Giustizia

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia (2012)

Giustizia

Roberto Artoni

Il pensiero economico italiano ha dato notevoli contributi all’elaborazione del concetto di giustizia soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Mentre in epoche precedenti l’impostazione dell’economia civile settecentesca (passata poi nell’impostazione di autori lombardi come Gian Domenico Romagnosi e Carlo Cattaneo) si era basata sull’idea di felicità pubblica, a prevalente sfondo utilitaristico, il concetto di giustizia (specie nell’accezione, di origine aristotelica, di giustizia distributiva e, più in generale, di giustizia sociale) ha successivamente preso il sopravvento.

Il concetto di giustizia sociale e l’azione politica

Al fine di inquadrare adeguatamente le tematiche della giustizia sociale è utile fare riferimento alla definizione elaborata da John Rawls (1999), che identifica questo concetto con le modalità con cui

le più rilevanti istituzioni sociali distribuiscono i diritti e i doveri fondamentali e determinano la distribuzione dei benefici derivanti dalla cooperazione sociale. Con il termine istituzioni più rilevanti faccio riferimento alla costituzione politica e alle principali strutture economiche e sociali (p. 6).

Data la definizione, devono essere delineati i criteri ai quali deve ispirarsi l’azione politica perché si possa affermare che la società giusta o la giustizia sociale sia effettivamente realizzata. In quest’ambito si può fare riferimento in primo luogo a impostazioni filosofiche di portata generale.

Per la tradizione utilitaristica, scopo dell’azione pubblica dev’essere la massimizzazione della somma delle utilità individuali (o di analoghe formulazioni); gli interventi saranno più o meno incisivi (in termini di redistribuzione delle risorse) a seconda che si ammetta o meno la possibilità di comparazione interpersonale delle utilità.

La seconda impostazione, di derivazione kantiana (per la quale ciò che è giusto deve avere priorità rispetto a ciò che è bene o utile), ritiene giusta una società che adotti criteri che sarebbero scelti da tutti gli individui in condizioni d’ignoranza. Infine, in una visione che ritiene privo di significato lo stesso concetto di giustizia sociale e improprie tutte le politiche redistributive che ne possono discendere, una società è giusta quando sono rispettati i diritti individuali, ivi compreso quello di proprietà.

In un contesto attinente alla storia e alla teoria economiche, il concetto di giustizia sociale ha trovato riferimenti concreti nell’analisi del funzionamento del sistema capitalistico. L’esigenza di interventi che attenuassero gli effetti della prima rivoluzione industriale è già sostenuta da John Stuart Mill alla metà dell’Ottocento.

Mill è il primo autore che ha affrontato il problema degli interventi necessari a creare una società giusta, pur rimanendo nel contesto di un’economia liberale. Gli effetti sociali della prima rivoluzione industriale dimostrano, nella sua analisi, che l’individuo non è sempre il miglior giudice dei propri interessi quando si devono intraprendere attività che tendono a innalzare il carattere degli esseri umani o quando la necessità di adottare un riferimento di lungo periodo contrasta con la tendenza a soddisfare le esigenze immediate. La necessità di sviluppare l’educazione pubblica, d’introdurre forme di regolazione del lavoro, di varare tutele previdenziali è appunto conseguenza del fatto che la razionalità individuale è limitata e che le capacità di autotutela non sono uniformemente distribuite nella popolazione. Sempre Mill ha auspicato l’introduzione di imposte di successione che colpissero le fortune immeritate, in quanto non risultanti dallo sforzo individuale, al fine di evitare le eccessive concentrazioni di ricchezza. Le tesi o, più propriamente, le sollecitazioni di politica economica di Mill possono essere inquadrate in una prospettiva utilitaristica, ma, forse più proficuamente, possono essere viste come il risultato di un’attenta lettura della realtà e dei problemi sociali che le profonde trasformazioni economiche inevitabilmente suscitano (cfr. Artoni 1982, p. 90).

In Germania, in un periodo appena successivo, i ‘socialisti della cattedra’ (ossia la Scuola storica) cercarono di razionalizzare i necessari correttivi ai fenomeni di industrializzazione e di urbanizzazione della seconda rivoluzione industriale. Dall’analisi della realtà discende certamente la prima sistematica legislazione sociale, varata in Germania a partire dal 1881, orientata sia al perseguimento di un concetto di giustizia operativo, sia alla conservazione dell’assetto vigente, potenzialmente minacciato dalle istanze socialiste.

