, ovviamente più adatto a controllare una rivoluzione in parte imposta dall’alto, scelta che lo storico Roberto Ruffilli ha giustamente etichettato come «liberal-autoritaria».

Comunque fosse, non è del tutto esatta la definizione di Cattaneo che parla di una «unificazione a vapore», perché in realtà, l’unificazione giuridica sotto un unico codice si ebbe solo con la legge 20 marzo 1865, n. 2248: un procedimento che si sviluppava in un contesto difficile, col brigantaggio meridionale e fermenti legittimisti (nel settembre 1866 Palermo fu per una settimana quasi controllata da rivoltosi di varia estrazione) che certo non invitavano a orientarsi verso modelli che dessero spazio ad autonomie locali.

In questa fase il Parlamento non riuscì a esercitare un rilevante ruolo legislativo e anche quello politico fu lasciato per lo più ad alcuni grandi notabili. Del resto, come notava il relatore alle modifiche del regolamento parlamentare nel 1863, Carlo Boncompagni, promuovere vivaci dibattiti e scambi di opinioni non era poi da considerarsi un obiettivo interessante (si lasciava intendere che un regolamento tutto puntato a favorire grandi dibattiti e discussioni avrebbe complicato il raggiungimento di una produzione legislativa spedita, poiché la gran parte dei parlamentari erano poco preparati per discussioni tecniche e amavano invece divagare in una retorica inconcludente).

In questa fase, dunque, il timone politico e amministrativo fu piuttosto nelle mani dei governi, che peraltro si succedevano abbastanza rapidamente dopo che l’improvvisa morte di Cavour il 6 giugno 1861 aveva creato un inevitabile vuoto di direzione: ministero Ricasoli (12 giugno 1861-3 marzo 1862); ministero Rattazzi (fino all’8 dicembre 1862); ministero Farini (fino al 4 marzo 1863); ministero Minghetti (fino al 28 settembre 1864); ministero La Marmora (fino al 31 dicembre 1865), seguito da un suo secondo ministero (fino al 20 giugno 1866).

A testimonianza del ruolo non proprio brillante della Camera come istituzione (altra questione è ovviamente l’azione dei grandi notabili liberali) sta la statura non eccelsa dei suoi presidenti di questa fase: Sebastiano Tecchio (1862-63), Giovanni Battista Cassinis (1863-65), il più rilevante in quanto era stato ministro della Giustizia con Cavour, Adriano Mari (1865-67).

Il Parlamento nell’età della Destra

Con l’acquisizione del Veneto grazie all’alleanza con la Prussia nella guerra all’Impero asburgico (1866), si aprì la vera stagione unitaria della politica italiana, sia perché quella regione era storicamente importante dal punto di vista simbolico (e non da ultimo significava la definitiva espunzione degli asburgici dall’Italia: Trento e Trieste erano terre di confine che avevano avuto rapporti assai complessi con i due universi confinanti), ma anche perché era un importante serbatoio di classe dirigente per il nuovo Stato. Da questo punto di vista l’acquisizione di Roma e del Lazio, che certo come rilievo simbolico era incomparabile con le conquiste precedenti, rivestiva un’importanza assai minore.

Il periodo che va dal 1866 al 1870 fu ancora di avvio del sistema, e in esso la dialettica più squisitamente politica, per quanto ristretta ai grandi notabili, dominò sul lavoro legislativo in senso proprio, per non dire sul controllo del governo. Qui va ricordato che la teoria liberale classica, almeno così come era percepita in Italia (e ci riferiamo a personaggi come Minghetti, Luigi Palma o, più tardi, Gaetano Mosca), era molto preoccupata che non si manifestassero confusioni tra il potere legislativo e quello esecutivo, come sembrava si andasse radicando nella prassi di alcuni paesi europei, Gran Bretagna inclusa.

È da dire a questo proposito che si stava sempre più indebolendo, da vari punti di vista, la finzione che il governo fosse «il governo del re»: non nel senso che il sovrano non avesse potere e possibilità di inserirsi nelle attività dell’esecutivo, ma nel senso che ciò avveniva per lo più per via indiretta (i legami personali e mediati con la classe politica piuttosto ristretta, che aveva molte occasioni per scambiarsi opinioni e messaggi) e che comunque il re avrebbe sempre più dovuto tenere conto del contesto politico generale.

Naturalmente il monarca era facilitato nel suo gioco dalla mancanza sia di solide maggioranze parlamentari (queste si formavano semmai attorno al presidente del Consiglio scelto dal re, non a priori per sostenere un proprio candidato), sia da un sistema elettorale con bassa partecipazione (il tasso di partecipazione fu del 57,1% nel 1861; raggiunse il 59,6% nel 1880, ma nel 1870 era sceso al 45,3%), dove un elettorato assai ristretto (circa 600.000 persone) sceglieva in maniera praticamente compatta un notabile locale o, più raramente, una figura di spicco nazionale, senza alcun riguardo alla collocazione che avrebbe assunto nelle dinamiche parlamentari.

La stessa procedura dell’incarico a una personalità politica di formare il governo rimase per lungo tempo un atto sostanzialmente ambiguo. Esso era inizialmente un atto privato del re che con «lettera autografa» invitava una certa personalità a iniziare le operazioni per costituire un governo (in questo contesto il re poteva invitare ad agire anche più di una persona). Il decreto di nomina interveniva solo nel momento in cui l’incaricato avesse sottoposto al re la lista dei ministri (sulla quale il sovrano non mancava spesso di dire la sua). Fu solo nel 1896, con la formazione del secondo ministero di Antonio di Rudinì, che Umberto I procedette all’assegnazione dell’incarico con regio decreto.

Il fatto che il re, a seguito di consultazioni, tendesse a incaricare colui che veniva considerato maggiormente in grado di ricevere la fiducia del Parlamento, va ridimensionato, non solo perché un Parlamento assai poco «politicizzato» nel suo complesso tendeva comunque ad appiattirsi su chi aveva in mano le leve del potere, ma soprattutto perché non esisteva la prassi della «fiducia preventiva» (che venne introdotta solo a inizio Novecento, in età giolittiana).

Con il decreto di incarico il governo entrava subito nella pienezza dei suoi poteri poiché si dava per scontato che avesse la fiducia del Parlamento. Era la trasposizione della teoria britannica del fair experiment (tradotto nei nostri testi giuridici, in maniera un po’ approssimativa, come «sincero esperimento»): la fiducia al governo era in sostanza presupposta, salvo che intervenisse uno specifico voto di sfiducia su un provvedimento rilevante. Aggiungiamo che fino al 1892 non vi fu neppure l’abitudine a discutere in qualche modo dei programmi di governo: lo stesso «discorso della Corona», ovvero l’intervento formale del monarca che esponeva gli indirizzi del «suo governo», non prevedeva di essere seguito da alcun dibattito, ma solo da una semplice replica formale di ringraziamento, prima affidata al deputato più giovane, poi, dal 1863, a una commissione composta dal presidente della Camera e da cinque deputati eletti a maggioranza assoluta.

