Rensi, Giuseppe

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia (2012)

Giuseppe Rensi

Fabrizio Meroi

Nel quadro della filosofia italiana della prima metà del Novecento, quella di Giuseppe Rensi è una figura assai particolare. Nonostante sia stato oggetto, in passato, di interpretazioni che ne hanno addirittura contestato lo spessore filosofico, il suo pensiero – il cui tratto più caratterizzante consiste in una ripresa di motivi propri della tradizione scettica – giunge in realtà a esiti di indubbia originalità e notevole valore teorico. Ugualmente, non può essere messa in discussione neppure la sua profonda passione civile, che alimenta gran parte della sua riflessione ed è altresì testimoniata sia dal giovanile impegno politico che dalla ferma opposizione, negli anni Venti e Trenta, al regime fascista.

La vita

Giuseppe Rensi nasce il 31 maggio 1871 a Villafranca di Verona, da un’agiata famiglia borghese. Dopo gli studi liceali, intraprende quelli di giurisprudenza, frequentando prima l’Università di Padova e poi quella di Roma, dove si laurea nel 1893. Comincia a esercitare la professione di avvocato, ma ben presto si iscrive al Partito socialista e si trasferisce a Milano, dove assume la direzione della «Lotta di classe» e collabora sia con la «Critica sociale» di Filippo Turati che con la «Rivista popolare» di Napoleone Colajanni. È però costretto, in seguito ai moti milanesi del 1898, a lasciare l’Italia e a rifugiarsi nel Canton Ticino. In Svizzera Rensi si fermerà per dieci anni, durante i quali sposa la ticinese Lauretta Perucchi (dalla quale avrà due figlie) e si inserisce a pieno titolo nella vita politica e culturale di quella che, per certi versi, può essere definita la sua seconda patria. In particolare, viene eletto, nel 1905, deputato del Gran consiglio (in seguito ricoprirà anche la carica di segretario dello stesso Gran consiglio e del Consiglio di Stato) e affianca all’attività politica quella giornalistica, scrivendo assiduamente su alcuni giornali locali. Ma sono anche gli anni, questi, della fondamentale esperienza di «Coenobium», la rivista luganese di «liberi studi» fondata nel 1906 da Enrico Bignami e Arcangelo Ghisleri, della quale Rensi sarà collaboratore e redattore capo fino al 1914; nonché delle prime opere in volume: Una Repubblica italiana (il Cantone Ticino) (1899), Gli Anciens régimes e la democrazia diretta (1902, ripubblicata nel 1926 con il titolo La democrazia diretta) e Studi e note di filosofia, storia, letteratura, economia politica (1903).

Dopo il suo ritorno in Italia, nel 1908, Rensi esce dal Partito socialista e inizia la carriera universitaria, che lo vedrà insegnare, negli anni seguenti, a Ferrara, Firenze e Messina, finché nel 1918 si stabilisce a Genova, presso il cui ateneo diviene titolare della cattedra di filosofia morale. Oltre che all’insegnamento, si dedica a un intenso lavoro di scrittura, pubblicando numerosi saggi su rivista e, soprattutto, decine di libri. Di questi ultimi vanno ricordati almeno i principali. Degli anni Dieci sono le Antinomie dello spirito (1910), il Genio etico ed altri saggi (1912), la Trascendenza (1914) e i Lineamenti di filosofia scettica (1919, 19212), il testo-chiave dello scetticismo rensiano. Dell’inizio degli anni Venti sono poi i volumi che segnano il suo momentaneo avvicinamento al fascismo, dalla Filosofia dell’autorità (1920) all’Orma di Protagora (1920), dai Principî di politica impopolare (1920) a Teoria e pratica della reazione politica (1922); ma di questo periodo sono anche le Polemiche antidogmatiche (1920), con le quali si consuma il distacco da Benedetto Croce e dalla sua filosofia, la Scepsi estetica (1920) e Introduzione alla scepsi etica (1921). Nel 1924 esce Interiora rerum (ripubblicato, con il titolo La filosofia dell’assurdo, nel 1937), una disincantata esplorazione, tra scetticismo e pessimismo, delle contraddizioni della visione idealistica e razionalistica della storia; nel 1925 Realismo, nel quale i motivi di ordine filosofico si intrecciano con quelli più specificamente politici e civili; nel 1926 Autorità e libertà, uno dei testi capitali dell’antifascismo rensiano. Risalgono al 1925 e al 1926 l’Apologia dell’ateismo e l’Apologia dello scetticismo, che escono per i tipi dell’editore modenese Angelo Fortunato Formiggini, una delle figure più interessanti nel panorama della cultura italiana della prima metà del Novecento, con il quale Rensi pubblicherà pure un ‘profilo’ di Baruch Spinoza (Spinoza, 1929).

A causa della sua opposizione al regime fascista, nel 1927 Rensi subisce una prima sospensione dall’insegnamento, nel 1930 viene anche arrestato (sarà però rimesso presto in libertà) e nel 1934 è definitivamente allontanato dalla cattedra, ottenendo comunque un incarico presso il centro bibliografico dell’Università. La sua produzione intellettuale, in ogni caso, non ne risente: anche nel corso degli anni Trenta, infatti, scrive – e pubblica – moltissimo. Da un lato, abbiamo una serie di volumetti di carattere diaristico, nei quali non mancano peraltro spunti teorici di notevole rilievo; dall’altro, vi sono diversi testi di maggiore spessore e di vario argomento, tra i quali si possono ricordare Le aporie della religione (1932), Passato presente futuro (1932), Motivi spirituali platonici (1933), Il materialismo critico (1934), Critica della morale (1935) e Autobiografia intellettuale - La mia filosofia - Testamento filosofico (1939).