La seconda rivoluzione industriale, che in Europa ebbe il suo centro in Germania, fu caratterizzata da un’industrializzazione fondata sulla grande impresa e da una forte urbanizzazione: alla distruzione della famiglia patriarcale, tipica del mondo contadino con i suoi informali meccanismi di sostegno fra le diverse generazioni appartenenti allo stesso nucleo, si fece fronte con un compiuto sistema di interventi legislativi capaci di proteggere gli addetti all’industria manifatturiera dai grandi rischi dell’esistenza.

Di fatto, il modello di legislazione sociale tedesca ha ispirato analoghi interventi in tutti i Paesi avanzati; alla sua origine è stato concettualmente inquadrato dal cosiddetto socialismo della cattedra (cfr. Cusumano 1875). Si deve comunque ricordare che sia le prime enunciazioni di Mill, sia le effettive realizzazioni della Germania bismarckiana suscitarono opposizioni anche sul piano analitico.

Alla fine dell’Ottocento ebbe largo seguito (anche in Italia) il darwinismo sociale che considerava le forme di protezione sociale un meccanismo che avrebbe arrestato l’evoluzione della società verso uno stato di massima libertà; in questo stato sarebbero scomparsi tutti gli elementi coercitivi, rappresentati in particolare dall’intervento pubblico in economia in qualsiasi forma (Artoni 1985). Anche se rappresentano una fase del suo pensiero destinato a modificarsi successivamente, le posizioni liberiste o antinterventiste sono bene espresse da Luigi Einaudi in uno scritto del 1915, Gli ideali dell’incapacità:

l’organizzazione statale dei più svariati rami di assicurazione sociale è [...] un ideale che si muove entro una bassura: l’esistenza di masse umane le quali hanno bisogno di essere costrette alla previdenza, alla organizzazione e alla solidarietà (in Id., Gli ideali dell’economista, 1921, p. 137) .

La grande depressione degli anni Trenta del Novecento ha suscitato riflessioni importanti sulla possibilità di estensione dei meccanismi di mercato a tutti gli ambiti della vita sociale ed economica. Nel secondo dopoguerra, anche come risposta alle temute prospettive di rivolgimenti sociali, è stato elaborato il concetto di uguaglianza (e quindi di giustizia), allargandolo dalla sfera dell’esercizio dei diritti politici a quella di una partecipazione consapevole alla vita collettiva attraverso l’esercizio dei diritti di cittadinanza. D’altro canto, l’analisi economica ha portato a una migliore interpretazione dei fallimenti di mercato, ovverosia delle circostanze in cui anche un idealizzato funzionamento del meccanismo concorrenziale non porta a esiti ottimali nel senso paretiano.

Si può sostenere, per es., che lo sviluppo dello Stato sociale nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale sia stato il risultato congiunto di un approfondimento del concetto di democrazia e di una più precisa lettura del funzionamento dei sistemi capitalistici. Solo negli ultimi decenni sono state proposte linee di politica portatrici di una visione riduttiva della nozione di giustizia sociale.

Le tematiche della giustizia sociale trovano poi significative elaborazioni in concetti che si collocano trasversalmente rispetto alle impostazioni di carattere generale cui abbiamo fatto cenno. L’elaborazione del significato di meritocrazia e di uguali opportunità, l’individuazione delle sfere di giustizia relative a particolari beni in alternativa alla ricerca di principi onnicomprensivi, la definizione e l’interpretazione dei beni posizionali sono oggetto di approfondite analisi.

L’economia del benessere

L’odierna economia del benessere è una disciplina assai complessa, sulla quale sarebbe qui fuor di luogo intrattenerci. Il punto di interesse in questa sede riguarda l’origine paretiana di questo importante ramo dell’economia politica contemporanea, giacché ivi si ritrova uno dei contributi più noti e di rilievo della tradizione italiana di pensiero economico.