Ci fu, sin da una fase iniziale, il tentativo di dare sostanza alla posizione del presidente del Consiglio: Bettino Ricasoli, con un decreto del 28 marzo 1867, cercava di stabilire che questa figura «rappresenta il gabinetto, mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri, e cura l’adempimento degli impegni presi dal governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni con il parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese». Questa impostazione, però, non trovava consenso e per di più, dopo che Ricasoli perse le elezioni del marzo, nell’ottobre 1867 il nuovo governo Menabrea abrogò formalmente quel decreto: la questione sarebbe stata rinviata di quasi dieci anni.

Ciò non significa che mancassero ai deputati, o meglio a quelli tra di loro che avevano un reale peso politico, i mezzi per porre problemi al governo: basti pensare che, nel periodo che consideriamo, la durata delle legislature non fu mai quella legalmente prevista.

In una prima fase a dominare il Parlamento furono di fatto i gruppi regionali, relativamente informali sebbene a volte assumessero delle denominazioni proprie, spesso imposte dal dibattito giornalistico («la Permanente» per il gruppo piemontese, «la Consorteria» per quello toscano-emiliano, «il terzo partito» per il gruppo di Antonio Mordini e Cesare Correnti staccatosi dall’opposizione). Si trattava di protagonisti della stagione risorgimentale, spesso con un passato di servizio nelle amministrazioni o comunque nelle élites degli Stati preunitari. Il gruppo storico dei piemontesi, che discendeva da Massimo d’Azeglio, aveva il suo uomo più rilevante in Quintino Sella (del cui ruolo come ministro delle Finanze parleremo a breve). Ma anche Rattazzi, che aveva dato vita con Cavour al famoso «connubio», cioè una sorta di union sacrée nel Parlamento subalpino in vista dell’avventura risorgimentale, e Agostino Depretis giocavano un ruolo importante. Assai significativo era il gruppo dei lombardi, con Stefano Jacini ed Emilio Visconti Venosta, così come lo sarebbe stato il gruppo dei veneti con Luigi Luzzatti, e con due altri esponenti di spicco che però stavano al Senato, Fedele Lampertico e Alessandro Rossi. Poi c’erano gli emiliani con Minghetti e Alfredo Baccarini, i toscani con Ricasoli, Guglielmo Cambray-Digny e Ubaldino Peruzzi. Nutrito il gruppo dei meridionali con uomini notevoli come Bonghi (che peraltro, pur essendo napoletano, dopo il 1848 aveva sempre operato al Nord), Silvio Spaventa, Pasquale Stanislao Mancini, Giovanni Nicotera, Francesco Crispi.

Di fatto il Parlamento fu animato a lungo da uno spirito unitario e quasi conformista a difesa del risultato raggiunto dalla rivoluzione risorgimentale. Il 18 novembre 1864 Crispi, l’uomo della gestione politica della spedizione dei Mille, che affermava sempre di rifarsi alla tradizione della Sinistra, aveva sostenuto in Parlamento «che la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe. Noi unitari innanzitutto siamo monarchici e sosterremo la monarchia meglio dei monarchici antichi». Una tesi che sostenne poi, ampliandola, in un pamphlet polemico che suscitò molto scalpore: Repubblica e Monarchia. Lettera a Mazzini.

La vicenda sulla quale si è spesso imperniata la distinzione tra la Destra e la Sinistra (in seguito definite «storiche» per distinguerle dai nuovi significati che i termini andarono assumendo nel Novecento), cioè il presunto dissidio sul modo di conquistare Roma (attraverso un accordo col pontefice, oppure con un’azione di forza) è meno chiara di quel che viene fatta apparire: fino alla conclusione della vicenda, resa possibile dal venir meno della copertura francese al Vaticano, si trattò più di un esercizio per proclamazioni retoriche che di reali strategie divergenti.

La questione di fondo era il risanamento di bilanci pubblici gravemente provati dai costi delle guerre e dall’avvio dello Stato unitario. Anche in questo caso il Parlamento finì per sostenere, al di là di prese di posizione di minoranze, la politica governativa, fosse la liquidazione dell’asse ecclesiastico, o la assai più rigorosa politica di Sella, il famoso «ministro della lesina», che si affidò allo strumento fiscale con una tassa sulla lavorazione dei cereali («tassa sul macinato») poi applicata da Cambray-Digny. Questa, entrata in vigore il primo gennaio 1869, fu assai efficace, ma al prezzo di una compressione dei consumi popolari di pane e polenta, per cui non giovò certo alla popolarità della nuova classe politica (peraltro la tassa fu mantenuta a lungo, fino al 1° gennaio 1884).

La conquista di Roma impose un ultimo passaggio di adeguamento della struttura dello Stato unitario. La «questione romana», cioè i complicati rapporti con la sede del papato, non può essere affrontata qui se non per quello che interessò la legittimazione dello Stato in senso rappresentativo. Il Vaticano non era mai stato molto simpatetico con la causa italiana, ma dopo i fatti del 1848-49 ci fu verso di essa una sostanziale chiusura (non si dimentichi che Pio IX ridusse allo stato laicale il frate che aveva somministrato gli estremi sacramenti a Cavour morente nel giugno 1861!). Già nel 1868 (dunque quando Roma era ancora pontificia) la Sacra Penitenzieria aveva enunciato la famosa formula del non expedit (non conviene) a proposito della partecipazione dei cattolici alle elezioni, ma fu l’11 ottobre 1874 che Pio IX si pronunciò ufficialmente in un discorso contro la partecipazione cattolica alle elezioni e il 30 luglio 1876 una circolare del Santo Uffizio precisava che il non expedit comportava una vera e propria proibizione di andare alle urne.

Ci si potrebbe chiedere se questo scontro ebbe davvero gli effetti delegittimanti che i polemisti di parte, sull’uno e sull’altro fronte, le attribuirono. In verità, un esame sereno della situazione non sembrerebbe condurre in questa direzione. L’astensionismo elettorale era forte, ma è dubbio che dipendesse dalla prescrizione vaticana indirizzata ai cattolici: non solo perché i praticanti a qualche livello erano ben più del 40-49% degli astensionisti, ma perché il trend europeo di partecipazione al voto non era molto lontano da quello italiano anche in paesi dove non esisteva il conflitto Stato-Chiesa, e soprattutto perché non ci sono prove che l’attenuazione del non expedit nel primo Novecento abbia fatto registrare un incremento di massa di votanti non attribuibile all’allargamento del suffragio, ma al ritorno dei cattolici alle urne.

In generale, poi, tanto il governo quanto molti membri del Parlamento cercarono di tenere buoni rapporti specie col clero in servizio pastorale (e, per quanto possibile, anche coi vescovi): questo non avvenne solo al Sud, dove il clero aveva una tradizione legittimista a favore del potere in carica, ma anche al Nord, pur in presenza di un movimento di «azione cattolica» fortemente controllato dal Vaticano, che andava organizzandosi autonomamente e in maniera efficace. Non è affatto raro trovar menzionati tra i presenti ai banchetti elettorali dei candidati governativi o liberali più in vista anche i parroci del collegio (questo ovviamente non accadeva con parlamentari legati alla massoneria).

In ogni modo, la Destra storica riuscì, con un’azione combinata tra i suoi uomini di governo e i suoi leader parlamentari, a portare il bilancio in pareggio, come Minghetti annunciò alla Camera nel marzo 1876, e a consolidare il processo dell’unificazione amministrativa del paese. Questo però non avvenne senza che si indebolisse l’egemonia di quella élite dirigente, poiché la chiusura del Risorgimento che si era avuta con la conquista di Roma segnava anche un cambiamento nella distribuzione del consenso politico.

