Gentile, gli ebrei e le leggi razziali

Croce e Gentile (2016)

Gentile, gli ebrei e le leggi razziali

Giovanni Rota

Gentile e i colleghi ebrei

La voce dedicata a Gentile nella seconda Appendice (1° vol., 1948) di quell’Enciclopedia Italiana alla quale il filosofo dell’attualismo dedicò tante fatiche, venne affidata a Gaetano De Sanctis, tra i suoi principali collaboratori nella redazione di quest’opera, nonché uno dei pochi professori universitari che nel 1931 si erano rifiutati di prestare quel giuramento di fedeltà al fascismo che Gentile stesso aveva ispirato. L’articolo di De Sanctis, ripercorrendo gli ultimi anni della vita di Gentile, sottolineava le numerosissime iniziative e la mai venuta meno «energia» con la quale il filosofo aveva saputo incidere sulla vita culturale italiana. De Sanctis era inoltre incline a dare, di Gentile, l’immagine di un uomo sostanzialmente lontano – dopo l’impegno diretto degli anni Venti, che lo aveva portato fino alla direzione del ministero della Pubblica Istruzione – da una partecipazione attiva alle vicende e alle decisioni del regime fascista, nel corso di tutti gli anni Trenta e fino al clamoroso ritorno sulla scena, il 24 giugno 1943, con il Discorso agli italiani tenuto in Campidoglio. Scriveva De Sanctis:

Nell’azione politica, da quando uscì dal Gran Consiglio del Fascismo nel 1929, non ebbe più parte notevole, né sembra che venisse mai consultato circa le ultime e più gravi deliberazioni del regime, come la politica razziale, l’alleanza con la Germania e le successive dichiarazioni di guerra (p. 1028).

Significativamente, De Sanctis faceva culminare il suo ragionamento rimarcando l’estraneità – e addirittura un certo zelo in senso contrario – del filosofo di fronte alla virata razzistica che si sarebbe cristallizzata nelle leggi del 1938, citando tra l’altro a supporto del suo argomentare un episodio particolare:

Di fronte alla campagna antisemita egli, con coraggio non frequente in quei tempi, celebrò pubblicamente il suo maestro nell’ateneo pisano, A. D’Ancona; privatamente continuò ad adoperarsi, come sempre, ad impedire o attenuare persecuzioni e condanne (p. 1028).

Gentile si era in effetti messo a disposizione di tanti colleghi discriminati dopo il 1938 per motivi razziali. Il filosofo attualista aveva tuttavia svolto un’azione analoga già negli anni precedenti (cfr. Faraone 2003, pp. 63-106), quando ancora la maggioranza degli italiani – compreso lui stesso – non immaginava certo che il regime mussoliniano avrebbe assunto posizioni discriminatorie. Egli, infatti, si era già impegnato in favore di alcuni studiosi di origine ebraica costretti a lasciare la Germania hitleriana e rifugiatisi in Italia. Le lettere di questi studiosi conservate presso la Fondazione Gentile testimoniano della simpatia con la quale il filosofo ne seguì le penose vicende. Si possono a tal riguardo ricordare vari nomi: il filosofo Karl Löwith, che parlerà dei suoi rapporti con Gentile nel libro autobiografico Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933. Ein Bericht (1986; trad. it. 1988, pp. 113-47); Richard Walzer, esperto di filosofia araba e greca antica, che sarà lettore all’Università di Roma anche grazie a una raccomandazione di Werner Jaeger presentata a Gentile (cfr. l’allegato alla lettera di Walzer a Gentile, 11 nov. 1933, Archivio Fondazione Gentile [d’ora in poi AFG]); Werner Peiser, vicino a un esponente di spicco della socialdemocrazia tedesca come Otto Braun, che al momento della presa del potere di Adolf Hitler si trovava già a Roma, distaccato presso l’Istituto prussiano di cultura. Peiser – che diresse a Firenze una scuola-convitto pensata per i figli dei perseguitati dal nazismo – inserì nelle sue memorie, non pubblicate (il dattiloscritto, senza titolo e non datato, è conservato a Monaco presso l’Archiv des Institut für Zeitgeschichte, ZA 2470; versione digitalizzata: http://www.ifz-muenchen.de/archiv/zs/zs-2470.pdf), un breve, ma significativo resoconto dei suoi incontri con Gentile, dei moti di collera di questi contro il Führer («“Hitler è un imitatore, ed imitatori sono sempre sospetti!”» [capitolo “Hitler, ein Imitator”, p. 3], scrive Peiser nel suo non impeccabile italiano) e di come il filosofo si prese a cuore il caso di questo amico improvvisamente trovatosi senza la terra sotto i piedi. Egli lo impose infatti come traduttore in tedesco della sua opera La filosofia dell’arte (1931), a dispetto delle resistenze della casa editrice berlinese Junker und Dünnhaupt, accettando comunque che la traduzione (1934) apparisse firmata con uno pseudonimo, Heinrich Langen (cfr. Voigt 1989; trad. it., 1° vol., 1993, pp. 207-15).