Ricorrendo alla bipartizione qui introdotta tra concezioni consequenzialiste e concezioni aprioriste (kantiane) della giustizia, occorre osservare che storicamente le prime concezioni, specie nella forma di derivazione espressamente utilitarista, sono state quelle che hanno esercitato maggiore influenza sullo sviluppo dell’analisi economica. Sarebbe tuttavia un grossolano errore quello di concepire l’economia politica moderna alla stregua di un sottoprodotto delle concezioni utilitariste.

Due sono le attrattive dell’utilitarismo ai fini dell’analisi economica: l’importanza del grado di benessere o di felicità individuale di tutti gli individui, e l’idea che anche le regole morali (e quindi gli esiti di giustizia) debbano essere valutate in base alle loro conseguenze sul benessere umano e a fenomeni esogeni.

Severe sono peraltro le critiche rivolte all’impostazione di fondo di questa corrente filosofica: dalla difficoltà di misurare l’utilità o il benessere di una persona (associata alla considerazione che esistono valori e orientamenti individuali che non possono essere ricondotti al livello di soddisfazione raggiunto), al fatto che l’utilità individuale può avere origine da motivazioni moralmente inaccettabili, al fatto, infine, che l’aggregazione dei livelli individuali di utilità può portare nei suoi effetti alla compressione di diritti personali giudicati inviolabili (Sandel 1982).

In questa sede conviene soffermarsi sulla questione, ampiamente analizzata da Vilfredo Pareto, che l’utilitarismo nella sua impostazione originale presupponeva sia la misurabilità, sia la comparabilità delle utilità individuali. Se questi presupposti erano poi associati all’ipotesi di utilità marginale decrescente del reddito (tipicamente adottata dagli economisti), ne derivava che una coerente applicazione dei principi utilitaristici avrebbe portato all’adozione di politiche fortemente egualitaristiche; si sarebbe, in altri termini, affermata una concezione di giustizia sociale che, in un periodo di progressiva estensione della democrazia formale, sarebbe risultata inaccettabile per tutti i ceti borghesi che nel corso dell’Ottocento venivano affermando il loro ruolo sociale ed economico.

Pur rimanendo in un contesto utilitaristico, gli sviluppi della teoria economica (per es., nel filone della nuova economia del benessere) sono stati indirizzati a delineare un’impostazione di politica economica, e quindi di giustizia sociale, che non fosse suscettibile di interpretazioni estreme e comunque incompatibili con il buon funzionamento di un sistema fondato sulla proprietà privata e sulla libera impresa. Di fatto si convenne che, da un lato, la misurabilità dell’utilità non era essenziale (si passò da una concezione cardinale a una ordinale di utilità) e, dall’altro, si separarono le analisi di efficienza da quelle aventi per oggetto i problemi distributivi.

Più precisamente, il concetto di ottimalità introdotto da Pareto – il quale considera ottimale una situazione nella quale sia impossibile incrementare l’utilità di un individuo senza diminuire quella di altri – divenne il riferimento fondamentale per le analisi di politica economica. Nella logica di Pareto il concetto di giustizia si sovrappone ampiamente a quello di efficienza nell’utilizzo delle risorse: un sistema è giusto quando, per una data distribuzione delle risorse, l’efficienza paretiana è realizzata.

Una rigorosa applicazione del criterio paretiano va incontro all’obiezione di comportare una drastica delimitazione delle possibilità di azioni di politica economica, giacché è facile comprendere che, nella generalità dei casi, gli interventi di politica economica violano il criterio paretiano, così da rendere poco utilizzabile il concetto di giustizia in esso implicito: di qui la continua ricerca di canoni distributivi effettivamente applicabili e logicamente inseribili nella nuova economia del benessere; si doveva in altri termini scegliere fra le possibili distribuzioni del reddito quella socialmente preferibile e su questa base costruire poi l’edificio dell’efficienza paretiana. In questo contesto si inserisce oggi il Teorema d’impossibilità di Kenneth J. Arrow (1950, 1963): nel rispetto di alcune caratteristiche connaturate a processi di scelta democratici non esiste un meccanismo capace di aggregare in modo coerente le preferenze individuali, qualunque esse siano, in un quadro informativo da cui siano bandite le comparazioni interpersonali di utilità. L’impossibilità di aggregazione, o di scelta della distribuzione socialmente preferita, è tanto più probabile quanto più divaricati sono i criteri valutativi adottati dai componenti della collettività, fatto del tutto verosimile quando si devono affrontare scelte concernenti la ripartizione delle risorse. Per converso, la possibilità di aggregazione delle preferenze individuali richiede che sia allargata la dimensione informativa su cui fondare la scelta, introducendo di fatto principi equitativi condivisi (cfr. Sen 1982).