Già alle elezioni del 20-27 novembre 1870, su 508 deputati eletti ben 184 entravano in Parlamento per la prima volta segnando il rinnovamento della classe politica. Nelle successive elezioni (8-15 novembre 1874) la fisionomia di una Camera divisa in maniera sensibile tra maggioranza governativa e opposizione diveniva ben percepibile. Secondo stime dell’epoca (da prendere con qualche cautela per la difficoltà di attribuire le appartenenze politiche) si sarebbero avuti 276 deputati «ministeriali» contro 232 che appartenevano all’opposizione (piuttosto composita). Interessante è che ben 147 di questi risultavano eletti nel Mezzogiorno, il che faceva della «Sinistra» un partito largamente meridionale.

Tuttavia, a far cadere il governo Minghetti nella seduta del 18 marzo 1876 fu più un’imboscata parlamentare che non un conflitto ideologico. Determinante per la sconfitta del governo (242 voti contro 181) fu l’uscita dal blocco governativo dei toscani e del gruppo di Centro di Correnti, in contrasto con Minghetti sulla soluzione da dare alla questione ferroviaria (se lasciarla all’iniziativa privata o statalizzarla completamente).

Sta di fatto che quella che venne pomposamente definita come «rivoluzione parlamentare» era in realtà uno scontro di fazioni all’interno del moderatismo italiano, mentre l’andata al potere della Sinistra non avrebbe fatto registrare nessun radicale capovolgimento di equilibri nel sistema politico.

Il Parlamento nell’età della Sinistra

Se quanto appena affermato è vero, bisogna però chiedersi come mai il politico liberale Nicola Marselli (che nel 1892 sarebbe stato fatto senatore) si fosse spinto a inventare quella fortunata etichetta. In realtà una qualche forma di «rivoluzione» incentrata sul Parlamento ebbe effettivamente luogo, sia perché si assistette all’avvento di una nuova classe politica (legata alle élites urbane e alle professioni anziché alla tradizionale struttura dei ceti possidenti), sia perché con questa nuova classe si inaugurò un modo di accostarsi alla politica relativamente diverso. Non si era prima «notabili» e poi «parlamentari», accreditando con la nomina a parlamentare la posizione sociale precedente e il diritto di continuare a esercitarla, ma al contrario si «diventava notabili» in quanto si era «parlamentari» e l’esercizio del potere politico che si connetteva a quel ruolo era la garanzia e il mezzo per mantenere una certa posizione sociale.

Non è un caso che proprio nell’età della Sinistra cominciasse quella critica antiparlamentare che poi divenne opinione comune e persino stereotipo: dalle battute popolari sugli «avvocati senza clienti» che sedevano in Parlamento (molti membri della Camera esercitavano almeno nominalmente la professione forense: erano già il 32,8% nel 1861, ma raggiunsero il 40,1% nel 1882), a molta letteratura più o meno seria o seriosa. In questo campo aveva cominciato già nel 1862 Ferdinando Petruccelli della Gattina con la sarcastica galleria parlamentare I moribondi del Palazzo Carignano. Se si può capire la delusione di un Francesco Domenico Guerrazzi (il dittatore della Toscana nel 1848) di cui uscì postumo nel 1875 Il secolo che muore, dove si parlava del Parlamento come una spia del generale malessere ed esempio della meschinità e dell’affarismo di quell’Italia postrisorgimentale, in cui si era consumato il tradimento delle idealità democratiche e popolari, la critica avrebbe poi assunto connotati «scientifici», o presunti tali, in opere in seguito divenute celebri come, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione di Minghetti (1881), Governo e governati in Italia di Pasquale Turiello (1882), Teorica dei governi e governo parlamentare del giovane Mosca (1884). Non sono che gli esempi più noti di una pubblicistica diffusa, che poteva anche raggiungere toni più rozzi nella più disinvolta polemistica cattolica o in quella repubblicana, e che sostanzialmente riproponeva quel cliché che Carducci aveva messo in versi nel 1871 in memoria di Vincenzo Caldesi: «impronta Italia domandava Roma / Bisanzio essi le han dato».

A dispetto di questa svalutazione dell’esperienza parlamentare (che non è un fenomeno esclusivo dell’Italia del periodo), con l’avvento al potere della Sinistra storica la Camera acquisì un sempre maggior potere e un peso politico più incisivo. Ciò non è in contrasto con la parallela crescita del potere del governo, perché questo diventava sempre più un governo intrinsecamente connesso con essa, in stretta relazione biunivoca con le sue dinamiche. Non a caso, registrando questo fatto, Mosca scriveva nel suo giovanile trattato del 1884 sopra citato che i ministri dovevano essere soprattutto «dei deputati influenti, dei vecchi parlamentari, dei capi gruppo che portino, ognuno per la sua parte, un contingente di amici devoti in sostegno del ministero» (Mosca 1982, p. 491).

Anche il parallelo consolidarsi del ruolo del presidente del Consiglio non era in contraddizione con questo. Con il decreto del 25 agosto 1876 Depretis diede una prima forma all’istituto, riprendendo le linee del decaduto decreto di Ricasoli, ma edulcorandone le parti che entravano in urto col potere del monarca. Rimase così che il presidente del Consiglio controfirmava i decreti di nomina dei ministri (e anche del presidente e del vicepresidente del Senato), ma si cancellò l’inciso «che egli propone», sia per lasciare l’illusione che ciascuno continuasse a essere un «ministro del Re», sia per non sovraordinare troppo il presidente del Consiglio e, secondo alcuni, per mantenere anche formalmente il potere di intrusione del re nelle nomine.

Ciò che risultò determinante fu il fatto che da allora in avanti il presidente del Consiglio diventò decisamente il perno di costruzione della maggioranza politica, che si formava non solo attorno al governo, ma per mezzo della composizione del governo e delle contropartite che il governo poteva offrire ai parlamentari che lo appoggiavano. Non sbaglia chi vede in questo una premessa di quelle dinamiche che porteranno al «trasformismo», anche se il vocabolo è troppo debitore di polemiche ideologiche del tempo e delle fasi successive: sarebbe più esatto dire che ciò rispondeva a quelle dinamiche per cui si «governava al centro» secondo un modello largamente diffuso nei sistemi parlamentari europei.

La rinnovata centralità del parlamentarismo, anche se di un parlamentarismo di tipo parzialmente diverso, si vide nel fatto che il colpo di mano parlamentare del marzo 1876 dovette andare nell’autunno alla ricerca di una legittimazione elettorale. Era stata la «sinistra pura» di Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli a chiedere lo scioglimento anticipato della Camera e la verifica delle urne, nel tentativo di avere una maggioranza ben connotata politicamente. E difatti, nel discorso di Stradella dell’8 ottobre 1876, Depretis avrebbe orgogliosamente affermato: «noi siamo, o signori, un ministero di progressisti», presentando un ampio programma di riforme che era stato ribadito anche dagli altri leader del «partito».