Rensi muore a Genova il 14 febbraio 1941, durante un ricovero in ospedale. Alle poche persone presenti alle esequie la polizia impedisce di seguire il tragitto del carro funebre. Postumi usciranno la Morale come pazzia (1942), un secondo Spinoza (1942), le Lettere spirituali (1943), il Trasea (1948) e la raccolta di scritti sparsi Sale della vita (1951).

Dal positivismo all’idealismo

La filosofia di Rensi è, all’inizio, di marca nettamente positivistica. Il giovane giornalista e militante socialista che opera tra Verona, Milano e la Svizzera è infatti, dal punto di vista dell’impostazione filosofica generale, un seguace del positivismo. Un positivismo, quello del ‘primo’ Rensi, che è stato definito – probabilmente a ragione – «acritico e di seconda mano» (G. Rognini, Giuseppe Rensi. Dal positivismo all’idealismo (1895-1914), 1986, p. 11); ma che, in ogni caso, fa da sfondo al suo impegno politico e alla sua riflessione teorica, sui temi più diversi, tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo. Il suo principale obiettivo negli scritti di questi anni, molti dei quali sono raccolti in Studi e note del 1903, è quello di contribuire alla ricerca di una fondazione scientifica del socialismo, di coniugare – in altre parole – Herbert Spencer e Charles Darwin con Karl Marx (del tutto in linea, del resto, con l’orientamento prevalente all’interno del socialismo italiano di fine Ottocento, in particolare con quello di Turati e della «Critica sociale»). Ma il positivismo di Rensi si apre anche a suggestioni di tipo vagamente religioso (come accade nell’articolo La letteratura della meditazione, uscito nel 1902 sull’«Educazione politica») e, soprattutto, si colora a un certo punto di tinte addirittura idealistiche (come è attestato dal saggio La rinascita dell’idealismo, pubblicato nel 1905 sulla «Critica sociale»), preparando in tal modo quella che sarà, negli anni successivi, la sua adesione alla prospettiva – appunto – dell’idealismo.

Dopo essere stato positivista, Rensi diventa dunque idealista. Ma questa nuova fase del suo itinerario di pensiero può essere a sua volta suddivisa in due momenti distinti. In un primo momento, nella seconda metà del decennio inaugurale del Novecento, l’idealismo rensiano è di impronta decisamente immanentistica. Il monismo e il razionalismo che avevano tra l’altro caratterizzato il suo positivismo spingono ora Rensi verso una soluzione ‘hegeliana’ della problematica filosofica. Ed è proprio a Georg Wilhelm Friedrich Hegel che egli guarda anzitutto; a Hegel e, insieme, alla filosofia indiana. Nel denso saggio Hegel, il cristianesimo e il vedânta, uscito su «Coenobium» nel 1907 e inserito poi nel Genio etico del 1912, il pensatore tedesco viene visto come il punto di arrivo di un percorso – quello della tradizione moderna – che, passando attraverso John Locke e George Berkeley, David Hume e Immanuel Kant, giunge infine alla conclusione che «la realtà e il pensiero, l’essere e il conoscere, coincidono perfettamente» (Il genio etico, 1912, pp. 214-15), che «la vera e suprema realtà, è sempre e soltanto il pensiero, l’idea» (p. 216) e che quest’ultima, «essendo la forza universalmente creatrice, è Dio» (p. 217). In ciò, l’hegelismo non sarebbe affatto affine al cristianesimo: infatti «il Dio cristiano – scrive Rensi – è un Dio che esiste fuori del mondo, e che esiste come piena, perfetta e infinita coscienza, prima del mondo da lui creato»; mentre «il Dio di Hegel […] non esiste fuori del mondo, perché non esiste se non creando, e non attinge la piena e perfetta coscienza se non alla fine della sua creazione» (p. 218). Esso risulta invece avere molti punti in comune con il vedântismo: «il vedântino […] scorge in sé non un’essenza dell’universo cieca, triste, illogica, ma un’essenza eminentemente razionale, luminosa, divina», e

questa essenza che scopre in sé […] è […] identica all’Idea di Hegel, a quella essenza, a quella mente dell’universo che – Rensi cita lo Hegel della celebre chiusa dell’Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften – “eterna in sé e per sé, si attua, si produce e gode sé stessa eternamente come spirito assoluto” (pp. 222-23).

In un secondo momento, nella prima metà degli anni Dieci, l’idealismo rensiano si configura invece come un idealismo di tipo trascendente. Adesso Rensi, polemizzando con l’orientamento crociano e rivedendo le proprie posizioni precedenti, giudica «insoddisfacente» l’interpretazione meramente immanentistica dell’idealismo e afferma con decisione che

il pensiero, o Dio, incarnato e immanente in noi, presuppone […] un Dio trascendente e disincarnato, preesistente all’incarnazione e che ha voluto incarnarsi (La trascendenza, 1914, p. 21).