L’economia sociale e lo Stato sociale

In epoca sia precedente sia successiva all’opera di Pareto, la tradizione italiana si caratterizza per un ampio sviluppo della tematica della cooperazione e dell’azione sociale sia come prodotto della società civile sia come effetto dell’intervento pubblico.

Lo Stato sociale, o sistema di sicurezza sociale o welfare State, è l’insieme delle istituzioni che svolgono due funzioni essenziali: redistribuire risorse fra i cittadini, riducendo la disuguaglianza e rafforzando la coesione sociale; fornire copertura assicurativa contro i grandi rischi dell’esistenza (quali vecchiaia, salute e disoccupazione). Per questi rischi, come dimostra la teoria economica, le soluzioni privatistiche o i mercati non sono, in linea generale, in grado di fornire adeguate coperture (Artoni, Casarico 2010).

Lo Stato sociale, nelle forme riscontrabili in tutti i Paesi sviluppati, è il risultato di un lungo processo evolutivo, in cui i Paesi leader hanno segnato la strada ai Paesi follower.

L’Italia rientra nel novero dei Paesi follower in diversi momenti del percorso storico: sia nei primi anni del Novecento quando il modello di riferimento era costituito dalle assicurazioni sociali bismarckiane, sia nel periodo compreso fra il 1960 e il 1980 quando nel nostro Paese sono stati adottati i modelli socialdemocratici del Nord Europa. È di notevole interesse ripercorrere il momento formativo dello Stato sociale del nostro Paese anche perché il dibattito sviluppatosi alla fine del 19° sec. presenta forti analogie con quello in corso in anni più recenti.

Anche allora si contrapponevano due scuole di pensiero fortemente differenziate nei presupposti teorici e nelle indicazioni di politica economica. La prima di stampo strettamente liberista e la seconda caratterizzata da un’inclinazione interventista. Ognuna delle due scuole traeva peraltro ispirazione da filoni di pensiero rappresentativi delle impostazioni allora dominanti nei principali Paesi europei, a dimostrazione dell’inserimento della cultura italiana nel più vasto contesto europeo; oggi, alle elaborazioni welfariste dei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale (Barr 2001; Lindert 2004), si contrappongono di nuovo filoni di pensiero che si possono ricollegare alle posizioni originariamente espresse da Friedrich A. Hayek (1944) o riproposte in particolare da un economista come Martin Feldstein (2005).

Conviene premettere un sintetico inquadramento storico (Cherubini 1977). Nel 1898 fu introdotta in Italia l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro nell’industria (dopo il fallimento delle forme di assicurazione volontaria). Nel 1919 divenne obbligatoria l’assicurazione d’invalidità e vecchiaia dei lavoratori subordinati, dopo la dimostrata inadeguatezza della cassa di previdenza per gli operai per la quale era prevista l’adesione volontaria.

Dopo la Prima guerra mondiale fu istituita l’assicurazione contro la disoccupazione, mentre con la legge sindacale del 1926 si avviò a soluzione il problema dell’assicurazione contro le malattie (precedentemente affrontato su basi volontaristiche).

Due punti meritano di essere sottolineati. In Italia, gli istituti obbligatori sono stati introdotti dopo ripetuti tentativi di soluzioni volontaristiche, destinate inevitabilmente al fallimento sia per la ristrettezza della platea degli assicurati, sia per l’incapacità di far fronte agli obblighi contributivi da parte di lavoratori in larghissima misura poveri. Tutto ciò è stato perfettamente sintetizzato da Arrow alcuni decenni dopo: «quando il mercato non è in grado di raggiungere una configurazione ottimale, la società, almeno in una certa misura, riconoscerà il divario esistente fra lo stato ottimale e quello concreto e istituzioni sociali di mercato sorgeranno nel tentativo di colmare il divario» (Uncertainty and the welfare economics of medical care, «American economic review», 1963, 53, 5, p. 947). Si può poi osservare che nel nostro Paese un sistema di sicurezza sociale pubblico è stato introdotto con un significativo ritardo rispetto agli altri Paesi avanzati, come conseguenza del fatto che i processi d’industrializzazione e di urbanizzazione, i tipici presupposti dello Stato sociale, si radicarono definitivamente nel nostro Paese nel periodo giolittiano.