La novità di impostazione era peraltro relativa, poiché il ministro dell’Interno, Nicotera, che era uno dei leader della Sinistra meridionale, non si fece scrupolo a usare pesantemente i prefetti e l’apparato statale per condizionare il risultato elettorale. Se è vero che questa prassi era preesistente (e del resto era applicata anche in Francia e Germania, con l’argomento che il governo aveva diritto di spiegarsi alla pubblica opinione per conquistarla alla propria causa), Nicotera la spinse all’eccesso attirandosi aspre critiche, ma anche raccogliendo un ottimo risultato: la Sinistra ebbe ben 414 deputati (su 508) e la Destra finì sbaragliata.

Naturalmente i numeri vanno interpretati, e non siamo di fronte a una maggioranza compatta, ma a un coacervo di posizioni, non poche delle quali erano opportunismi che salivano sul carro del vincitore; ma tutto rivelava un nuovo mondo, compresa l’elezione del presidente della Camera, carica alla quale andava ora un politico di rilievo, Crispi, peraltro eletto con una maggioranza non proprio esaltante (232 voti su 374 votanti: dunque già a questo primo importante appuntamento risultavano assenti 134 deputati).

Nella prima fase dell’età della Sinistra storica il Parlamento scontò, più che in passato, l’attivismo del governo, che si avviava a essere il motore non solo dell’iniziativa politica (come in fondo era sempre stato da Cavour in avanti), ma anche dell’iniziativa legislativa, perché adesso legiferare cominciava a voler dire «riformare». Infatti, accanto a leggi che potremmo chiamare di gestione (pur su materie molto importanti: si pensi alla questione ferroviaria o a quella fiscale), arrivavano leggi che oggi potremmo definire «programmatiche». Tipica in questo senso fu la riforma dell’istruzione fatta approvare dal ministro Michele Coppino tra il marzo e il giugno 1877, che prevedeva non solo un obbligo scolastico fino ai 9 anni (norma tipica degli sforzi di «incivilimento» che in altri contesti erano iniziati già a fine Settecento), ma anche l’abolizione dell’istruzione religiosa (norma più «ideologica» che rientrava senz’altro nella sensibilità radical-massonica della Sinistra). In quest’ultimo contesto è da inquadrarsi anche il disegno di legge presentato dal ministro della Giustizia Mancini, volto a contrastare gli abusi del clero, progetto che passò alla Camera per quanto in maniera non brillante (150 a favore contro 100 contrari), ma che non superò poi l’esame del Senato.

L’iniziativa riformatrice fu in questi primi anni piuttosto vivace, anche se non concluse moltissimo: a fronte del passaggio di una legge sulla ricchezza mobile, si ebbero altre proposte che si impantanarono nei meandri della discussione parlamentare e della relativa instabilità dei governi. Da questo punto di vista l’esempio più famoso fu quello della riforma della legge elettorale che iniziò il suo iter nel 1876-77 ma fu approvata solo nel 1882. Vedremo più avanti in dettaglio come questa vicenda, che qui viene richiamata solo per sottolineare come un accordo generico su un obiettivo, in questo caso il superamento della legislazione elettorale vigente, così inadeguata a rappresentare il nuovo paese, non riuscisse poi a tradursi in qualche forma di largo accordo sull’impianto concreto della riforma.

Bisogna anche tenere presente che la classe politica doveva fare i conti con un contesto civile in movimento. Non solo c’era un certo fermento nel mondo liberale dotato di organizzazioni non molto strutturate, ma comunque presenti, che facevano capo a varie personalità sia della Destra che della Sinistra, ma stava crescendo anche il fenomeno organizzativo delle forze esterne al sistema: nel 1872 era nata la Consociazione repubblicana delle società popolari delle Romagne. Sempre in quell’anno si era costituita a Rimini la Federazione italiana della associazione internazionale dei lavoratori di ispirazione anarchico-socialista, da cui nel 1879 si sarebbe staccato Andrea Costa con la sua famosa lettera Ai miei amici di Romagna. Nel 1874 era stata fondata l’Opera dei Congressi, nucleo coordinatore delle organizzazioni cattoliche per la loro presenza nel sociale, essendo la sfera politica inibita per i noti motivi.

Questo contesto si rifletteva in modo limitato, ma non per questo del tutto irrilevante sul mondo politico che stava in Parlamento: nel maggio 1877, votando contro la tassa sullo zucchero, il gruppo di Agostino Bertani e Felice Cavallotti ruppe con la Sinistra entro cui si era collocato pur essendone l’ala più radicale e si costituì come gruppo autonomo, subito etichettato come l’«Estrema».

In un clima del genere la vita del governo non era facile e infatti il governo cadde a fine 1877, nonostante Depretis il 26 dicembre finisse per succedere a se stesso. La perdita della fiducia sommava fattori diversi: il discredito di Nicotera e del suo uso spregiudicato dei poteri di ministro dell’Interno, che era giunto a violare il segreto telegrafico nella corrispondenza, fatto per l’epoca intollerabile; l’abolizione per decreto del ministero dell’Agricoltura, industria e commercio, che venne considerata un affronto al Parlamento; in aggiunta, il bizzarro scandalo sulla «bigamia» di Crispi che, sposatosi con rito religioso con una donna che aveva ormai da tempo abbandonato, si era risposato con un’altra con rito civile nel gennaio del 1877.

Anche il secondo governo Depretis fu breve (26 dicembre 1877-24 marzo 1878) a testimonianza dell’accresciuto peso del gioco politico-parlamentare, che il presidente del Consiglio non era in grado di controllare a suo piacimento. Il fatto era che stava tramontando un’epoca, come si sarebbe visto emblematicamente con la scomparsa di Vittorio Emanuele II il 9 gennaio 1878 e di Pio IX il 7 febbraio di quello stesso anno, anche se il passagio a una fase veramente nuova non sarebbe stato così rapido.

Per la verità la classe politica al potere ritenne di essere riuscita a superare brillantemente la prova di quel tornante. Soprattutto Crispi, all’epoca ministro dell’Interno, si vantò di aver compreso l’importanza del momento su entrambi i fronti. Per quel che riguardava la successione alla Corona, egli sostenne di avere convinto il nuovo re ad accettare per la numerazione dinastica quella logica che il suo genitore aveva rifiutato (di qui: Umberto I), gesto che doveva aprire all’integrazione di quelli che, in assenza di una qualche sorta di evento costituente, avrebbero quanto meno visto riconosciuta la novità del Regno d’Italia rispetto al precedente Stato sabaudo. Per quanto invece atteneva alla scomparsa del pontefice fieramente avverso al Risorgimento, pur non essendo riuscito a contenere qualche turbolenza durante i funerali, Crispi aveva predisposto che il conclave potesse agire con piena libertà e indipendenza a Roma, mostrando così, a suo parere, la forza della legge delle Guarentigie.