L’immanenza stessa, insomma, sfocerebbe – secondo Rensi – nella trascendenza. Ciò avverrebbe sia in ambito teoretico che in ambito etico; e proprio su quest’ultimo versante Rensi concentra la sua attenzione, sostenendo che l’etica idealista – così come, del resto, quella kantiana e quella positivista – è in realtà un’etica eteronoma, che implica, da ultimo, l’esistenza di «un’entità superumana e trascendente». L’«universale etico» dell’idealismo, infatti, deve essere concepito come

la libera, autonoma, incontrollabile affermazione dell’universalizzabilità di un’infinità di massime diverse che, per ciascuna di esse, compie lo Spirito nei singoli individui.

E tale «Spirito» dovrà essere a sua volta concepito come una «forza od attività» che non è né un «prodotto degli individui», né è «in questi totalmente contenuta», ma preesiste agli individui come un’entità superumana e trascendente, la quale produce gli individui, ciascuno come veicolo, stromento, mezzo di estrinsecazione, d’uno o d’alcuni dei suoi aspetti, delle sue direzioni, delle sue volizioni (La trascendenza, cit., pp. 191-92).

La dimensione squisitamente trascendente della concezione etica ora professata da Rensi è così del tutto evidente; e non sorprende che l’approdo conclusivo sia rappresentato da una morale ‘intuizionista’ e ‘aristocratica’ (che risente anche di suggestioni platoniche e paoline): «il bene non appartiene alla ragione di tutti, ma soltanto a quella dei pochi in cui si incarna la ragione etica e che sono da questa specificamente attivati», per cui «l’intuizione del bene, come ogni ‘intuizione’, è propria di pochi, e quindi la virtù è dote essenzialmente aristocratica» (pp. 419-20).

Lo scetticismo

Così lo stesso Rensi presenterà, successivamente, la ‘svolta’ decisiva del suo percorso filosofico, negando che essa potesse risultare contraddittoria rispetto alla sua riflessione precedente (di ciò era stato ferocemente accusato da alcune figure di spicco della cultura italiana dell’epoca, da Croce a Giovanni Gentile, a Luigi Russo) e insistendo, invece, sull’elemento della continuità:

Fu mentre ero all’Università di Messina, intorno al 1916, che acquistai io stesso piena consapevolezza dell’indole scettica della mia mente e che gli sparsi ingredienti scettici sempre stati presenti nel mio spirito, vennero a fondersi in un tutto armonico e completo (Autobiografia intellettuale, 19892, pp. 24-25).

Del resto, già nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia scettica egli era stato, su questo punto, assai esplicito, rivendicando come «propria, originaria ed essenziale» al suo pensiero, fin dall’inizio, l’«indole critica», la «tendenza ad avvertire chiaramente le antinomie e i contrasti», la «disposizione […] a non ammettere in filosofia la possibilità di conclusioni apodittiche» (Lineamenti di filosofia scettica, 1919, pp. XI-XII): tutti tratti, questi, che avrebbero quindi, per così dire, preparato il terreno per un ingresso in grande stile sulla scena della scepsi. Vi furono però, certamente, vari fattori che – per sua stessa ammissione – contribuirono a fargli comprendere che la natura autentica della sua filosofia «aveva un nome celebre e consacrato nella storia dei sistemi e sotto di esso spontaneamente veniva a classificarsi» (p. XII). Si trattava della scoperta dell’impossibilità di fondare l’universalità dello spirito nel campo delle scienze giuridiche, dell’incontro con l’opera di un autore come Charles-Bernard Renouvier, dell’approfondimento della conoscenza dei testi degli scettici antichi e, soprattutto, della guerra, un evento che drammaticamente dimostrava – secondo Rensi – l’inesistenza di una «ragione» e di uno «spirito» unici e assoluti:

Che cos’è […] la guerra? È l’inevitabile prodotto e la necessaria espressione sanguinosa dell’urto di due opposti pronunciati della ragione, di due ‘intuizioni’, di due ‘evidenze’, ciascuna delle quali sente con incrollabile certezza di essere il prodotto della ‘sintesi a priori’, sente di essere adeguata alla ragione, sente che non può lasciarsi negare o comprimere perché ciò sarebbe conculcare la stessa ragione; ma sopra le quali ‘evidenze’ per stabilire quale di esse sia autenticamente il prodotto della ‘sintesi a priori’ non v’è […] alcun giudice. Le ragioni che sono infallibilmente certe fino al sangue ed alla morte delle proprie opposte intuizioni, sono più. La ragione non è dunque una. Essa non ci dà l’obbiettivo. Non esiste uno spirito assoluto; ma una miriade di spiriti diversi ugualmente assoluti. Ecco il significato della guerra (Lineamenti di filosofia scettica, cit., pp. 45-46).