Venendo all’inquadramento analitico della formazione dello Stato sociale, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento gli economisti più autorevoli si raccolsero intorno a due riviste di altissimo livello: il «Giornale degli economisti» e la «Riforma sociale». Al «Giornale degli economisti» collaborarono gli economisti che contribuirono all’elaborazione del modello economico neoclassico, in particolare nella versione walrasiana: Pareto, Maffeo Pantaleoni e Antonio De Viti De Marco. Animatore della «Riforma sociale» fu invece Francesco Saverio Nitti. Entrambe le riviste seguirono il processo di formazione del sistema di sicurezza sociale inserendolo nel più ampio dibattito sulle scelte fondamentali del nostro Paese riguardanti libero scambio o protezionismo, agricoltura o industria.

L’atteggiamento degli esponenti del «Giornale» fu sempre estremamente critico nei confronti del sistema di legislazione sociale. Non essendo in questa sede possibile delineare le singole posizioni, possiamo fare riferimento a Pantaleoni.

Per Pantaleoni le società evolute si fondano sui rapporti contrattuali che non sono caratterizzati né da violenza, né da altruismo, ma si formano su «una presunzione di uguaglianza delle parti, presunzione che vige anche colà dove le posizioni iniziali non sono uguali; in questo sistema ciascuno fa il proprio interesse ed è soggetto a tutte le conseguenze delle sue scelte e delle sue azioni» (Il secolo ventesimo secondo un individualista [1900], in Erotemi di economia, 1° vol., 1925, p. 335). La prevalenza dei rapporti contrattuali è d’altra parte il risultato di un processo selettivo che ha via via eliminato i deboli dalla compagine sociale.

«È suddiviso tutto il mondo industriale e commerciale in gruppi che lottano contro altri gruppi […] Ma havvi un dechet sociale, una specie di scoria sociale, che va eliminata e la selezione elimina dal corpo sociale» (Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia [1898], in Erotemi di economia, 1° vol., 1925, p. 265).

D’altro canto, Pantaloni individua nel meccanismo politico il fattore principale che può ostacolare la diffusione dei rapporti contrattuali. La scoria sociale che la selezione elimina o dovrebbe eliminare dal corpo sociale

rivolge gli occhi allo stato o al comune […] e in mancanza di altra risorsa si costituisce in lega di elettori politici. Questo sindacato degli inetti intende di frenare la forza che sostiene ogni attività economica, cioè l’egoismo degli individui, ossia la loro concorrenza, e in quanto non può sopprimerla vuole neutralizzarne gli effetti, togliendo il premio della vittoria a chi vinse la battaglia per la vita per darle tutto o per darne una parte a chi la perdette (Il secolo ventesimo secondo un individualista, cit., pp. 272 e 267).

Tutto il sistema di legislazione sociale è dunque uno strumento di tutela dei gruppi deboli o sconfitti, condannabile in quanto ostacola il processo di selezione e quindi, di conseguenza, il progresso economico e sociale.

Le posizioni degli altri economisti collegati al «Giornale» erano sostanzialmente simili. De Viti De Marco in particolare vedeva nella legislazione sociale il corrispettivo dei dazi protezionistici pagati dall’industria del Nord a gruppi ristretti del proletariato (gli occupati nel nascente settore manifatturiero). In altri termini, nell’età giolittiana si sarebbe verificato uno scambio fra dazi doganali e benefici sociali, peraltro modesti, a danno degli interessi dell’economia nazionale che avrebbe dovuto invece sviluppare, nell’opinione di De Viti De Marco, la sua vocazione agricola (Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), 1930).

