Giustizia amministrativa

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La giustizia amministrativa – che nell’esperienza giuridica si caratterizza tradizionalmente rispetto ad altre espressioni note di giustizia, rilevanti per il rapporto con il diritto, come la giustizia civile o penale – è il complesso dei mezzi di tutela amministrativa e giurisdizionale cui qualsiasi soggetto, privato o pubblico, può ricorrere per tutelare la propria posizione giuridica nei confronti della pubblica amministrazione, laddove questa assuma una posizione di supremazia nello svolgimento della sua attività, e ottenere quindi una pronuncia oggettiva e imparziale in merito alla controversia. Tali garanzie – che alcuni definiscono giustiziali – si distinguono sia da quelle politiche, cioè dai controlli parlamentari sull’attività del potere esecutivo, sia da quelle amministrative, ossia dai controlli amministrativi d’ufficio, preventivi e successivi, sugli atti di amministrazione attiva, anche in funzione di autotutela (in quest’ambito, i mezzi di tutela amministrativa sono affidati a organi della stessa o di altra amministrazione, che esercitano tale attività in forme non giurisdizionali).

Ricorsi amministrativi. - Si tratta, in particolare, delle forme di tutela consistenti nel ricorso amministrativo, sia esso ‘in opposizione’, ‘gerarchico’ (proprio e improprio) o ‘straordinario al capo dello Stato’.

Il ricorso straordinario al Capo dello Stato – che affonda le sue radici nelle istanze rivolte dai sudditi al principe negli Stati assoluti per ottenerne una pronuncia, quale manifestazione di ‘grazia sovrana’ – si pone in alternativa rispetto al ricorso al giudice amministrativo e, dunque, ai mezzi di tutela giurisdizionale (di cui si dirà oltre), il che ne ha accentuato i caratteri giustiziali, pur essendo prevista la possibilità, per cointeressati, controinteressati e amministrazione resistente (quanto meno nel caso si tratti di ente pubblico diverso dallo Stato), di chiedere la trasposizione della controversia davanti al giudice amministrativo (possibilità che evidenzia la preferenza del legislatore per i rimedi giurisdizionali, ritenuti forme di tutela del cittadino più raffinate ed efficaci).

Il rimedio in esame è definito straordinario perché presuppone che sia esaurita la possibilità di esperire altri rimedi amministrativi, essendo infatti ammesso nei confronti di atti amministrativi definitivi; è stato tradizionalmente classificato come un rimedio impugnatorio, in quanto finalizzato all’annullamento di un provvedimento (benché sia stato ammesso anche nei confronti di ipotesi di silenzio-inadempimento), ed eliminatorio, in quanto comporta, in caso di accoglimento, solo decisioni di annullamento; infine, è proponibile, a tutela di interessi legittimi e diritti soggettivi, soltanto per vizi di legittimità.

Quanto all’ambito di applicazione, l’art. 7, comma 8 del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010) stabilisce che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica "è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa", superando la precedente concezione dell’istituto come rimedio di carattere generale.

Inoltre, l’art. 120, comma 1, c.p.a. ha stabilito che gli atti concernenti le procedure di affidamento relative a pubblici lavori, servizi o forniture sono impugnabili unicamente mediante ricorso ai Tar e, quindi, ha codificato l’esclusione del ricorso straordinario in tale materia.

I ricorsi amministrativi ordinari rivestirono particolare importanza dopo la formazione dello Stato unitario, giacché l’abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo (in forza della l. n. 2248/1865) e la conseguente devoluzione al giudice ordinario della sola tutela dei diritti soggettivi lasciò scoperti da tutela giurisdizionale gli interessi legittimi. Tali ricorsi assunsero rilevanza anche per effetto dell’istituzione, nel 1889, della giurisdizione amministrativa e delle norme che richiedevano, per esperire il ricorso al Consiglio di Stato, la definitività del provvedimento amministrativo (poi abolita dall’art. 20 della l. n. 1034/1971), la quale si acquisiva, dove il provvedimento non fosse definitivo per natura o per legge, proprio a seguito della proposizione del ricorso in via gerarchica. La decisione in esito al ricorso, peraltro, non provenendo da un organo estraneo alla pubblica amministrazione (anche se da un organo amministrativo diverso da quello che aveva emesso l’atto impugnato, tranne che nel caso dell’opposizione), poteva non essere considerata pienamente imparziale. Solo il ricorso a rimedi giurisdizionali, caratterizzati dalla assoluta estraneità del giudice rispetto alle parti in causa, avrebbe consentito un’effettiva tutela nei confronti della pubblica amministrazione.

Il sistema a doppia giurisdizione. - Il sistema italiano di giustizia amministrativa è incentrato su due giurisdizioni, quella ordinaria e quella amministrativa, che hanno pari importanza e carattere generale, e si qualifica pertanto come sistema a ‘doppia giurisdizione’.