Questa è dunque la via che conduce Rensi allo scetticismo: uno scetticismo che si collega allora direttamente all’idea di ‘pluriversalità’ – anziché ‘universalità’ – della ragione e che gli appare come la filosofia più adatta a incarnare lo spirito del tempo. Scrive pochi anni dopo: «lo scetticismo è la concezione propria dei pensatori più rappresentativi del presente momento» (Louis Rougier ed Émile Meyerson in Francia, Arthur James Balfour e Francis Herbert Bradley in Inghilterra, Wilhelm Dilthey e Georg Simmel in Germania), nonché quella in cui «si è fatto coscienza pulsante e vibrante lo strazio della nostra età che non sa trovare unità e pace»; e conclude: «lo scetticismo è veramente il frutto più maturo dell’epoca» (Apologia dello scetticismo, 1926, p. 9). Peraltro – Rensi ne è perfettamente consapevole – una trattazione scettica della problematica filosofica, evidentemente, è sempre esistita, opponendosi regolarmente e frontalmente a ogni razionalismo o idealismo (da quello platonico a quello stoico, da quello di René Descartes a quello di Kant, da quello di Johann Gottlieb Fichte a quello di Hegel). In ultima analisi – e in questa sua veste immutata attraverso le singole epoche – «lo scetticismo non è altro che antirazionalismo e antidealismo» (p. 12). Se la caratteristica principale di tutte le prospettive a sfondo razionalistico o idealistico è sempre stata la certezza che «ciò che è esigenza imprescindibile della ragione […] per ciò solo abbia l’essere», che quindi «i tratti essenziali del reale siano ritrovabili dalla ragione in sé stessa» e che «questi tratti fondamentali del reale, che sono ricavabili dalla ragione, che sono ragione, posseggano assolutezza, apoditticità, universalità», lo scetticismo – molto semplicemente – è proprio la negazione di tutto questo, «la negazione che vi sia alcunché […] di apodittico, di universale, di assoluto»; la negazione, cioè,

che il mondo, il reale, i fatti siano deducibili dalla ragione, abbiano una ragione, siano ragione, e che questa quindi ricavando da sé possa approdare al reale medesimo (Apologia dello scetticismo, cit., pp. 18-19).

Se però – precisa Rensi – lo scetticismo nega in modo così deciso la razionalità del reale, esso non nega affatto il reale in se stesso: «lo scetticismo non si è mai sognato di negare la verità dei fatti; […] ciò che esso ha solo sempre negato è la razionalità e il razionalismo» (p. 23). Ed è questo lo snodo concettuale che permette a Rensi di confutare la più classica delle obiezioni antiscettiche, secondo la quale lo scettico cadrebbe in contraddizione poiché, affermando che non vi è alcuna verità, ammetterebbe comunque l’esistenza di una forma di verità. Bisogna chiarire – risponde Rensi – che cosa si intende per ‘verità’. Si può dire, infatti, che lo scetticismo nega la verità solo nel senso che

esso nega l’esistenza della verità assoluta, per così dire imposta apoditticamente e universalmente dalla ragione ricavante dai suoi eterni e universali princìpi. Non nega già una verità mutabile, qua e là, o prima e poi, diversa, relativa (pp. 25-26).

Una verità, appunto, come quella che risiede nei fatti, che allora potranno essere sì oggetto di osservazione, ma non di deduzione razionale. Rensi può così fissare quella che ritiene essere l’autentica «formula» dello scetticismo, che non sarà la tradizionale – ma fuorviante – «non c’è verità», bensì la seguente:

Ecco i fatti; essi non hanno alcuna spiegazione (essenziale, razionale); essi non hanno alcuna ragione. Il reale è; è per questa non-ragione che è; è, senza essere deducibile dalla ragione; è, e non è ragione (pp. 26-27).

E può altresì dichiarare, infine, che tutte le metafisiche «mulinano nel regno dell’irreale, della fantasia, del sogno» (p. 31).

Alla luce di quanto si è detto, appare chiaro che quello di Rensi è uno scetticismo che potremmo definire ‘moderato’, anche perché egli stesso lo qualifica come ‘positivistico’, ‘realistico’ e – addirittura – ‘materialistico’. Dal momento che «sostiene che ci si deve ridurre alla constatazione e coordinazione sperimentale e scientifica dei fatti», lo scetticismo è infatti positivismo,

non ostante che la maggior parte dei positivisti, per la solita paura della parola, respingano la propria identità con esso e si rifiutino di veder in esso la stessa propria immagine (pp. 67 e 68-69).

Ed è positivismo in senso non fenomenistico, ma realistico:

Esso non ammette che esista solo ciò che è appreso dalla coscienza, che l’esistenza delle cose consista nel loro essere percepite (o pensate), che esse sia percipi (o cogitari). Lo scetticismo ritiene anzi, e deve logicamente ritenere, che ciò che è appreso dalla coscienza, le percezioni o sensazioni, sia rivelatore d’alcunché che è per sé, che esiste a tutto suo agio fuori e indipendentemente dalla coscienza, che non ha affatto bisogno di aspettare che la coscienza vi dia gli elementi dell’esistenza, le forme spaziali, temporali, categoriali. Queste […] sono già nella realtà extramentale, nelle cose, nei fenomeni, che sono fenomeni in sé (pp. 70-71).

Un realismo, questo, che risulta essere, nella sua più intima essenza, materialistico:

Ma che cosa significa dire che tutto ciò che è reale deve essere reale per avere le forme della spazialità (cioè dell’estensione), della temporalità, delle concatenazioni categoriali? Significa dire […] che si può vedere o toccare; e questo alla sua volta significa dire che è materiale. Tutto ciò che esiste è materiale (p. 75).