Si può discutere su quanto questa fosse una razionalizzazione ex post e anche un po’ artificiale di quanto avvenuto, ma costituiva pur sempre la spia di un certo modo di atteggiarsi della cultura della Sinistra storica, che si sentiva impegnata a essere la vera erede del Risorgimento e dei suoi valori. Da questo punto di vista la successione di Cairoli a Depretis nel marzo del 1878 sembrava il coronamento di queste ambizioni. Non solo lo stesso presidente del Consiglio era una specie di incarnazione vivente di quel periodo eroico (protagonista delle Cinque Giornate di Milano, era stato poi con Garibaldi anche nella spedizione dei Mille e persino nello sfortunato tentativo a Mentana di suscitare una sollevazione nello stato pontificio), ma rappresentava la Sinistra settentrionale (solo Francesco De Sanctis nel suo governo proveniva dal Sud), assai diversa da quella meridionale: ostile alla tassa sul macinato (che peraltro modificò un poco senza riuscire ad abolirla), convinta che l’ordine pubblico andasse gestito da una prospettiva realmente liberale, senza interventi preventivi autoritari basati su sospetti, decisa a venire a capo del rebus della riforma elettorale.

La svolta liberale di Cairoli non decollò, anche per il verificarsi nel novembre 1878 di un attentato al re (peraltro sventato) che però mise immediatamente in allarme verso la politica del ministro dell’Interno Zanardelli, ritenuta poco energica contro la sovversione. Gli ambienti di corte erano piuttosto ottusi e vedevano con sospetto quanto si stava facendo. Citiamo, per dare un esempio, quanto scrisse in un suo diario il futuro precettore di Vittorio Emanuele III, il colonnello Egidio Osio: ricordando che la regina si era raccomandata a Cairoli per la salvezza del re dal pugnale dell’attentatore, notava che a queste parole

fu dato oltreché un senso proprio, un significato quasi fatidico di consiglio, anzi di ammonimento al Presidente del Consiglio dei ministri, la cui politica, con quella dello Zanardelli, sembrava portar la monarchia sull’orlo della rovina. La storia non potrebbe dire senza offendere la verità che il Cairoli operasse con malafede, o che tradisse, come con gran leggerezza od acredine affermavano alcuni, la monarchia stessa portando nuovi materiali alla costruzione di quel celebre “ponte verso la repubblica” del quale abbiamo già parlato. All’indole di Benedetto Cairoli repugnava ogni atto subdolo od insidioso. Ma è certo che egli e lo Zanardelli seguivano una politica la quale, nonché spengere i moti sovversivi, doveva anzi facilitarli e incoraggiarli per il sistema di non contrariarli o moderarli in principio, anzi per una indulgenza che non poteva riuscire ad altro, se non a sfrenare addirittura chi voleva perturbare il paese (Bondioli Osio, 1998, p. 35).

Questa citazione può ben illustrare un clima e anche essere una dimostrazione di cosa significava il peso della corte, visti i suoi orientamenti non propriamente illuminati. Così il ministero Cairoli cadde nel dicembre, sostituito da un ministero Depretis, che prudentemente tenne per sé l’Interno: anzi, questa presenza del leader piemontese in quella delicata posizione fu costante anche nei ministeri seguenti, che fossero a guida di Cairoli o sua. Se si eccettua il breve intervallo del secondo governo Cairoli, in cui l’Interno andò a Tommaso Villa (14 luglio-25 novembre 1879), Depretis sedette ininterrottamente su quella delicata poltrona dal dicembre 1878 all’aprile 1887, quando, ormai minato nella salute, cedette la carica a Crispi, che non a caso dopo la sua morte gli sarebbe succeduto alla guida del governo nel luglio 1887, altrettanto non a caso tenendosi il ministero dell’Interno. Basta questa sequenza per capire dove fossero riposte le chiavi della stabilità politica e del potere del governo in questo periodo.

In effetti il ministero dell’Interno era la chiave sia per tenere tranquilli i timori del conservatorismo italiano, dentro e fuori la corte, circa il consolidarsi delle forze politiche extraparlamentari, sia per cercare di controllare la situazione alla Camera che era in grande e, secondo alcuni osservatori, spregiudicato movimento. Lo si vide con chiarezza nella tornata elettorale del 16-23 maggio 1880, quando la maggioranza governativa ottenne solo 218 seggi (di cui 120 erano considerati poco favorevoli al governo che era stato in carica), mentre la Destra conosceva un clamoroso recupero, passando da 100 a 171 seggi, raddoppiando nell’Italia settentrionale (da 31 a 61 seggi), ma soprattutto ricostituendosi al Meridione dove era quasi scomparsa (qui si passava da 4 a 24 seggi). Si aggiunga che anche l’Estrema aveva avuto una buona affermazione.

Anche se Cairoli poté sopravvivere momentaneamente, era evidente che il suo destino era segnato. Ancora una volta la spia fu l’elezione del presidente della Camera, dove il candidato governativo, Coppino, l’uomo della riforma scolastica, fu sconfitto da Domenico Farini, candidato del liberalismo moderato. Il ritorno di Depretis al governo il 29 maggio 1881 chiudeva in un certo senso il ciclo della Sinistra storica propriamente detta. Se apparentemente, con l’impulso dato alla riforma elettorale, come lasciava intendere la chiamata al ministero della Giustizia di Zanardelli, si ritornava a innalzare il vessillo storico del progressismo liberale, nella realtà l’allargamento del suffragio avrebbe segnato il ricompattamento del liberalismo italiano in senso tecnicamente conservatore, cioè concordemente interessato a impedire che la costruzione costituzionale messa in piedi dalla rivoluzione risorgimentale potesse essere messa in questione dai condizionamenti di una scena politica che andava rapidamente mutando con l’entrata in campo di forze sociali non riconducibili sotto il controllo della leadership della fase fondativa.

Se non si tiene conto di questo contesto è difficile intendere cosa significò il passaggio del 1882-83, ma per farlo compiutamente è necessario soffermarsi su un altro aspetto del parlamentarismo italiano: la presenza del Senato.

Il Senato regio e vitalizio

La presenza di una «Camera alta» era prevista dallo Statuto albertino e corrispondeva al modello bicamerale che era stato importato dalla Gran Bretagna. Per la verità, pochi sapevano che all’origine di esso non stava una dicotomia tra rappresentanza popolare ed «eccellenza personale» come si vagheggiava, ma più semplicemente un diverso modo di intendere la società corporata pre-moderna. Semplificando molto, si può dire che il modello continentale era fondato su un’unica Camera dei ceti (o degli stati), classicamente divisa secondo la tripartizione francese, nobiltà, clero e «terzo stato» (cioè quelli che non appartenevano ai primi due). La ripartizione inglese prendeva invece in considerazione, anziché i ceti, quelli che per semplificare potremmo chiamare i centri di potere: da un lato coloro che una volta erano i feudatari (i Signori, i Lord), dall’altro le realtà corporate territoriali che esercitavano amministrazione autonoma (i borghi, le contee e le università, identificati come Commons, Comuni).

Questa distinzione storica si era persa e la percezione che si aveva era che in una Camera sedesse l’élite del paese (gli antichi meliores et maiores terrae), i migliori (àristoi, in greco), nell’altra una rappresentanza che dava vita e forma al «popolo» genericamente inteso. Sarebbe stata l’interazione di queste due rappresentanze con la monarchia a garantire il governo «rappresentativo» della realtà del paese che era formata non solo da ciò che l’«opinione» esprimeva attraverso le elezioni, ma anche da una diversa e più stabile opinione, che era quella di chi per formazione ed eccellenza personale si riteneva fosse in grado di dar corpo al sentimento profondo e storico della nazione.