Tra coloro che videro la loro carriera spezzata dall’avvento al cancellierato di Hitler, spicca la figura di Paul Oskar Kristeller, insigne studioso di Marsilio Ficino e della tradizione neoplatonica, che era stato allievo di Martin Heidegger prima di lasciare la Germania e cercare rifugio in Italia. Il caso legato a Kristeller è certamente uno dei capitoli più noti e analizzati dagli studiosi per quel che riguarda l’azione gentiliana in favore dei perseguitati (cfr. Simoncelli 1994 e 2013; Tedeschi 2008). Kristeller, che già era in rapporti con Delio Cantimori, era stato introdotto all’ambiente italiano da Walzer, per poi essere segnalato a Gentile, del quale fece la conoscenza nel 1934. Inizialmente Kristeller lavorò a Firenze, presso la citata scuola di Peiser e l’Istituto superiore di Magistero, e nel 1935 fu cooptato da Gentile e da Gaetano Chiavacci come lettore alla Scuola Normale di Pisa, al posto di Theodor Elwert. La collaborazione tra Gentile e Kristeller avrebbe portato più volte il nome di quest’ultimo sul «Giornale critico della filosofia italiana» e sarebbe sfociata nel 1937 nella pubblicazione – curata da Kristeller «auspiciis Regiae Scholae normalis superioris pisanae» – del Supplementum ficinianum per i tipi dell’editore fiorentino Leo S. Olschki.

Soprattutto, Gentile si prese a cuore la sorte di questo suo valente collaboratore durante il tribolato soggiorno italiano di questi (1933-39), diventando di fatto «Kristellers italian benefactor and patron» (Tedeschi 2008, rist. 2012, p. 389). Dapprima, Gentile lo difese in Normale dalle ingerenze che volevano imporre un collaboratore gradito alle autorità tedesche. Nel senso di un tentativo di sottrarlo alla giurisdizione nazista vanno appunto lette le sollecitazioni di Gentile a mandare avanti la pratica per ottenere la cittadinanza italiana: «Perché – scriveva a Kristeller con piglio poco profetico – quando avrà ottenuto questa, avrà acquistato la sua libertà e la sua sicurezza» (lettera del 16 maggio 1937, cit. in Tedeschi 2008, rist. 2012, p. 400). In seguito, con la promulgazione delle leggi razziali, il filosofo lo difenderà presso le gerarchie fasciste – arrivando a perorarne la causa con Benito Mussolini in persona –, lo aiuterà anche economicamente e contribuirà, insieme ad altri, a trovargli una decorosa collocazione accademica a New York.

L’impegno a favore di Kristeller

«“Passeranno anche questi tempi, caro Peiser”» (manoscritto cit. di W. Peiser, capitolo “Hitler, ein Imitator”, p. 3), diceva nei primi anni Trenta Gentile all’amico tedesco per rassicurarlo e infondergli un po’ di fiducia. In realtà, le cose passarono giusto per lasciar posto a un quadro ancor più fosco, fino all’assunzione e alla pianificazione del razzismo per decreto governativo. La legislazione in tema di razza precipitò gli ebrei – sia quelli italiani sia quelli che in Italia pensavano di aver raggiunto un porto sicuro – in un dramma dai più inatteso e inimmaginabile. Ancora una volta, sono le pagine di Löwith a trasmettere lo smarrimento dei profughi tedeschi di fronte a leggi che «malgrado certe formulazioni più blande, erano in fondo più infami di quelle tedesche, poiché l’Italia aveva già garantito un asilo agli emigranti prima di scacciarli nuovamente dal Paese» (Mein Leben in Deutschland, cit., trad. it., cit., p. 130). Löwith aveva però lasciato l’Italia nel 1936. Non così Walzer – che durante la sua permanenza a Roma aveva, come Kristeller (e come lui, a quanto pare, con l’interessamento di Gentile), tentato di ottenere la cittadinanza italiana per svincolarsi definitivamente dalle vessazioni provenienti da parte tedesca –, il quale venne preso alla sprovvista di fronte ai provvedimenti discriminatori. Scriveva Walzer a Gentile: «Il perché della nuova legislazione non sono riuscito ancora a capire, e, credo, non lo capirò mai finché campo» (lettera del 10 ott. 1938, AFG).