Di qui il «realismo» e il «materialismo critico» dei quali Rensi, sulla base di un’attenta e originale rilettura del kantismo, si fa convinto sostenitore tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta – e ai quali dedica, in questo periodo, diversi scritti importanti. Peraltro – si può osservare – un tale allargamento del campo d’indagine non compromette, anzi arricchisce la sua impostazione squisitamente scettica, in virtù della quale – tra l’altro – egli viene presentato, accanto ad Adolfo Levi, come esponente italiano dello scetticismo novecentesco nel 31° volume della Enciclopedia Italiana, pubblicato nel 1936.

Pessimismo, irrazionalismo, misticismo

La vena irrazionalistica del pensiero di Rensi, decisiva – come si è visto – nel determinare il carattere complessivo dell’orientamento scettico, alimenta anche – e soprattutto – la sua opera in volume più riuscita, quella Filosofia dell’assurdo che nel 1937, riprendendo e rielaborando Interiora rerum del 1924, riassume con grande chiarezza ed efficacia i termini essenziali della Weltanschauung rensiana. Coniugando scetticismo e pessimismo, dei quali rivendica la matrice unitaria affermando che «sono rami del medesimo tronco» e che «rampollano spontaneamente dalla medesima radice» (La filosofia dell’assurdo, 19912, p. 13), Rensi rivela e illustra, in pagine che colpiscono per lucidità di ragionamento e agilità di scrittura, quella che a suo parere è la vera natura della realtà. Al fondo delle cose, della vita stessa e delle vicende dell’umanità non vi sarebbe altro – egli sostiene – che «assurdo» e «contraddizione». E la storia, al di là di qualsiasi tentativo di spiegazione (la polemica rensiana è sempre mirata ai sistemi razionalistici e idealistici), avrebbe un unico significato: quello di un’eterna fuga da un presente dominato dal male e, appunto, dall’assurdo (e non certo quello di un continuo avanzamento dello spirito universale verso il meglio). La storia, in questa ottica, è solamente caso e ripetizione: da un lato, infatti, in quanto «non è che vita ed esplicazione d’una realtà irrazionale», essa «non può essere, e non è, che una serie di casi ossia di assurdi» (p. 167); dall’altro, se «l’universo e in esso l’umanità per non cadere nel nulla, per continuar ad essere, deve essere eterno processo», allora «questo – la storia – non potendo finir mai, non può essere che ripetizione» (p. 203).

Con tutto ciò, evidentemente, Rensi si colloca in una linea di pensiero assai feconda della cultura occidentale, che porta dall’antica sapienza greca almeno fino ad Arthur Schopenhauer (non a caso, uno degli autori più amati da Rensi, al pari di Giacomo Leopardi). Senonché, nelle battute conclusive della Filosofia dell’assurdo, una simile visione del mondo conduce a una singolare ‘professione di fede’:

Proprio questa capacità di reggere in un mondo d’assurdo, cioè di guardare in faccia l’assurdo del mondo senza aver bisogno di nasconderselo con provvidi palliativi filosofici e religiosi messi insieme per raggiungere ad ogni costo quel fine dell’occultamento d’una cosa, che, perché fa paura, non si ha il coraggio di fissare nella sua nudità, appunto questa capacità, dico, è tutt’uno con l’elemento più profondo dello spirito religioso (La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 219-20).

Chiaramente, Rensi non pensa all’«elemento ottimista» della religione, «quello che costruisce la felicità ultraterrena»; ma a «quello che ne forma la vera essenza, quello in ogni modo che è la sua scaturigine, la sua ragione di vita», e che egli individua, audacemente ma coerentemente, in un’«affermazione di pessimismo e di irrazionalismo» (p. 220). Di conseguenza, la sua attenzione si rivolge non tanto alle religioni rivelate nella loro versione ‘ufficiale’, tendente a proporsi come una soluzione dei problemi dell’uomo, quanto alle manifestazioni di una religiosità in costante confronto con l’assurdità dell’esistenza e, in particolare, al misticismo. Le Lettere spirituali, il testo postumo del 1943 che raccoglie un cospicuo numero di brevi scritti degli ultimi anni, rendono molto bene l’idea dello sviluppo del pensiero rensiano in questa direzione. Per un verso, vi è un nesso costitutivo che collega le riflessioni contenute in quest’opera con quelle svolte nella Filosofia dell’assurdo:

La storia non è che un insieme di casi, di assurdi, di iniquità e di stoltezze. Ed è […] proprio perciò che essa ti può innalzare ad un elevatissimo spirito religioso (Lettere spirituali, 19872, p. 94).

Per l’altro verso, Rensi approda decisamente a una concezione religiosa che, sulla scorta dell’identificazione «Dio» = «Nulla», entra senza alcun dubbio in una dimensione di tipo mistico (l’autore più citato, in tal senso, è Meister Eckhart):

Dio non lo puoi pensare che come non spaziale […]. Quindi lo puoi solo pensare come un non posto davanti a ciò che, soltanto, per noi è Essere, vale a dire ciò che ha estensione, che è nello spazio, ossia a tutto questo universo visibile e tangibile, a tutto ciò che è reale, a tutto ciò che […] noi possiamo pensare come realtà. Ossia Dio non lo puoi pensare che come Non-Essere, Nulla.