Abbiamo già osservato che gli economisti del «Giornale» contribuirono in modo importante all’elaborazione della teoria economica. Meriterebbero tuttavia di essere indagate le ragioni per cui di tutte le possibili articolazioni della teoria marginalista che si andava allora formando in diversi Paesi europei (dall’Inghilterra, all’Austria, alla Svizzera), Pareto e Pantaleoni trassero la loro ispirazione fondamentale dalla filosofia di Herbert Spencer. Alla base della loro analisi sta, infatti, una convinta adesione a un darwinismo sociale fortemente caratterizzato. Se Spencer è stato l’ispiratore intellettuale degli economisti liberisti italiani, non sappiamo se questo filosofo ha avuto analoga influenza in altri ambiti disciplinari.

La posizione della «Riforma sociale» era, invece, del tutto antitetica. In particolare, Nitti seguiva un’impostazione antidogmatica che lo portava a rifiutare sia le visioni organicistiche dello Stato di origine tedesca (ma non le indicazioni di politica economica dei socialisti della cattedra allora dominanti in Germania; cfr. Caminati 1977), sia tutte le teorie evoluzionistiche di tipo spenceriano che hanno contribuito ad accrescere il disordine assumendo che lo sviluppo delle società e degli esseri viventi fosse regolato in ultima istanza dalle stesse leggi.

In contrapposizione ai liberisti dell’epoca, Nitti sosteneva anche che l’azione collettiva, o dello Stato, non comportava necessariamente una diminuzione della libertà individuale. Era al contrario vero che l’esercizio di alcune libertà, poi identificate nei cosiddetti diritti di cittadinanza, era possibile solo se lo Stato, nelle forme appropriate alle diverse circostanze storiche, ne garantiva le precondizioni.

L’analisi di Nitti e degli studiosi che scrissero sulla «Riforma sociale» (una rivista multidisciplinare nel senso migliore del termine) è molto ricca e non è possibile darne pienamente conto in questa sede. Il tema dell’esigenza di mantenere un adeguato grado di coesione sociale è ricorrente: un sistema tributario moderno e una legislazione che impedisca il degrado di segmenti della popolazione sono centrali in quest’ambito (La legislazione sociale in Italia e le sue difficoltà, 1892).

Queste tematiche sono peraltro inserite in un’analisi delle prospettive dell’economia italiana molto diversa da quella degli economisti liberisti. Nitti torna continuamente sull’imprescindibile necessità dell’Italia di industrializzarsi. Solo lo sviluppo industriale avrebbe garantito l’innalzamento del tenore di vita della popolazione non essendo pensabile di fondare la soluzione dei nostri problemi sullo sviluppo dell’agricoltura (L’avvenire economico dell’Italia, 1901).

Sviluppo delle fonti energetiche, crescita del settore manifatturiero con l’uso appropriato dello strumento protezionistico, miglioramento della qualità della forza lavoro con l’estensione dell’istruzione e con l’ammodernamento di tutte le strutture pubbliche furono, sul piano programmatico e sotto certi aspetti anche dal punto di vista delle realizzazioni, le caratteristiche salienti di quel periodo di sviluppo della società italiana che fu l’età giolittiana alla quale lo stesso Nitti contribuì in modo rilevante.

Non credo sia possibile riconoscere originalità analitica nel gruppo della «Riforma sociale» (anche se, in una disciplina come l’economia politica, l’originalità analitica dovrebbe essere strettamente collegata alla rilevanza pratica); si può peraltro sottolineare l’evidente dipendenza dell’impostazione di politica economica dalla Scuola storica tedesca.

I destini degli studiosi raccolti attorno al «Giornale» e di quelli facenti capo alla «Riforma sociale» furono comunque molto diversi, ed entrambi gloriosi.

Gli economisti del «Giornale» acquisirono via via fama scientifica e contribuirono a inserire l’accademia italiana nel contesto scientifico internazionale. Dal gruppo della «Riforma sociale» emerse, al contrario, una tecnocrazia di altissimo livello che guidò la trasformazione dell’economia italiana senza soluzioni di continuità per un periodo molto lungo, probabilmente esauritosi circa vent’anni fa: i nomi di Alberto Beneduce, Raffele Mattioli e Pasquale Saraceno ne sono i principali artefici.

Nelle vicende che abbiamo sinteticamente richiamato si è omesso ogni riferimento a Einaudi, la cui vicenda intellettuale costituisce comunque un punto essenziale per la comprensione dell’evoluzione dell’economia politica nel nostro Paese e, in termini generali, del pensiero liberale.