Dopo il 1938, Kristeller si trovò impossibilitato a proseguire il lavoro in Normale, a dispetto dell’impegno in suo favore di Gentile. Grazie anche all’interessamento di Cantimori e, dagli Stati Uniti, dello storico delle religioni Roland Bainton, egli potrà sfuggire nel 1939 alle persecuzioni europee spostandosi, come già accennato, a New York, alla Columbia University. E pose la parola fine sui suoi anni italiani scrivendo, dalla motonave che stava salpando per gli Stati Uniti dal porto di Palermo, un’accorata lettera di ringraziamento al filosofo attualista:

Eccellenza, nel momento di lasciare l’Italia desidero inviarle un ultimo saluto e di ringraziarla per tutto ciò che ella ha fatto per me in questi ultimi anni. Il suo interessamento continuo è stato per me un forte incoraggiamento per continuare i miei studi preferiti, e il suo aiuto premuroso ha levato o attenuato le varie difficoltà per le quali io ho dovuto passare. Nel momento di partire io posso assicurarle che non dimenticherò mai gli amici italiani e che non mi pento affatto di essere venuto qua a suo tempo. Sono stati per me anni proficui e pieni di soddisfazioni fra le quali è forse la più grande quella di aver goduto la sua stima e fiducia (Kristeller a Gentile, 13 febbr. 1939, cit. in Simoncelli 2013, p. 134).

Nel momento in cui il razzismo e l’antisemitismo divennero legge anche in Italia, il campo dei discriminati si estese a numerosi professori universitari e studiosi italiani, spesso fascisti di provata fede. Tutto ciò diede vita a un imprevisto turnover accademico, un avvicendamento per lo più svoltosi in un clima di «relativa indifferenza» (E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, 2003, p. 90). I ‘chierici’ si adeguarono alla situazione, privilegiando una valutazione del significato e dell’opportunità strettamente politici degli eventi, spesso in nome di una discutibile ragion di Stato, oppure ancora, semplicemente, approfittandone in vista di un mero tornaconto personale.

Tra gli intellettuali colpiti, non furono pochi quelli che guardarono a un protagonista della vita accademica nazionale come Gentile, cercando in lui una sponda influente che permettesse di sfuggire alle maglie discriminatorie. Da più parti ci si rivolse al filosofo attualista con l’intento di trovare il modo di essere ‘discriminati dalla discriminazione’ nelle modalità previste dai provvedimenti governativi in difesa della razza italiana, vuoi per aver maturato i meriti riconosciuti nei confronti dell’Italia fascista, vuoi per eventuali ‘eccezionali benemerenze’. Così, per ricordare qualche nome, Rodolfo Mondolfo, Gino Arias, Guido Castelnuovo, Roberto Almagià, Federigo Enriques, Arnaldo Momigliano si appoggiarono a Gentile affinché questi perorasse le loro cause nelle sedi opportune (cfr. Guerraggio, Nastasi 1993; Faraone 2003; Simoncelli 2013). Nei casi in cui queste benemerenze non potessero essere esibite, Gentile si adoperò – analogamente a quanto aveva fatto per Walzer o Kristeller – per favorire una collocazione all’estero dei colleghi. Il caso più noto, a questo riguardo, è forse quello di Mondolfo, il quale, non potendo vantare i titoli per essere esentato dalle discriminazioni, proprio grazie ai contatti oltreoceano di Gentile trovò il modo di espatriare in Argentina.

Fascismo, razzismo e antisemitismo

Le valutazioni degli studiosi intorno alla figura di Gentile sono state a lungo condizionate dalla compromissione del filosofo con le scelte del regime, spesso accompagnate da semplificazioni che facevano di Gentile ‘il filosofo del fascismo’, una sorta di tiranno capace di egemonizzare in maniera tentacolare il clima culturale italiano degli anni Trenta. Questa chiave di lettura – fuorviante e fonte di condanne sommarie e senza appello che investivano, con l’intellettuale, anche la sua filosofia – non si è in genere spinta fino a legare Gentile alla politica razzistica del regime. Anzi, autorevoli interpreti della storia culturale del Novecento – di fatto seguendo la traccia rappresentata dalle parole di De Sanctis sopra ricordate – avevano sciolto la figura del filosofo da qualsiasi rapporto con il razzismo fascista, sgombrando il campo da equivoci con affermazioni perentorie. Scriveva, per es., Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961):

Pochi uomini di cultura, anche tra coloro che godevano di tali posizioni di prestigio da non avere nulla da perdere, seppero mantenersi estranei alla canea di quegli anni. L’unico dei “grandi” che forse più seppe farlo fu Gentile (p. 443).