Questo è appunto il pensiero forse di tutti i più grandi religiosi, e certamente di quelli tra essi in cui la vita religiosa raggiunge maggiori profondità, cioè dei mistici (p. 98).

Ma, al tempo stesso, questa concezione religiosa assume una forte colorazione etica. Il «Nulla» di cui Rensi parla, un «Nulla» che appunto si contrappone all’«Essere» ‘reale’ del nostro mondo, ma che in realtà si configura come il ‘vero’ «Essere», acquista infine un contenuto ben preciso: i «valori morali e spirituali», che dovrebbero guidare l’agire umano contro ogni ragione terrena e contro ogni calcolo di convenienza. Scrive Rensi, lapidario: «La vera religione, la vera credenza in Dio, è la credenza nella realtà di valori morali e spirituali» (p. 167). Ed è su queste basi che egli elabora, da ultimo, una prospettiva etica a sfondo religioso che, rifiutando qualsiasi presupposto di carattere razionale o materiale (a essere criticate sono soprattutto le dottrine dell’utilitarismo anglosassone), ruota tutta intorno all’idea di «morale come pazzia»: è la prospettiva che recupera alcune fulminanti intuizioni del periodo dell’idealismo ‘trascendente’ e che è oggetto, nell’anno accademico 1933-34, del suo ultimo corso universitario, prima della dolorosa interruzione forzata dell’insegnamento.

L’impegno politico e civile

Al di là degli esiti finali della riflessione squisitamente etica, comunque, una profonda tensione morale accompagna l’intero percorso teorico di Rensi ed è altresì, fin dal principio, alla radice del suo impegno politico e civile. La stessa adesione iniziale al socialismo è anzitutto dovuta, più che a una piena condivisione dell’ideologia marxista, a ragioni di ordine etico: la priorità assoluta, per il giovane avvocato veronese che decide di scendere in campo al fianco delle forze politiche socialiste, è l’affermazione di un ideale di libertà e di giustizia sociale che si pone prima di tutto come ineludibile esigenza morale ispirata anche alla tradizione democratica risorgimentale (fondamentali sono gli articoli su Giuseppe Mazzini, Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane, ossia sui Profeti dell’idea socialista in Italia, pubblicati sulla «Critica sociale» tra il marzo e l’aprile del 1901 e poi inseriti, nel 1903, nel già ricordato Studi e note) e che – come si è accennato – necessita di un ‘supporto’ di tipo positivistico.

Né la spiccata sensibilità alle problematiche etiche e sociali è estranea alla grande ammirazione che Rensi prova per le istituzioni politiche e civili del Canton Ticino, istituzioni che ha modo di conoscere e di apprezzare da vicino – e dall’interno, dato il suo coinvolgimento diretto – durante il decennale esilio svizzero. La più significativa attestazione di stima nei confronti del sistema democratico del Paese che lo aveva accolto è rappresentata dal volumetto Una Repubblica italiana (il Cantone Ticino) del 1899 (già poco dopo, quindi, la fuga dall’Italia). Rensi individua nella «piena universalità del suffragio» e nell’«eleggibilità e periodicità di tutti gli uffici pubblici» i cardini della «vita politica della Repubblica ticinese» e, insieme, i principi in grado di garantire «la vera e la sola possibile sovranità popolare» (Una Repubblica italiana. Il Cantone Ticino, a cura di G. Vigorelli, 19942, p. 43); esamina nel dettaglio sia l’evoluzione storica che ha portato il Ticino all’invidiabile stato attuale di sviluppo democratico, sia la struttura delle singole istituzioni politiche nelle quali tale sviluppo si realizza concretamente; tesse infine un elogio sentitissimo dell’alto grado di civiltà raggiunto da questa «frazione d’Italia» alla quale l’Italia intera dovrebbe guardare – l’intento polemico verso la nostra situazione nazionale dell’epoca è assai evidente – come a un esempio da imitare:

Il Ticino, […] questa frazione d’Italia che crebbe sotto la democrazia repubblicana, ebbe uno sviluppo di vita civile, da ogni punto di vista, rapidissimo. Mosso questo sviluppo da umili inizii, ben più umili di quelli da cui partivano la maggior parte delle altre terre di lingua italiana, esso raggiunse uno stadio di gran lunga superiore – sia nella evoluzione delle istituzioni politiche, sia nella maggior diffusione dell’istruzione, sia nella minore delinquenza – di quello toccato dall’Italia ricostituitasi a nazione sotto la monarchia. Questa Italia repubblicana, adunque, assomma in sé un più gran numero degli elementi essenziali di civiltà che non l’Italia regia (p. 67).

E proprio al modello svizzero è largamente debitrice l’opera più importante del Rensi ‘politico’, Gli Anciens régimes e la democrazia diretta del 1902, nella quale, sulla scorta di un’ardita interpretazione della teoria della «classe politica» di Gaetano Mosca, viene sostenuta l’assenza di sostanziali differenze tra le antiche monarchie assolute e le moderne monarchie costituzionali e viene affermato, conseguentemente, che una radicale rottura con il passato avviene soltanto negli Stati che si siano trasformati in repubbliche e che abbiano saputo dare vita a una reale forma di democrazia diretta.