La tradizionale soluzione di riservare la Camera alta semplicemente alla «nobiltà» non era semplice in un contesto come quello del Regno di Sardegna che comprendeva già un’aggregazione di territori con diversa storia e quindi diverse filiere di nobiltà; e in più si era in tempi in cui l’attribuzione di particolari competenze per semplice via ereditaria era profondamente messa in discussione. Ciò portò alla scelta di una soluzione di compromesso: il Senato sarebbe stato formato da membri ritenuti «eccellenti» per servizi resi alla nazione e alla Corona (tradizione dell’investitura), ma si sarebbe trattato di un’investitura di tipo personale e non trasmissibile (nomina «a vita», ma per merito strettamente personale).

Nonostante questo compromesso, di cui non si era neppure pienamente coscienti, il Senato risultò sempre una componente debole negli equilibri di sistema. Secondo la norma inglese del no taxation without representation, lo Statuto disponeva (art. 10) che le leggi che riguardavano tributi, bilanci e conti dello Stato dovessero essere prima sottoposte alla Camera dei deputati, e già questo mutilava il rilievo della Camera alta. La sua stessa composizione, poi, non era tale da renderla espressiva di una forza almeno morale. Delle 21 categorie previste dallo Statuto da cui selezionare i senatori (che dovevano avere almeno 40 anni compiuti), solo tre non riguardavano personale politico o legato ad alte cariche amministrative: erano rispettivamente la prima, che comprendeva i vescovi e gli arcivescovi, la ventesima, che contemplava «coloro che con servizi o meriti eminenti avevano illustrato la patria», e la ventunesima costituita da «le persone che da tre anni pagano tre mila lire di imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria».

È interessante soffermarsi su queste tre categorie. Dalla prima non furono scelti membri, per la vicenda del conflitto Stato-Chiesa, già apertosi nel Piemonte sabaudo. L’arcivescovo di Genova Andrea Charvaz, che era stato precettore del re, rifiutò la proposta di nomina con una lettera imbarazzata in cui, pur ribadendo il suo lealismo allo Stato, faceva presente di non poter sedere in un consesso disapprovato dal capo della Chiesa cattolica. La categoria era stata probabilmente introdotta per similitudine con il modello inglese, dove i vescovi della Chiesa anglicana, Chiesa di Stato, erano membri di diritto della Camera dei Lord. Anche lo Statuto proclamava la religione cattolica religione di Stato, ma ovviamente l’efficacia di questa prescrizione era sminuita dal conflitto col Vaticano, sebbene di fatto si usassero le cerimonie religiose come parte delle solennità anche civili ogni volta che ciò fosse stato possibile, senza che si sollevassero problemi.

Il numero dei senatori nominati fra chi aveva illustrato la patria fu molto ridotto: considerando la composizione del Senato fino al 1913, si trattò appena dell’1% dei membri. I nomi più noti di questa categoria possono essere considerati Alessandro Manzoni, nominato già nel 1860, che partecipò anche a qualche seduta significativa, e Giuseppe Verdi, nominato nel 1874, che invece non pare abbia esercitato una qualche funzione degna di nota.

Assai rilevante risulta invece la presenza di membri provenienti dalla ventunesima categoria: considerando ancora una volta il periodo sino al 1913, si trattò del 37% dei membri del consesso. Questo dato percentuale così alto attesta che per «società civile» si intendeva più che altro l’alta borghesia dell’industria, degli affari e della finanza, e anche la grande proprietà terriera.

Tuttavia, il maggior numero di senatori derivava in parte dalla politica, in parte dalle alte cariche amministrative, il che avrebbe potuto rendere il Senato una sede competente per la discussione delle leggi, mentre lo fu solo a un livello piuttosto modesto. Il grande sviluppo nella composizione del Senato seguì il ritmo dell’allargamento dello Stato unitario: nel 1860 i senatori erano solo 93, ma già subito con la conquista del Nord e di parte del Centro divennero 161, per raggiungere poi i 212 al momento del varo della prima legislatura unitaria (febbraio 1861).

La nomina del presidente dell’Assemblea spettava al re, ma ben presto quella designazione tenne conto della valenza politica che la personalità prescelta avrebbe dovuto assumere e di conseguenza anche delle sue capacità di indirizzo dei lavori nel quadro delle più generali vicende parlamentari. Il presidente storico della fase di unificazione (1855-61) era stato Cesare Alfieri di Sostegno. A succedergli era stato chiamato, per testimoniare la nuova dimensione nazionale, un siciliano campione del costituzionalismo liberale, Ruggiero Settimo, che peraltro, esule a Malta e in cattive condizioni di salute, non resse mai la sua funzione, lasciandola al suo vicepresidente, il costituzionalista (e uno degli ispiratori dello Statuto) Federico Paolo Sclopis di Salerano, che assunse poi a pieno titolo la presidenza nel 1863. Ma questi, che era un cattolico moderato, non si sentì di restare in presenza di conflitti con la Chiesa e si dimise dopo neppure un anno, lasciando il posto ad altri due personaggi notevoli: Giuseppe Manno (1864-65), anch’egli studioso di diritto costituzionale, e Gabrio Casati (1865-70), protagonista degli eventi lombardi del 1848, ma anche ministro dell’Istruzione in Piemonte e promotore della riforma scolastica.

Dopo la sua presidenza, però, il Senato non conobbe più al vertice personaggi di grande rilievo: Vincenzo Fardella di Torrearsa (1870-74), Luigi Des Ambrois de Nevâche (1874-76), Giuseppe Pasolini (1876; morì in quello stesso anno) e Sebastiano Tecchio (1876-84) sono nomi che non hanno notorietà al di fuori della ristretta cerchia degli studiosi delle istituzioni parlamentari.

La rilevanza di quella che doveva essere la Camera dei migliori fu sempre molto limitata e se ne resero conto tanto i senatori stessi, quanto gli studiosi di diritto costituzionale. Nel 1870 Jacini, appena nominato senatore, salutava i suoi elettori di Terni dichiarando senza giri di parole: «È la Camera elettiva che fa e disfa le leggi e i ministeri, ai quali è affidato il potere esecutivo, e che determina l’indirizzo della politica» (Jacini 1968, p. 58). Non molti anni dopo, nel 1877, il costituzionalista Palma, che non era certo un radicale critico delle istituzioni, scriveva nel suo Corso di diritto costituzionale: « La legge li dichiara il primo corpo dello Stato, ma [i senatori] sono gli invalidi della Costituzione. Essi non han forza davanti al re o ai ministri che li hanno nominati, e che possono spostarne sempre la maggioranza e quindi dettarne le risoluzioni, né davanti al popolo che non li conosce» (cit. in Antonetti 1992, p. ix).

Proprio per queste ragioni il dibattito sulla necessità di riformare il Senato fu costante sin quasi dalle origini dello Stato unitario. A renderlo possibile fu l’illusione che lo Statuto fosse una Costituzione, come si direbbe in termini moderni, flessibile, cioè emendabile da riforme votate da una maggioranza parlamentare come qualsiasi altra legge, per cui anche la normativa sul Senato avrebbe potuto essere cambiata. In realtà proprio la vicenda della mancata riforma del Senato mostra quanto questo modo di ragionare, pure presente anche tra i giuristi dell’epoca, fosse inappropriato.

