MUSSI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 77 (2012)

MUSSI, Giuseppe

Elisabetta Colombo

. – Nacque a Milano il 2 gennaio 1836 da una ricca famiglia della borghesia rurale. Morto prematuramente il padre Luigi, fu la madre, Carolina Argenti, donna religiosa di nobili origini, a guidarne gli studi.

Nonostante la preferenza per le scienze economiche e le discipline letterarie, si addottorò in giurisprudenza all’Università di Pavia il 17 marzo 1860. La ricca eredità paterna gli consentì di non esercitare l’avvocatura, ma di dedicarsi alla politica locale e nazionale, affiancando a questo impegno un’intensa attività pubblicistica.

Collaborò a diversi fogli democratici, a periodici di letteratura, scienze naturali e agricoltura. Da giovane, con lo pseudonimo «il galletto di donna Cecca», scrisse sul Gazzettino rosa, l’innovativo giornale politico e letterario fondato e diretto da Achille Bizzoni con Felice Cavallotti. Di questo ambiente scapigliato, connotato da un forte impegno civile e politico, condivise sia la critica serrata al sistema vigente, sia l’atteggiamento paternalistico di fronte ai problemi sociali. Nel contempo, non solo fu tra i giornalisti che animarono la più misurata Gazzetta di Milano, ma scrisse su Il Diritto e su L’Unione di Carlo Righetti e, dagli anni Settanta, dettò al quotidiano Il Secolo articoli di politica e di amministrazione, oltre a inviare corrispondenze parlamentari. Tra il 1872 e il 1875 fu assiduo sulle colonne de La Capitale, di cui non esitò ad assumere la direzione, quando l’aspra battaglia per la soppressione delle corporazioni religiose procurò al giornale vari sequestri e al suo direttore, Raffaele Sonzogno, l’arresto per reati di stampa. Nello stesso 1875 fondò La Ragione, organo di raccordo tra i settori più avanzati della sinistra e della democrazia radicale, diretto assieme a Cavallotti e ad Andrea Ghinosi. Il foglio cessò le pubblicazioni nel 1883, ma dal 1877 – a seguito di contrasti interni – Mussi era tornato a scrivere su Il Secolo.

Sostenitore delle idee federaliste di Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, si schierò da subito politicamente – lo ricordò il necrologio apparso sul Corriere illustrato della Domenica – fra «coloro che volevano già rifare l’Italia ancora prima che fosse veramente fatta». Il suo ardore patriottico non si tradusse però, come alcuni gli rimproverarono, nella partecipazione alle guerre per l’indipendenza. Dotato di un’oratoria arguta ed erudita, fu candidato al governo delle istituzioni politiche milanesi, grazie alla frequentazione del circolo elettorale che si riuniva nella casa dell’economista Ferdinando Trivulzi. Concepì la sua azione politica come sfida all’egemonia della 'consorteria' moderata, incarnando a sua volta il tipo del notabile democratico. Più che una sostanziale divergenza sulla gestione della cosa pubblica, a distinguerlo dai conservatori era la battaglia per le libertà civili e i diritti politici,  che combatté nel quadro delle istituzioni esistenti, nella convinzione, tra l’altro, che l’astensionismo non avrebbe affrettato l’avvento della repubblica.

La sua permanenza nel consiglio provinciale di Milano fu pluridecennale  (1861-1889). Membro di diverse commissioni, fu ripetutamente indicato come revisore dei conti e, nei primi anni, eletto dal consiglio a far parte della deputazione provinciale. Nel frattempo entrò nel consiglio comunale di Corbetta, località a pochi chilometri da Milano della quale fu sindaco – incarico all’epoca di nomina regia – dal 1864 al 1868 e dal 1879 al 1886. Eletto anche nel consiglio comunale di Milano, vi rimase, con alcune interruzioni, dal 1868 fino al 1904, guidando l’opposizione ai moderati.

Nel 1873, l’annessione alla città del comune contermine dei Corpi Santi fece del circondario esterno, caratterizzato da forte presenza popolare, il suo bacino elettorale. Per rispondere alle istanze degli abitanti del municipio soppresso, che era stato chiamato a tutelare con la presidenza del Circolo liberale elettorale suburbano, sollecitò invano un decentramento amministrativo infracomunale e l’introduzione di vicesindaci.

Si inserì precocemente anche nell’arena politica nazionale, cumulando le cariche. Vincitore nelle consultazioni del 29 ottobre e del 24 dicembre 1865, si vide annullata in entrambe le occasioni la sua elezione, non avendo ancora l’età prescritta dallo Statuto albertino per l’elettorato passivo. Alla terza elezione, il 25 marzo 1866, ormai trentenne, poté finalmente entrare alla Camera dei deputati nel corso della IX legislatura. Sedette all’estrema sinistra, rappresentando il collegio di Abbiategrasso, dove erano situati i suoi possedimenti terrieri. I commentatori politici dell’epoca lo consideravano un «repubblicano all’acqua di rosa» (Brangi, 1889, p. 71) e il biografo parlamentare Telesforo Sarti precisò che era «radicale, ma di quei radicali di buon senso, che sono in sostanza più conservatori di certi moderati» (1896, p. 693).