La stessa Carta costituzionale ha elevato la distinzione tra diritto soggettivo, la cui tutela è rimessa al giudice ordinario, e interesse legittimo, la cui tutela è rimessa al giudice amministrativo, a canone e criterio generale della giurisdizione, recependo un criterio di distribuzione delle controversie prevalso dal 1891. Secondo l’insegnamento della dottrina tradizionale, il secondo si caratterizzerebbe per una tutela ‘affievolita’, ‘occasionale’ e ‘indiretta’ o, meglio, limitata e funzionalizzata, di fronte all’azione della pubblica amministrazione, specie in ambito economico-sociale, mentre il primo configurerebbe una situazione giuridica direttamente e pienamente tutelata dalla norma che lo riconosce degno di protezione anche nei confronti della pubblica amministrazione, pure preposta alla cura di interessi generali. La distinzione tra situazioni giuridiche soggettive aveva poi comportato la distinzione tra norme di azione (a fronte delle quali si è titolari di un interesse legittimo a che l’amministrazione ne osservi pienamente il dettato, essendo dirette a regolare l’attività amministrativa in sé e, specialmente, il procedimento di formazione degli atti) e norme di relazione (a fronte delle quali si è titolari di un diritto soggettivo, poiché esse regolano i rapporti tra amministrazione e cittadini, attribuendo diritti e obblighi reciproci), la classificazione degli interessi legittimi in ‘diritti affievoliti’ o ‘diritti in attesa di espansione’, l’individuazione giurisprudenziale di un obbligo di intermediazione dell’annullamento del provvedimento amministrativo lesivo delle situazioni giuridiche soggettive per ottenere il diritto al risarcimento del danno.

Questa tradizionale impostazione del nostro sistema di giustizia amministrativa ha dato luogo a uno dei più forti punti di tensione tra diritto comunitario e diritto amministrativo italiano. Il primo, infatti, non conosce la figura dell’interesse legittimo, non prevede alcuna distinzione tra norme di azione e norme di relazione, non richiede alcuna intermediazione dell’annullamento del provvedimento amministrativo lesivo ai fini dell’azione di risarcimento danni e, più in generale, non legittima alcun regime di deroga o di attenuazione della responsabilità dell’amministrazione in relazione alla consistenza della situazione giuridica soggettiva.

D’altro canto, la posizione della giurisprudenza e della dottrina è ormai unanime nel ritenere che l’interesse legittimo non costituisca più soltanto una figura processuale ma rappresenti una posizione giuridica sostanziale strettamente connessa a un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione può determinare un pregiudizio.

Tra gli altri criteri di ripartizione delle competenze tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo – che pure trae origine dalla teoria dell’affievolimento dei diritti di fronte al potere discrezionale della pubblica amministrazione – vi è poi quello che si basa sulla distinzione fra ‘carenza di potere’ ed ‘esercizio illegittimo’ del potere stesso. In particolare, di fronte a un atto amministrativo che incida su diritti soggettivi sarebbe competente il giudice amministrativo laddove si contestino le modalità di esercizio del potere discrezionale, mentre la competenza spetterebbe al giudice ordinario qualora si contesti l’appartenenza del potere stesso alla pubblica amministrazione.

In particolare, l’art. 7 del codice del processo amministrativo (d. lgs. n. 104/2010) stabilisce che sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie concernenti l’esercizio il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio del potere. Secondo un pacifico orientamento della giurisprudenza, infatti, esulano dalla giurisdizione amministrativa e appartengono alla cognizione del giudice ordinario quelle controversie in cui l’amministrazione abbia agito non attraverso strumenti autoritativi ma secondo moduli di diritto comune.

Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. - Un diverso criterio, invece, fondato sulla materia oggetto della controversia, è alla base della cosiddetta ‘giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo’, introdotta nel 1923 per il Consiglio di Stato e per le giunte provinciali amministrative e poi confermata per il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana e per i tribunali amministrativi regionali istituiti nel 1971.

Tale forma di giurisdizione consente al giudice amministrativo di conoscere delle controversie, in particolari materie espressamente indicate dalla legge, in cui siano coinvolte posizioni giuridiche aventi la connotazione non solo di interessi legittimi, ma anche di diritti soggettivi. Le ipotesi che ricadono nell’ambito della giurisdizione esclusiva sono espressamente indicate dall’art. 133 del codice del processo amministrativo: sono, infatti, attribuiti al giudice amministrativo alcuni settori, a prescindere dal tipo di situazione giuridica soggettiva da tutelare, una scelta il cui fondamento viene solitamente rinvenuto nella difficoltà di distinguere in questi settori i diritti dagli interessi.

La Corte costituzionale, nelle sentenze n. 204/2004 e 191/2006, ha ridimensionato e circoscritto il potere del legislatore di individuare le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva, ribadendone il carattere eccezionale rispetto a quella di legittimità. Nello specifico, la Corte costituzionale ha precisato che l’art. 103 Cost. stabilisce espressamente che il legislatore può attribuire la giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo solo in «particolari materie» e solo quando la pubblica amministrazione «agisce come autorità».

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