Ovviamente lo Statuto non conteneva norme sulle modalità della sua revisione, per la semplice ragione che si trattava di una carta octroyée, cioè concessa dal sovrano senza intervento del sistema di rappresentanza politica. Il modello inglese a cui si riferiva sembrava però implicare la validità della teoria per cui il Parlamento era contemporaneamente potere costituito e potere costituente, cioè aveva la piena sovranità anche per il mutamento della Costituzione. Il particolare non preso in considerazione era che in Gran Bretagna non esisteva una Costituzione scritta, ma un rinvio, più o meno mitico, ad alcuni grandi principi generali che erano la Costituzione e che in quanto tali erano inemendabili, mentre tutto il resto non era «Costituzione», ma «legge sulla Costituzione», cioè un’interpretazione che dava attuazione, commisurata ai tempi, di quei grandi princìpi. Ciò in presenza di una Costituzione scritta era invece molto difficile da realizzarsi.

Certo, qualcosa in questo senso era stato fatto. I giuristi ricordavano, per esempio, che lo Statuto prevedeva in origine come bandiera nazionale la coccarda azzurra sabauda per passare poi, nel plauso generale, al tricolore; che la religione cattolica era considerata religione di Stato, aspetto poi lasciato da parte per ovvie ragioni storiche, come detto sopra. Tuttavia, non si trattava in questi casi di incidere veramente su strutture portanti dello Statuto, come sarebbe stato nel caso del Senato, per la cui riforma si dovevano toccare il potere e la posizione del sovrano. A testimonianza del fatto che lo Statuto era assai più «rigido» di quanto la dottrina non ammettesse, non si riuscì mai, neppure in epoca fascista, a far passare nessun progetto di riforma della Camera alta, neppure quelli partoriti in diverse riprese dall’interno stesso del Senato a opera di suoi membri tutt’altro che radicali, preoccupati solo di rendere più autorevole il secondo ramo del Parlamento.

Non bisogna peraltro esagerare nel sottolineare l’impotenza dei senatori, che in buona parte dipendeva, più che da vincoli legali o da difetti di legittimazione rappresentativa, dalla scarsa volontà di impegnarsi in una battaglia politica da parte della gran maggioranza dei suoi membri che intendeva il «laticlavio» (la dignità senatoriale era indicata ancora con il termine latino che indicava la toga dei senatori dell’antica Roma) come un’onorificenza e uno status symbol più che come un ruolo politico.

Bonghi, esponente della Destra, poteva lamentarsi nell’età della Sinistra che il Senato non intervenisse attivamente a bilanciare la Camera, perché sperava che, come in Gran Bretagna, quel ramo del Parlamento potesse rappresentare la cittadella dei conservatori sconfitti alle elezioni, ma taceva sul reale andamento della vita interna all’organo. Per spiegare la cosa con un esempio, ricordiamo che quando, nel maggio-luglio 1880, si ripresentò la questione della modifica della controversa legge sul macinato, modifica che il Senato aveva avversato, ma che ora il suo stesso vicepresidente Giuseppe Saracco invitava ad accogliere perché ci si doveva «inchinare alla volontà della nazione», alla fine si arrivò al voto di approvazione in una seduta in cui su 355 membri erano presenti 77 senatori (65 favorevoli, 11 contrari, 1 astenuto).

Non si trattava certo di un’eccezione. Nel periodo 1861-74 la presenza media di senatori alle sedute era del 26% del totale, scesa al 21% nel periodo 1874-86. Il risultato era che di fatto quella Camera era dominata, come denunciò nel 1886 il senatore Andrea Guarneri, da un ristretto gruppo di professionisti della politica (il cosiddetto «piccolo Senato»), che partecipavano attivamente e costantemente ai lavori. La situazione non cambiò neppure con un modesto ritocco del regolamento dell’assemblea (risalente al 1861) che si ebbe nel 1883 dopo una lunga gestazione.

Da questo punto di vista la vera mancata occasione per un ripensamento del ruolo di equilibrio che avrebbe potuto avere il bicameralismo si ebbe in concomitanza con la riforma della legge elettorale per la Camera che entrò nella sua fase finale nel 1881-82. Come vedremo subito, anche in questo caso si finì in un vicolo cieco.

La riforma elettorale del 1882, il trasformismo e il nuovo orizzonte politico

L’inadeguatezza del sistema elettorale ereditato dal Regno di Sardegna per incanalare la partecipazione popolare era evidente da tempo. Già nel suo discorso di Stradella del 1876, Depretis si era impegnato solennemente per la riforma, ma molte e da tempo erano le proposte in tal senso, inclusa persino quella radicale del giovane Sidney Sonnino che nel 1870 aveva invocato, in funzione conservatrice, l’introduzione del suffragio universale, per non parlare dei primi tentativi a favore di sistemi proporzionali.

La modifica richiesta andava in due direzioni. La prima riguardava l’allargamento del suffragio, essendo il numero degli aventi diritto evidentemente troppo basso (621.896 soggetti). Come è noto, il problema era quello dei criteri per ammettere all’esercizio del voto. Il dibattito fu lungo e animato: relatori del disegno di legge furono due personaggi di spicco, Zanardelli alla Camera e Lampertico al Senato, che fecero sfoggio di grande dottrina, richiamando le legislazioni straniere e discutendo le tesi che circolavano nel dibattito politico e giuspubblicistico europeo. La Camera approvò la riforma il 22 gennaio 1882 (202 voti a favore, 116 contrari), il Senato lo fece il 7 maggio di quello stesso anno.

La vera rivoluzione consistette nell’introduzione del principio in base al quale il criterio della «capacità» di essere attivi e responsabili nella gestione della cosa pubblica andava ricercato non tanto nel possesso di un certo livello di ricchezza personale (misurato sul censo), quanto nel possesso di un certo grado di istruzione o di un servizio prestato nell’amministrazione pubblica (compreso il servizio militare di due anni con frequenza delle scuole reggimentali).

Sembrava scontato che la vera capacità fosse comunque data dal livello di istruzione. Anzi, sostenevano i più ottimisti che proprio l’introduzione del sistema di istruzione obbligatoria avrebbe consentito di arrivare in maniera progressiva e non conflittuale all’introduzione del suffragio universale, una volta che l’istruzione obbligatoria avesse dispiegato appieno i suoi effetti. A titolo di curiosità ricorderemo che gli uffici di statistica furono incaricati di effettuare specifici calcoli per pronosticare in quale anno si sarebbe raggiunto quel risultato: la risposta fu che la data sarebbe presumibilmente dovuta essere il 1950!