La componente etica è ben presente, poi, anche nei testi del Rensi che simpatizza, all’inizio degli anni Venti, per il nascente fascismo (il più organico – e noto – dei quali è sicuramente la Filosofia dell’autorità, del 1920). È, questo, il Rensi più discusso, del quale sono state fornite, nel corso del tempo, interpretazioni assai divergenti. E, in effetti, si tratta certamente del Rensi più discutibile, che abbandona molti degli ideali che in vario modo (tra socialismo e repubblicanesimo) lo avevano guidato fino a questo momento, per sposare senz’altro la causa – sul piano teorico – del pensiero reazionario e – sul piano pratico – di una ricomposizione in senso autoritario degli aspri contrasti politici e sociali di quegli anni. In ogni caso, quello che non viene meno, neppure in questa fase controversa del suo lungo itinerario, è la fedeltà a una concezione fondamentalmente etica della politica, una concezione che ora lo porta, da un lato, a criticare le posizioni dei socialisti perché metterebbero a rischio la solidità della compagine statale; dall’altro, a difendere invece quelle della «nuova Destra», l’unica forza politica – a suo parere – in grado di restaurare quello «spirito di conservazione» che è sinonimo di

conservazione delle idee madri e dei principii direttivi su cui una società data si regge, consolidamento delle coscienze intorno ad essi, mantenimento inconcusso sulle coscienze della loro autorità (La nuova Destra, «Il resto del Carlino», 15 gennaio 1922, in Id., Teoria e pratica della reazione politica, 1922, p. 207).

L’antifascismo

Soprattutto, però, una forte tensione morale caratterizza la vita e l’opera del Rensi che al fascismo si oppone fieramente e con fermezza. Ben presto, egli prende nettamente le distanze da quel movimento nel quale aveva creduto di poter trovare una risposta soddisfacente alla sua domanda di rigore sia etico che politico: non rinnega la propria fiducia nel principio d’autorità, ma comprende che l’attuazione di quest’ultimo si è dimostrata totalmente fallimentare. Spiega nella Prefazione ad Autorità e libertà del 1926, il testo che rappresenta «l’appendice, o meglio si potrebbe dire l’interpretazione autentica» della precedente Filosofia dell’autorità:

Pel fatto che condivido, anzi è mio, il principio “sistema politico d’autorità contro sistema di democrazia assoluta”, sono separato dagli avversari della presente situazione; ma sono altresì, e più, separato dai sostenitori di essa perché ritengo che l’applicazione stata fatta del principio d’autorità sia contraddittoria ed errata da cima a fondo; perniciosa alla vita civile e alla moralità pubblica in quanto ha creato una condizione di cose che non si può descrivere meglio che con gli emistichi virgiliani “multae scelerum facies”, “fas versum atque nefas” (Autorità e libertà, a cura e con un’introduzione di A. Montano, 20032, p. 73).

Rensi si volge allora a un ideale di perfetta identificazione tra morale e politica, del quale individua l’esempio sommo nella dottrina platonica:

Platone, a differenza della maggior parte dei moderni, e assai più comprensivamente di essi, non separa la vita e la psiche individuale dalla vita e dalla psiche sociale, la vita etico-individuale dalla vita etico-sociale, e quindi la politica dalla morale. […] Una profonda corrente spirituale della medesima natura circola e ricircola nell’individuo e nella società e nello Stato in cui esso vive, e li rende omologhi l’uno all’altro. La politica è il sano e saggio modo di essere e di condursi (cioè l’eticità) della collettività, come la morale è la πολιτεία del singolo, cioè il sano e buono stato del suo spirito. E quella agisce su questa, questa su quella; entrambe si condizionano a vicenda (Motivi spirituali platonici, 1933, pp. 124-25).

Ma, dal momento che – oggi come ai tempi di Platone – il più delle volte un tale ideale si rivela esso stesso irrealizzabile, l’autentico sentimento morale non può che tradursi in un’«etica di opposizione». E se un’«etica di opposizione» fu, alla fine, quella «accentuata, combattiva, rigorista ed estremista» di Platone, il quale non era un «filosofo da tavolino», ma viveva immerso «nella realtà quotidiana politica e sociale del suo tempo», una realtà che gli suscitava un «disgusto profondo» (p. 193), «etica di opposizione» è anche, ugualmente, quella di Rensi, pensatore sempre convinto che la filosofia debba essere «battuta a fuoco sull’incudine dei fatti» (G. Rensi, L’orma di Protagora, 1920, p. X), il quale si trova a dover fronteggiare un dispotismo tra i più insidiosi e dannosi, responsabile di una nefasta degenerazione dei costumi e delle norme del vivere civile.

Il frutto più maturo di questo atteggiamento rensiano è costituito dal Trasea, un volume composto presumibilmente nel 1940 e pubblicato postumo nel 1948, pensato e voluto dal suo autore «per ammonire il popolo italiano» (A. Poggi, La vita secondo Giuseppe Rensi, introduzione a G. Rensi, Trasea, 1948, p. 14). Vi è narrata la vicenda del senatore romano Trasea Peto, oppositore dell’imperatore Nerone dapprima in una forma «prudente e temperata», poi con toni di «più decisa riprovazione» (Trasea, cit., pp. 100 e 104), tanto da arrivare, da ultimo, a togliersi la vita. La prima parte dell’opera, in particolare, è un affresco in cui viene dipinta, a tinte fosche, la realtà politica e civile di un impero romano dietro il quale non è difficile vedere, in controluce, il regime fascista. Scrive infatti Rensi:

L’Impero non fu altro che questo: il trionfo della demagogia, che spezzando con la violenza i quadri della costituzione legale impone a forza come capo personale e unico dello Stato il duce del partito (p. 22).