La posizione originaria di Einaudi era estremamente radicale. Nel 1915 scriveva che

il socialismo di Stato, di cui la manifestazione più caratteristica è l’organizzazione statale dei più svariati rami di assicurazione è […] un ideale che si muove entro una bassura: l’esistenza di masse umane che hanno bisogno di essere costrette alla previdenza, all’organizzazione e alla solidarietà. Una cassa di rioccupazione è utile finché si ha a che fare con una massa operaia incapace a risparmiare volontariamente nei periodi di occupazione stabile e di prosperità economica la somma necessaria a superare le morte stagioni e i periodi di crisi (Gli ideali dell’incapacità, in Id., Gli ideali di un economista, 1921, p. 137).

In uno dei suoi ultimi saggi In lode del profitto, scrive invece che

una società socialmente stabile deve tendere a dare sicurezza di vita alla grandissima maggioranza degli uomini, i quali non amano e non sono in grado di sopportare l’incertezza, non desiderano correre rischi e non saprebbero affrontarli (in Id., Prediche inutili, 1959, p. 190).

All’interno dell’arco di tempo che copre quasi cinquant’anni di intensa attività di ricerca di Einaudi sta il fondamentale dibattito con Benedetto Croce sui rapporti fra liberismo e liberalismo. Il filosofo napoletano scriveva nel marzo del 1941 (in una nota pubblicata sulla «Rivista di storia eonomica»), pochi anni prima del varo della nostra Costituzione:

La legislazione operaia e altrettali provvedimenti poterono essere considerati antiliberistici, ma non solo non erano antiliberali, sì invece sanamente liberali, in quanto concorrevano all’elevazione dell’uomo (cit. in L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia e politica, 1973).

A titolo di conclusione è opportuno sottolineare come il dibattito o il confronto da noi descritto continui anche ai nostri giorni, sia pure con terminologie differenti e con riferimenti culturali diversamente caratterizzati, ovviamente non solo nel nostro Paese.

Secondo alcuni, gli istituti del welfare State hanno cessato di svolgere una funzione sanamente liberale, ammesso che l’abbiano mai svolta, e sono ormai un vincolo al progresso economico e sociale dei Paesi sviluppati. Le politiche economiche seguite nei Paesi anglosassoni a partire dal 1980, con temporanee soluzioni di continuità, sono un’evidente applicazione di queste impostazioni.

Secondo altri, grande è il pericolo di regredire verso meccanismi sociali sostanzialmente divaricanti, anche se formalmente liberisti, quando si annullano istituti che hanno portato, nel loro sviluppo storico, alla diffusione dei diritti di cittadinanza e al rafforzamento sostanziale dei regimi democratici. Le privatizzazioni parziali d’istruzione, sanità e previdenza sociale, sempre in questa linea di analisi, hanno di fatto creato società molto più divise di quanto sia giusto dal punto di vista etico e necessario sul piano dell’efficienza economica (Artoni 2004; J.S. Hacker, The divided welfare State, 2002).

Tutte le opinioni sono legittime, anche se la conoscenza dei processi attraverso i quali certi istituti sono sorti è un presupposto imprescindibile per una corretta analisi dei problemi attuali.

Accanto al tema dello Stato sociale, altri temi similari sono rilevanti ai fini dell’analisi del concetto di giustizia sociale nella tradizione italiana. Alla luce del dibattito di fine Ottocento tra Scuola storica e nascente marginalismo, sboccia e si articola il concetto di economia sociale. Il dibattito in parola è largamente un fenomeno che appartiene alla fioritura dello storicismo in Germania (v. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1971, nuova ed. 1994), tanto che prende il nome tedesco generalmente utilizzato di Methodenstreit, ossia di «battaglia dei metodi». L’eco in Italia fu vastissima. Al centro del dibattito vi è la questione del rapporto tra etica ed economia, un rapporto disconosciuto dal canone scientifico positivista al quale si conforma il nascente marginalismo e invece riaffermato come originario e ineludibile dagli esponenti dello storicismo. Su questo punto a Pareto, Pantaleoni, e in genere a quanti si identificano nella posizione del «Giornale degli economisti», si contrappone un’ampia platea di autori che includono, per es., Angelo Messedaglia, Fedele Lampertico, Luigi Luzzatti e, in generale, gli economisti di Scuola storica. Autori come Einaudi possono essere collocati in una posizione di mediazione. In questo contesto il riferimento all’etica è implicitamente e invariabilmente a concezioni etiche non utilitariste.