Eugenio Garin, dal canto suo, faceva derivare dall’appoggio garantito con continuità e tenacia a tanti studiosi ebrei profughi dalla Germania nazista, la constatazione della «profonda avversione al razzismo fascista» di Gentile (Intervista sull’intellettuale, a cura di M. Ajello, 1997, p. 39). Queste nette affermazioni che si sono appena riportate non aiutano però a cogliere la complessità del tema legato all’atteggiamento assunto da Gentile di fronte a fenomeni quali l’antisemitismo e il razzismo, e alla sua collocazione all’interno del regime fascista in relazione alla scelta apertamente razzistica di Mussolini.

Questa complessità trova una conferma nel rinnovato interesse degli storici e nei vivaci dibattiti che il tema continua a suscitare. Gennaro Sasso ha parlato esplicitamente di «passione antinaturalistica e antirazzistica» di Gentile, facendola discendere dalla «“premessa” antinaturalistica, immanente in ogni articolazione, e in ogni aspetto, del suo sistema» (1995, p. 410), muovendo al contempo al filosofo il rimprovero di non aver tratto la giusta conseguenza da queste premesse, cioè la ferma condanna del razzismo fascista. Gabriele Turi ha sottolineato come l’estraneità di Gentile al razzismo non sia stata accompagnata da nessuna «posizione pubblica», da una «aperta denuncia politica» (1995, 2006, p. 518): non dopo le leggi razziali del 1938, e nemmeno durante gli anni precedenti, nei quali il filosofo «partecipa al silenzio quasi generale degli intellettuali sulla persecuzione nazista degli ebrei». Rosella Faraone ha affrontato questo silenzio «assordante» e «stonato» del filosofo (2003, pp. 29, 106) di fronte a una deriva che, per le proprie più intime convinzioni e per i propri principi speculativi, Gentile non avrebbe dovuto in alcun modo avallare. Paolo Simoncelli ha invece rimarcato la posizione particolarissima di Gentile in quel cupo volgere della storia italiana, fino ad allentare il legame con il regime che le leggi imposero ed enfatizzandone per contro il «coraggio intellettuale» (1994, p. 80, cfr. anche Simoncelli 2013).

Il 1938 rappresenta un punto di non ritorno per il fascismo, e diventa un momento nodale anche per chi indaghi oggi la storia di Gentile. In fondo, è in relazione a questa data che si impone l’analisi della personalità gentiliana da questo punto di vista particolare. Antisemitismo e razzismo, elementi inderivabili dalla precedente esperienza speculativa e politica di Gentile, entrano a far parte della vicenda intellettuale di un uomo che si mantenne fedele a un regime razzista e pongono agli studiosi nuovi problemi in riferimento alla mancata presa di distanza da parte del filosofo da quella pagina della recente storia italiana.

Affrontare questo tema è cosa resa ancor più ardua dalla natura della documentazione con la quale gli studiosi sono tenuti a misurarsi. I pronunciamenti pubblici di Gentile intorno a fenomeni come il razzismo o l’antisemitismo sono di numero limitato, e andrebbero comunque soppesati con cautela, tenendo conto del fatto che siano stati fatti prima o dopo le leggi del 1938. Egli non si occupò specificamente dei problemi connessi alla razza. Nella sua vastissima produzione si possono comunque trovare spunti che certificano la sua distanza da questi pregiudizi. Lo scritto Le idee fondamentali (pubblicato nel 1932 sul 14° vol. dell’Enciclopedia Italiana, come prima parte della sezione Dottrina nella voce collettiva Fascismo) precisava in questi termini la natura spirituale di un popolo: «Non razza, né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da un’idea, che è volontà di esistenza e di potenza: coscienza di sé, personalità» (p. 848). Già nel secondo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere (1917), Gentile aveva chiarito che il concetto di razza andava rigettato tra le «categorie pseudostoriche» (19594, p. 263) che servono più che altro a naturalizzare e dunque ad adulterare la corretta visione della storia. Gentile studiò inoltre con passione l’ebreo Baruch Spinoza e accolse a braccia aperte il dotto rinascimentale di origine portoghese Giuda Abrabanel, detto Leone Ebreo, nella tradizione speculativa nazionale – lo chiamò il «nostro neoplatonico» (Studi sul Rinascimento, 1923, 19683, p. 106).

Di fronte alla ‘laconicità’ gentiliana intorno a fenomeni quali il razzismo e l’antisemitismo, si è spesso costretti a lavorare svolgendone le «allusioni» e le «dichiarazioni indirette» (Sasso 1995, pp. 400-01), ovvero facendolo parlare per interposta persona (allievi, autori del «Giornale critico della filosofia italiana» e dell’Enciclopedia Italiana, attualisti in genere). Sono soprattutto i carteggi gentiliani, con i perseguitati o con alcuni suoi stretti collaboratori, a trasmettere dichiarazioni a prima vista chiare su questi temi. Nel caso di Kristeller, le lettere all’amico ebreo e a Chiavacci, suo collaboratore alla Normale, certificano – con l’apprensione per le sorti di Kristeller – l’insofferenza del filosofo verso il montare della «marea antisemita» (Gentile a Chiavacci, 18 luglio e 21 ag. 1938, in Carteggio Gentile-Chiavacci, 1914-1944, a cura di P. Simoncelli, 1996, pp. 320, 332).