Il dibattito sulle modalità concrete in base alle quali riconoscere all’istruzione la dignità di requisito per entrare nella cittadinanza politica fu ampio e piuttosto vivace. Naturalmente si parlava solo di elettorato maschile con maggiore età (ora abbassata da 25 a 21 anni), in ossequio al pregiudizio dell’epoca, che non era solo italiano, secondo il quale le donne non erano in grado di esprimere una opinione «indipendente», per cui avrebbero semplicemente replicato, con effetti distorsivi, le scelte di coloro da cui dipendevano (padri, mariti, tutori). Per quel che riguarda il livello di istruzione si giunse a un accordo che riconosceva come soglia accettabile il completamento del ciclo di istruzione elementare. Ma a questo punto, con un certo colpo di mano, si fece passare un’interpretazione che considerava come ciclo elementare obbligatorio quello che si concludeva con i primi due anni della scuola elementare. La forzatura era evidente, perché chi avesse abbandonato la scuola a sette anni, ben difficilmente poteva essere a 21 qualcosa di diverso da un analfabeta di ritorno, ma bisogna tener conto del fatto che nella pratica l’ampio astensionismo, che interessava ovviamente in prima battuta le classi più disagiate, rendeva abbastanza limitato il rischio di partecipazione «autonoma» da parte di persone che avessero un limitatissimo livello culturale.

Anche in questo caso, per capire bisogna calarsi in una realtà molto diversa dalla nostra: andare al voto comportava un sacrificio e richiedeva una qualche comprensione del meccanismo (i seggi non erano sempre di agevole raggiungimento; bisognava procurasi da sé la scheda, perché non c’era scheda di Stato; occorreva essere informati sulle candidature). Dunque per le classi marginali l’esercizio del diritto di voto avveniva solo in presenza di un qualche «mediatore» che le avesse attivate, e questo non poteva essere che il meccanismo di cui disponevano per lo più i notabili appoggiati o dagli apparati pubblici (ecco la ragione dell’estensione di voto ai dipendenti dello Stato) o dalla loro ricchezza.

Probabilmente anche per queste considerazioni passò un’ulteriore norma che consentiva la dimostrazione del proprio livello di alfabetismo non solo con l’esibizione di diplomi scolastici, ma anche con una prova pratica: dimostrare davanti a un notaio la capacità di compilare una domanda di ammissione alle liste. Anche in questo caso si pensava che la faccenda non avrebbe inciso molto sul numero degli elettori, ma la classe politica sottovalutò la capacità di mobilitazione e di organizzazione dei nuovi partiti in via di formazione. Le ali estreme, inclusi socialisti e repubblicani (mentre i cattolici continuavano a non partecipare), si misero a organizzare corsi di scrittura e in alcuni casi (non pochi secondo la propaganda conservatrice) anche a trovare notai compiacenti disposti ad accettare qualsiasi cosa come prova di alfabetismo. Sebbene non abbiamo dati attendibili per capire quanto effettivamente questa clausola (il contestato art. 100) avesse inciso nella formazione del nuovo elettorato, la norma venne di fatto resa sterile da una riforma promossa da Crispi nel 1891, che prevedeva la revisione delle liste degli elettori.

In definitiva, la riforma realizzò un incremento massiccio dell’elettorato che passò da 621.896 a 2.017.829 di aventi diritto, il che anche da solo era sufficiente a far temere che pure in Italia si verificasse quello che in Gran Bretagna l’ala più intransigente di conservatori e liberali aveva bollato al tempo della riforma del 1867 come il «salto nel buio».

A complicare le cose si aggiunse anche la modifica del sistema di voto: non si votava più col collegio uninominale a doppio turno, ma con un collegio plurinominale (da 2 a 5 candidati a seconda delle dimensioni, per un totale di 135 collegi), con un turno unico e con voto limitato in modo da lasciare uno spazio alle minoranze. Anche questo sembrava un rischio, nel momento in cui si profilava all’orizzonte la presenza dei «rossi» e dei «neri», cioè dei partiti sino a quel momento extraparlamentari.

In realtà nessuna di quelle paure si rivelò fondata, almeno in una prima fase. I clericali continuavano a non presentare candidati e quanto ai socialisti, nelle elezioni del 1882 ne venne eletto uno solo, Andrea Costa a Ravenna, peraltro come candidato di una larga alleanza di forze genericamente radicali

Ciò che qui ci interessa è che dal punto di vista parlamentare la riforma elettorale promosse una rimodulazione del modo di formazione delle maggioranze alla Camera. Da tempo si discuteva della necessità di «trasformare» i partiti storici di derivazione risorgimentale, con la motivazione che i tempi cambiati avevano reso obsolete le vecchie divisioni, peraltro abbastanza teoriche, ereditate dal Parlamento subalpino. Ora, di fronte alla incognita del risultato che poteva uscire dopo un allargamento così cospicuo del corpo elettorale, Minghetti aveva prospettato quella che all’epoca sembrava la soluzione più avanzata, proposta da ciò che si riteneva la miglior scienza politica dell’epoca. Johann Kaspar Bluntschli, teorico del costituzionalismo di grande successo, aveva sostenuto che l’equilibrio di un sistema politico si poteva ottenere in due modi, essendo per lui naturale che si avessero quattro partiti (i radicali, i liberali, i conservatori e i reazionari). Il primo modo era quello classico «inglese» per cui si aveva una contrapposizione tra progressisti e conservatori liberali moderati, ma ciò implicava che i liberali tenessero sotto controllo i radicali e i conservatori i reazionari. Se invece la leadership dei due schieramenti fosse passata alle estreme, diventava doveroso per quelli che Bluntschli definiva «i partiti virili medi» allearsi al centro per evitare la vittoria dei due estremismi.

Sostenere che in Italia ci fosse un pericolo di egemonia degli estremisti era alquanto azzardato, ma Minghetti intuì che invece c’era una volontà della tradizionale classe dirigente liberale di fare blocco per evitare che le sue conquiste potessero essere messe in discussione dai fermenti sociali che invitavano alcuni centri di potere a intervenire spiazzando il parlamentarismo.

L’alleanza tra la Destra di Minghetti e la Sinistra di Depretis, che fu significativamente battezzata come «Unioni liberali monarchiche», o, talora, «partito costituzionale» (termine appropriato, perché era la stabilizzazione della rivoluzione parlamentar-costituzionale il suo vero obiettivo), venne invece etichettata dagli avversari, cioè dai leader della Sinistra che vedevano minacciata la loro posizione (a partire da Crispi), come «trasformismo», cioè come un opportunismo di voltagabbana che pur di mantenersi al potere si disinteressavano di qualsiasi coerenza ideologica (cosa che in parte era più che vera, peccato che fosse fenomeno ben presente anche assai prima della riforma del 1882).

L’esito delle elezioni dell’ottobre 1882 non fu sconvolgente: i ministeriali erano 289, i dissidenti della Sinistra 19, quelli della «opposizione costituzionale» (il nuovo nome della Destra rimasta fuori del trasformismo) 144, quelli della «Estrema» 42.

A noi importa rilevare che esso non fu tale da stravolgere nella realtà gli equilibri affermatisi nel quinquennio precedente, ma fu tale da inaugurare una nuova stagione del parlamentarismo italiano. In essa il Senato perse ulteriormente rilevanza, poiché non gli era stato consentito di riformarsi – come pure Lampertico avrebbe tentato di fare – sfruttando le preoccupazioni per gli esiti della riforma elettorale, in maniera da acquistare un peso rappresentativo che lo rendesse dialettico rispetto alla Camera. In compenso il governo incrementò ulteriormente il suo potere come motore reale della dinamica politica: con il trasformismo sarebbe stato sempre più il presidente del Consiglio il perno attorno a cui organizzare non solo la maggioranza parlamentare, ma la stessa dinamica di aggregazione politica in senso «moderato» che si proponeva al paese.

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