Accanto al problema etico questi ultimi autori si dividono rispetto ai marginalisti anche sul tema della contrapposizione tra impostazione olistica piuttosto che individualistica nell’analisi economica, un tema che era stato anch’esso al centro del Methodenstreit tedesco: nasce infatti allora il concetto, oggi abusato sotto l’etichetta di microfondamenti, di individualismo metodologico.

Com’è facile intendere, le posizioni sopra discusse con riferimento alla «Riforma sociale» hanno caratteri di affinità con il più vasto retroterra della Scuola storica, il cui nome deriva dall’esito di contestualizzazione storico-sociale che la Scuola stessa ravvisa come fondamento necessario di ogni proposizione scientifica in economia, mentre dall’altro lato il nascente marginalismo propugna il principio di generalizzazione – e dunque di decontestualizzazione e di astrazione – delle proposizioni scientifiche.

Occorre anche ricordare che il periodo formativo della grande scuola italiana tra Otto e Novecento rappresenta un’epoca di sviluppo senza precedenti per il Paese, che appunto non avrà confronti almeno fino al cosiddetto miracolo degli anni Cinquanta. Questo si accompagnò a un massiccio esodo verso le città, come accade in tutti i fenomeni denominati di rivoluzione o decollo industriale. Le città peraltro erano del tutto inadeguate ad assorbire il fenomeno. Di fronte a problemi così vasti si sviluppa la risposta di movimenti di pensiero che tendono a rafforzare il ruolo e la funzione delle realtà politiche locali, una tendenza particolarmente viva in Italia non solo perché storicamente Paese di localismi, ma anche per la sostanziale ‘estraneità’ di vasti strati della popolazione in ogni parte del Paese rispetto alla vicenda del Risorgimento nazionale e alla formazione dello Stato unitario. Questi e simili fenomeni condizionano in Italia la riflessione sul rapporto tra società e Stato, un rapporto che ha fondamentale importanza per l’impostazione che si può dare al problema del riformismo economico e sociale.

Nasce così il cosiddetto socialismo municipale di Giovanni Montemartini, volto a rendere giustizia al cittadino di fronte all’eccesso di potere delle burocrazie centrali dello Stato: il cittadino è paragonato all’azionista di una società costituita in questo caso dalla municipalità o al socio di una cooperativa.

Ruolo e ispirazione affine ha anche il vasto movimento cooperativo che trova i suoi teorizzatori proprio tra le fila di quanti simpatizzano per la Scuola storica, come è il caso di Luzzatti, il quale fu attivo soprattutto in campo creditizio oppure di Giuseppe Toniolo, teorizzatore della economia sociale nelle sue diverse forme.

Opere

L. Einaudi, Gli ideali dell’incapacità (1915), in Id., Gli ideali di un economista, Firenze 1921.

M. Pantaleoni, Erotemi di economia, 1° vol., Bari 1925 (in partic. Tentativo di analisi del concetto di forte e debole in economia [1898]; Il secolo ventesimo secondo un individualista [1900]).

A. De Viti De Marco, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma 1930.

F.S. Nitti, La legislazione sociale in Italia e le sue difficoltà (1892), in Edizione nazionale delle opere, 1° vol., Bari 1958.

V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Milano 1964.

L. Einaudi, Lezioni di politica sociale (1949), Torino 1965.

F.S. Nitti, L’avvenire economico dell’Italia (1901), in Edizione nazionale delle opere, 7° vol., t. 1, Bari 1966.

F.S. Nitti, La scienza delle finanze (1903), in Edizione nazionale delle opere, 8° vol., Bari 1972.

L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1954), Bari 1973.

V. Pareto, I sistemi socialisti, Torino 1974.

Bibliografia

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R. Artoni, Finanza pubblica, in Dizionario di economia politica, a cura di G. Lunghini, 4° vol., Torino 1982.

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