Ma fino a che punto queste espressioni possono essere fatte valere per intendere la posizione di Gentile di fronte a fenomeni di natura pubblica e politica? Dai carteggi si possono trarre informazioni preziose e illuminanti, ma occorre tener presente che le lettere rimangono documenti indirizzati a persone scelte e fidate. In questi documenti si trovano anche frasi nelle quali, si può presumere, Gentile utilizzi un registro espressivo privato, e i contenuti delle quali potevano benissimo non trovare uno sbocco nella vita pubblica del personaggio. Puntare l’attenzione sugli epistolari comporta dunque il rischio di perdere di vista che Gentile fu un personaggio pubblico, che portò sempre avanti progetti culturali inevitabilmente animati da una forte impronta politica; e che volle essere un educatore, non un «letterato», ma un «uomo intero» (come egli stesso scrisse in Il carattere storico della filosofia italiana – prolusione, tenuta il 10 gennaio 1918, al corso di storia della filosofia dell’Università di Roma –, poi in I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, 1913, 19633, p. 132). Si rischia di mettere nell’ombra ciò che disse pubblicamente, e anche ciò su cui fu pubblicamente reticente. Per restare al caso Kristeller: è legittimo per lo storico prendere spunto dall’uso nell’epistolario con Chiavacci dell’espressione «marea antisemita» e appoggiarsi su di essa per costruire l’immagine di un Gentile che svolge un’azione a largo raggio contro la politica razziale del fascismo? Oppure la si deve intendere come un semplice, per quanto sincero, sfogo con un amico, senza che per questo debba essere assunta come chiave di lettura per l’azione pubblica di Gentile?

Gentile pubblico e privato

Le rare ed episodiche prese di posizione pubbliche di Gentile in materia di razzismo e antisemitismo, in particolare dopo il 1938, si presentano come espressioni problematiche. Va ricordato che Gentile era rimasto estraneo alla propaganda antisemita, che aveva assunto toni sempre più allarmanti a mano a mano che ci si avvicinava al 1938; anzi, pare che il filosofo abbia espresso, durante le sue lezioni universitarie del 1937-38, la propria personale avversione di fronte alla piega che andavano prendendo gli eventi (cfr. Serafini 1991, p. 88). De Sanctis, come si è sopra accennato, indicava come esempio di «coraggio non frequente in quei tempi» l’aver Gentile lodato apertamente, in tempi di discriminazione, l’insigne italianista di origine ebraica Alessandro D’Ancona – del quale era stato allievo in Normale – in occasione della commemorazione davanti ai normalisti pisani, il 28 maggio 1942, dell’amico Michele Barbi da poco scomparso. In effetti, le appassionate parole di Gentile conducevano l’ascoltatore a legare il nome di D’Ancona a concetti che nella prospettiva gentiliana assumevano un’aura addirittura sacrale:

Noi che avemmo la fortuna di essere stati alla scuola del D’Ancona, lo ricordiamo maestro di scienza e di vita, quello che più di tutti ci fece sentire ed amare nella perennità della storia e del calore della fede vivente la Patria immortale; e abbandonarlo oggi all’oblio ci parrebbe empietà vile, poiché anche nella furia della lotta più aspra si può e si deve serbare la misura e osservare la giustizia (Commemorazione di Michele Barbi, 1943, poi in Frammenti di critica e storia letteraria, a cura di H.A. Cavallera, 1996, p. 546).

In verità, De Sanctis (seguito anche in questo da più di uno storico) taceva la clausola con la quale Gentile introduceva queste parole. D’Ancona era infatti presentato come un «israelita, ma di eccezione» (p. 546). Una clausola di per sé condizionante, e alquanto problematica per lo storico che voglia ben intendere il senso dell’intervento gentiliano, tanto più che essa veniva ulteriormente sottolineata dal filosofo, che ci teneva a precisare: «Voi sapete che le regole sono facili a ricordarsi e ad applicarsi, ma che difficile è ricordarsi delle eccezioni» (p. 546). Gentile si preparava in questo modo il terreno per una celebrazione che non poteva certo suonare ortodossa. Ma proprio queste insistite puntualizzazioni impediscono di considerare la pubblica affermazione gentiliana come una denuncia, un tentativo di boicottare o di mostrare a dito il razzismo fascista; anzi, l’elogio dell’«israelita d’eccezione» D’Ancona suona come l’ennesima ‘discriminazione della discriminazione’ per ‘eccezionali benemerenze’, e dunque pienamente in linea con i dettami del regime. Il «coraggio» del quale parlava De Sanctis deve essere, insomma, non poco ridimensionato.