E i «mezzi infami» con cui la «demagogia trionfante con l’Impero» sostiene il suo potere vengono anzitutto individuati nell’«abituale menzogna», nella «corruzione spiegata su larga scala» e in un «regime bassamente e turpemente poliziesco» (pp. 31, 33 e 38), senza peraltro dimenticare né «la più ripugnante adulazione», né «lo spionaggio e la delazione» (pp. 49 e 50). I riferimenti a quella che per Rensi era la situazione attuale sono – mi pare – del tutto evidenti. Ma ciò che più conta, nel Trasea, è la riaffermazione della liceità e della necessità di un’opposizione a qualsivoglia sistema tirannico fondata su basi di carattere essenzialmente morale; che è poi il principale motivo per cui

un governo va giudicato – nota Rensi – non dal punto di vista della bontà della sua amministrazione materiale, ma dal punto di vista della sua condotta rispetto [alle] questioni spirituali e morali (p. 73).

In ogni caso – va detto in conclusione – neppure in questo momento di supremo sconforto e di sostanziale allontanamento dalla politica attiva, Rensi abbandona quella passione civile che rispecchia la sua indole più profonda e che è testimoniata, anche negli ultimi anni, da una nutrita serie di scritti dei quali il Trasea è forse l’esempio più luminoso; né – si può anche osservare – egli rinuncia a quella verve e a quel gusto del paradosso che non sono probabilmente estranei a un approccio di tipo ‘scettico’ al pensiero e alla vita. Il Trasea si conclude, non a caso, con un tratto di amara, sorprendente ironia:

C’è anche da consolarsi e da rallegrarsi, considerando che per noi avvenimenti come quelli descritti non sono più che ricordi; e ci stanno davanti come episodi impossibili a ripresentarsi e perciò oramai interamente irreali; e quindi, nella stessa loro tragicità, divertenti come gli episodi tragici d’un romanzo (p. 141).

Opere

Motivi spirituali platonici, Milano 1933.

Trasea, Milano 1948.

Lettere spirituali, prefazione di L. Sciascia, Milano 19872.

Autobiografia intellettuale - La mia filosofia - Testamento filosofico, prefazione di R. Chiarenza, Milano 19892.

La filosofia dell’assurdo, Milano 19912.

La filosofia dell’autorità, Catania 19932.

Una Repubblica italiana. Il Cantone Ticino, a cura di G. Vigorelli, Locarno 19942.

La democrazia diretta, a cura di N. Emery, 19956.

Autorità e libertà, a cura e con un’introduzione di A. Montano, Napoli 20032.

La morale come pazzia, a cura e con introduzione di A. Montano, Calabritto 20062.

Bibliografia

A. Santucci, Un ‘irregolare’: Giuseppe Rensi, «Rivista di filosofia», 1984, 75, 1, pp. 91-130.

L’inquieto esistere, Atti del Convegno su Giuseppe Rensi nel cinquantenario della morte (1941-1991), a cura di R. Chiarenza, N. Emery, M. Novaro, S. Verdino, Genova 1993 (si vedano in partic. M. Dal Pra, Giuseppe Rensi e lo spirito critico, pp. 17-19; M. Cacciari, Il disincanto di Giuseppe Rensi, pp. 20-26).

Fondo Giuseppe Rensi. Inventario con una scelta di lettere inedite, a cura di L. Ronchetti, A. Vigorelli, Milano 1996.

N. Emery, Lo sguardo di Sisifo. Giuseppe Rensi e la via italiana alla filosofia della crisi, con una nuova bibl. rensiana, prefazione di A. Negri, Milano 1997.

P. Serra, Il pensiero politico di Giuseppe Rensi. Tra dissoluzione del socialismo e formazione dell’alternativa nazionalista (1895-1906), Milano 2000.

N. Emery, Giuseppe Rensi. L’eloquenza del nichilismo, Formello 2001.

A. Montano, Giuseppe Rensi. La scepsi come impegno etico, in Id., Il prisma a specchio della realtà. Percorsi di filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Soveria Mannelli 2002, pp. 187-259.

A. Castelli, Un modello di Repubblica. Giuseppe Rensi, la politica, la Svizzera, Milano 2004.

P. Serra, Giuseppe Rensi. La rivolta contro il reale, introduzione agli scritti politici giovanili con una antologia di testi (1895-1906), Troina 2006.

G.M. Barbuto, Nichilismo e Stato totalitario. Libertà e autorità nel pensiero politico di Giovanni Gentile e Giuseppe Rensi, Napoli 2007.

F. Meroi, Giuseppe Rensi. Filosofia e religione nel primo Novecento, Roma 2009.

Irrazionalismo e impoliticità in Giuseppe Rensi, a cura di F. Mancuso, A. Montano, Soveria Mannelli 2009.

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