Analogamente, nell’articolo Giappone guerriero («Civiltà, rivista trimestrale della Esposizione Universale di Roma», 21 gennaio 1942, poi in Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 2° vol., 1991, pp. 182-89), scritto all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, il filosofo tratteggia la prospettiva di un’alleanza a tre in vista di un nuovo ordine mondiale che «riconoscerà il vantaggio della mutua intelligenza e della collaborazione fraterna delle razze diverse, nessuna delle quali è nata a servire» (p. 189). Parole antirazziste, ma che si accompagnavano a frasi quanto meno ambigue intorno al «doppio pericolo del comunismo e dell’imperialismo industriale dei falsi democratici senza patria, ebrei o no» (p. 188). È difficile interpretare questo articolo come una polemica nei confronti del regime razzista e non è credibile che si volesse, con queste frasi, attaccare l’alleanza con il nazismo proprio mentre la si esaltava. Tanto più che, per quel che riguarda le opinioni gentiliane sul regime tedesco, esse rappresentano qualcosa di problematico: se rimangono tracce certe di una scarsa simpatia del filosofo per il dittatore tedesco e il nazionalsocialismo in alcune lettere e in qualche testimonianza (cfr., a questo proposito, Sasso 1995 e il citato manoscritto di Peiser), anche in questo caso bisogna registrare come questa scarsa simpatia non impedisca a Gentile, nel momento in cui la storia conduce il fascismo a saldare i propri destini a quelli del Reich, di inneggiare a questa alleanza.

Questi esempi evidenziano come l’estraneità di Gentile al razzismo faticasse non poco a esprimersi ed estrinsecarsi. Mai come sotto questo riguardo emerge la distanza da Croce, da parte del quale vi fu sempre, lungo tutti gli anni Trenta, una particolare attenzione alle derive più spaventose della cultura tedesca contemporanea. Croce fu tra i pochissimi che, in Italia, affrontarono di petto e in maniera conclamata il problema. Se anche è possibile innestare la posizione di Croce e Gentile in una comune radice originaria antinaturalistica perché idealistica (cfr. Sasso 1995), va precisato che da parte di Croce questi presupposti si tradussero in aperta e continuata polemica dalle pagine della «Critica», mentre la storia di Gentile fu altra: da parte sua rimangono sporadiche prese di posizione pubbliche, ovvero frasi che soltanto la pazienza degli storici ha riportato alla luce e che restano problematiche.

Occorre inoltre tener presente un aspetto caratteristico del modo di muoversi di Gentile sulla scena pubblica, riscontrabile anche quando si guarda alla sua azione in favore dei perseguitati: egli fu sempre attento a non compiere gesti inopportuni da un punto di vista politico. Questo atteggiamento è tipico di un personaggio capace di coniugare la propria eccezionale vitalità intellettuale e la volontà di influire sul panorama culturale nazionale con un controllo accorto della propria immagine pubblica. Per rimanere al tema qui analizzato, Gentile tenne un comportamento del genere anche prima dei vincoli che la legislazione impose a partire dal 1938. In episodi precedenti a questa data, Gentile aveva già sfiorato problemi riguardanti l’antisemitismo con il timore di fare passi che potessero rivelarsi sconvenienti e avventati. È forse questo un punto fermo in un terreno di indagine per il resto sdrucciolevole. Per es., nel 1934 Guido Calogero si era fatto tramite fra lo storico della filosofia tedesco Raymond Klibansky e Gentile, con l’intento di coinvolgere quest’ultimo in una pubblicazione in onore di Ernst Cassirer. Gentile si rese disponibile, ma solo dopo essersi premurato insistentemente di non essere trascinato in un’iniziativa che potesse risultare sgradita al governo e, in questo caso, alle autorità di un Paese straniero come la Germania: «Hai tu l’elenco dei collaboratori? Non vorrei che fossero tutti semiti o filosemiti, o comunque uniti da un interesse politico. Su questo punto ti prego di rispondermi subito». Soltanto dopo le rassicurazioni di Calogero, che confermò essere l’iniziativa «senza particolare intento filosemitico o antinazistico», Gentile consegnò l’articolo (cfr. le lettere che Gentile e Calogero si scambiarono tra il 14 maggio e il 22 giugno 1934, in Carteggio Gentile-Calogero, 1926-1942, a cura di C. Farnetti, 1998, pp. 95-102). Un analogo modo di fare lo si riscontra nell’appoggio dato a Peiser: fermo nel non voler interrompere la collaborazione con l’amico, Gentile fu altrettanto pronto ad adeguarsi, come sopra accennato, all’invito della casa editrice tedesca che non voleva il nome di un ebreo su una propria pubblicazione.

Gentile sembrava dunque sempre premurarsi che il suo nome non venisse compromesso. La sua cura di non travalicare taluni limiti servì a garantire un certo successo ai suoi interventi in favore di tanti intellettuali ebrei, e questa accortezza caratterizzò il suo agire a maggior ragione dopo il 1938. La stessa vicenda di Kristeller sembra rientrare in questa logica. Entro i limiti oggettivi che si sono visti, il filosofo si mosse in favore di questi con una prudenza che lo orientò nelle direzioni più opportune, spingendosi fino a rivolgersi direttamente a Mussolini, forte della stima di cui sempre aveva goduto presso di lui. Gentile si dimostrò immancabilmente attento a muoversi, con un’oculatezza che da un lato gli permise di giungere a qualche risultato favorevole per l’amico – così come per tanti altri suoi protetti –, ma che dall’altro non consente allo storico di fare del caso Kristeller un vero e proprio caso politico, e dunque una protesta nei confronti della legislazione razziale o, ancor più a monte, una critica del nazismo e della sua ideologia prima e delle leggi razziste del fascismo poi.

L’impegno per Kristeller, dunque, non pare assumere mai i contorni di una lotta per un principio, per un ideale. L’antirazzismo di Gentile, anche quando dà l’impressione di elevarsi a battaglia ideale, si ridimensiona immediatamente, ripiegando su di un piano personale, di rammarico – sincero, ma particolare – per l’amico direttamente coinvolto: «Vedi come cresce la marea antisemita? Mi dispiace pel povero Kristeller» (Gentile a Chiavacci, 18 luglio [1938], in Carteggio Gentile-Chiavacci, cit., p. 320). La preoccupazione di Gentile, nel caso di Kristeller, sembra andare tutta al grande studioso che una sfavorevole congiuntura sottraeva alla sua missione intellettuale. Da questo punto di vista, si capisce come il fatto di avere in Normale un lettore di tedesco ebreo – e dunque non apprezzato dalle autorità tedesche, che per questo motivo facevano ingerenze e spingevano per una sostituzione – gli risultasse più che altro una seccatura. Quando il destino di Kristeller fu segnato, Gentile si espresse così in una lettera a Codignola, a proposito di un candidato al lettorato di tedesco ormai vacante: «Spero bene non sia né israelita né antinazista. Mi premerebbe avere un altro Kristeller, senza il punto nero, che mi diede sempre tanto da fare» (lettera del 21 sett. 1938, cit. in Turi 1995, rist. 2006, p. 519).

Si sottolinea tutto ciò per correggere quelle letture – non infrequenti nella più recente letteratura intorno all’argomento – che hanno fatto risaltare un presunto giudizio antirazzistico di Gentile, all’origine da un lato di un suo travaglio interiore e dall’altro di un atteggiamento fieramente polemico intorno a questi temi, quasi che si possa parlare di un Gentile che scende nell’agone per sostenere una battaglia intellettuale in nome della verità contro il razzismo e l’antisemitismo. In realtà, una drammatizzazione del tema in queste due direzioni non pare fondata: nulla permette di dire che l’animo di Gentile fosse tormentato per il fatto che l’antisemitismo andava dilagando nell’Italia fascista; e le sue prese di posizione pubbliche, lo si ribadisce, sono state troppo rare perché si possa parlare di ‘polemica’. Non ci sono testimonianze che attestino un suo inespresso tormento antirazzistico, né che la marginalità osservata da alcuni nella sua collocazione all’interno del regime nei suoi ultimi anni fosse resa ancora più amara dall’antisemitismo e dal razzismo da lui tacitamente e malvolentieri accolti. Ci si può limitare a ipotizzare un contenuto disagio, rinunciando a prese di posizione recise quando si parla di questo lato della vita di Gentile.

Gli spunti antirazzistici presenti in pronunciamenti pubblici non consentono dunque di azzardare che Gentile abbia portato avanti una continuata battaglia, in primo luogo perché essi furono, per l’appunto, soltanto degli spunti; in secondo luogo, perché Gentile fu sempre molto attento nel far sì che le proprie parole non creassero scalpore, non divenissero un motivo per i suoi nemici politici di porlo in cattiva luce all’interno del regime. Inoltre, per quanto banale possa sembrare quest’affermazione, bisogna tener fermo che la fedeltà del filosofo al regime e a Mussolini non venne mai meno, e non si incrinò dopo le leggi razziali, che pure Gentile accolse con fastidio. La stessa direzione dell’Enciclopedia Italiana si allineò alle direttive del regime, decidendo di aggiornare la voce Razza del 1935 (28° vol.) – stesa dall’antropologo Gioacchino Sera – con un articolo della prima Appendice (1938) dedicato alla politica fascista della razza. Dalle lettere di Umberto Bosco a Gentile (per es., quella del 18 ag. 1938, AFG), si può intuire come una simile decisione fosse vissuta dal redattore dell’Enciclopedia come una sgradita pressione dall’esterno; ma, alla fine, l’integrazione si fece, affidandola a un giornalista di provata fede razzistica, Virginio Gayda – direttore del «Giornale d’Italia» –, che celebrò la «nuova e sostanziale politica di razza sui suoi territorî imperiali» e, in campo nazionale, contro «le rivelazioni del fondo ebraico delle più infrangibili ostilità internazionali che l’Italia fascista ha trovato sul suo cammino, durante la sua rinascenza e soprattutto in occasione dell’impresa etiopica» (p. 910).

Lo Stato come nazione consapevole della sua unità storica

Racconta Giorgio Levi Della Vida che nel 1931 Gentile, ispiratore del giuramento obbligatorio di fedeltà al fascismo da parte dei professori universitari, durante il consiglio della facoltà di Lettere e Filosofia in cui venne sancita la cacciata dall’Università di Roma dello stesso Levi Della Vida, di De Sanctis e di Ernesto Buonaiuti, prese la parola per esprimere la propria stima nei confronti dei tre colleghi che, per difendere le proprie idee, si erano rifiutati di giurare. Per spiegarsi questo comportamento, per molti versi sconcertante e contraddittorio, Levi Della Vida dapprima considerò il dispiacere gentiliano come tipico esempio di «lacrime di coccodrillo», salvo correggere successivamente questa prima reazione con la seguente considerazione:

Erano sì lacrime di coccodrillo, ma di un buon coccodrillo, di un coccodrillo al quale veramente dispiaceva che l’inesorabile processo dialettico della storia lo avesse costretto a mangiare le sue vittime, e ora piangeva su di loro in assoluta sincerità di cuore (Levi Della Vida 1966, p. 243).

Alla formula paradossale coniata da Levi Della Vida è forse bene riferirsi anche quando si voglia spiegare e comprendere il comportamento di Gentile intorno ai temi qui trattati.

Le molte testimonianze che si sono qui sommariamente richiamate, consentono di poter dire che Gentile fu davvero colpito dalle vicende degli amici e dei colleghi di origine ebraica vittime delle discriminazioni; e che la sua azione fu, nei limiti che si sono delineati, animata da sincera sollecitudine e da consapevole preoccupazione per il fatto che le persecuzioni colpivano studiosi di alta qualità che tanto potevano dare alla cultura nazionale – sotto questo aspetto, si è potuto anche far diventare il «buon coccodrillo» un «coccodrillo intelligente che piange la scomparsa delle sue vittime perché consapevole che la loro presenza sarebbe potuta risultare utile» (Guerraggio, Nastasi 1993, p. 84). Ma tutto ciò si accompagnava, anche in questo caso, alla consapevolezza che il corso storico poteva contemplare il sacrificio di questi individui in nome di qualcosa di più alto. Quando Mondolfo venne messo nella drammatica condizione di dover abbandonare l’Italia, si rivolse con fiducia a Gentile, che, come già accennato, pose i presupposti perché il collega potesse riparare in Argentina. Scrivendo al filosofo argentino Coriolano Alberini, Gentile mostrava tutta la propria affettuosa partecipazione alle traversie del «valoroso e disgraziato Collega»; ma al tempo stesso, le spiegazioni fornite al lontano corrispondente sfumavano in una aperta giustificazione delle scelte mussoliniane: «Egli è stato colpito come israelita dai recenti provvedimenti dello Stato italiano, che una fatalità politica ha costretto ad adottare una rigorosa politica razzistica» (lettere del 3 febbraio e del 18 marzo 1939, AFG). La sincera partecipazione alle sorti dei discriminati, la stima per molti tra questi e spesso l’amicizia, si accompagnavano all’intima persuasione, mai smentita e a suo dire attualisticamente fondata, che il fascismo era l’Italia, che si è italiani solo in quanto fascisti e che la vera realtà morale della nazione si ha nello Stato creatore di diritto: «Lo Stato è la nazione consapevole della sua unità storica […]. L’uomo che nella sua singola personalità si senta estraneo a tale forma, è un’astrazione storica» (Introduzione alla filosofia, 1933, 19582, p. 163).

Bibliografia

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