Dopo l’iniziale isolamento, contribuì alla formazione dello schieramento radicale, che comprese in seguito Ghinosi e Cavallotti. Alla tensione ideale di quest’ultimo si oppose il pragmatismo di Mussi, teso a far prevalere nei fatti le idee democratiche. Dell’avvento al potere della Sinistra egli prospettò, infatti, l’utilità di coltivare i legami con gli esecutivi e di collaborare con gli elementi più avanzati della maggioranza. Questa disponibilità lo pose spesso in polemica con Cavallotti e con la corrente più combattiva dei radicali, che, a loro volta, ne denunciarono l’incoerenza.

Nel 1882 il passaggio dal suffragio ristretto con collegi uninominali al suffragio allargato con collegi plurinominali lo vide candidato nell’ampliato I collegio di Milano. Qui, l’avvicinamento della destra ambrosiana ad Agostino Depretis non scongiurò il trionfo della lista radicale e la vittoria di Mussi (eletto anche nel collegio di Busto Arsizio). Nelle elezioni del 1886 la nuova affermazione di Mussi e dei radicali evidenziò la contraddizione tra i risultati milanesi delle elezioni politiche e quelli delle amministrative, che continuavano a premiare i moderati: vittorioso alle politiche il 24 maggio, il 16 maggio – dopo oltre tre lustri di ininterrotta permanenza – Mussi era stato invece escluso dal Consiglio comunale. Il successivo allargamento dell’elettorato amministrativo non impedì che, nelle consultazioni comunali del 1889, vincessero ancora i moderati e si rafforzassero le correnti repubblicane e socialiste, a scapito delle forze radicali.

In questo clima maturò il riavvicinamento a Cavallotti, a fianco del quale si impegnò in nome di una politica di apertura e realismo, che avrebbe dovuto preludere a un’assunzione di responsabilità di governo. Tentando di coagulare l’estrema sinistra in un fronte anticrispino, collaborò proprio con Cavallotti alla stesura di un programma dettagliato della democrazia italiana per la XVII legislatura, dal quale, al congresso del 13 maggio 1890, scaturì il Patto di Roma.

Nel 1892, col ritorno al sistema uninominale, Mussi rappresentò il VI collegio di Milano. Il successo in un collegio popolare sempre più sensibile alla propaganda socialista era stato favorito dal sostegno governativo; in effetti, nei mesi precedenti si era andato manifestando uno scivolamento verso l’area ministeriale di alcuni deputati leader di quel gruppo, detto legalitario o possibilista, che costituiva la frangia meno avanzata dell’estrema sinistra, nella successiva campagna elettorale Mussi appoggiò il programma riformista di Giovanni Giolitti, che nello stesso 1892 lo fece insignire della commenda mauriziana.

Le leggi antianarchiche e lo scioglimento del partito socialista, nel 1894, col governo Crispi, riportarono Mussi all’opposizione e tra i fondatori della Lega per la difesa della libertà, che riunì, in un fronte antigovernativo, democratici, radicali, repubblicani e socialisti milanesi.

Membro del Consiglio del Grande Oriente d’Italia, di cui fu gran maestro aggiunto, tentò di trasferire lo scontro anche all’interno della massoneria, chiedendo ad Adriano Lemmi di bandire Crispi dall’Ordine per l’eccessivo clericalismo di alcune scelte governative e per i suoi violenti metodi di governo, ritenuti lesivi della moralità massonica. Ostile all’adesione alla Triplice alleanza, Mussi chiedeva il rafforzamento dei rapporti con la Francia e, affiancando la protesta anticolonialistica, nel 1896 invocò l’abbandono dell’impresa africana, reputata contraria non solo ai principi di nazionalità, ma anche a una seria politica di riforme interne non meno che agli interessi commerciali e industriali del paese. Da tempo, del resto, condivideva le istanze pacifiste di Ernesto Teodoro Moneta, impegnato nella propaganda per l’abolizione degli eserciti permanenti e per la sostituzione dell’arbitrato giuridico alla guerra.

L’elezione del 1897, vinta al ballottaggio contro il socialista Ettore Ciccotti, mostrò la divisione dell’estrema sinistra e gli inimicò socialisti e repubblicani, che non gli perdonarono una vittoria ottenuta con i voti dei moderati, mobilitati dal prefetto in funzione antisocialista. La posizione di Mussi divenne assai delicata, tanto da fargli considerare, dopo il primo turno, la possibilità di ritirarsi dalla competizione.

Nelle prime legislature prese parte attiva ai lavori parlamentari, mentre in seguito intervenne soprattutto in speciali occasioni, nelle quali non mancò di prendere la parola. Fu convinto propugnatore della necessità di operare un vasto decentramento e di assicurare l’autonomia locale, per rispecchiare e armonizzare nella scelta unitaria le diverse componenti regionali. Caldeggiò una riforma della finanza locale, che prevedesse l’abolizione del dazio consumo e la sua sostituzione con forme di tassazione diretta. Subordinò, tuttavia, l’introduzione di nuove imposte all’adozione di rigorose economie e a un’incisiva ristrutturazione dell’amministrazione, che contemplasse l’abolizione delle sottoprefetture e la riduzione di prefetture, tribunali, preture e università. Contrario all’ampliamento delle funzioni dello Stato, auspicò però in difesa degli interessi economici delle classi più deboli il superamento dell’ortodossia liberista, proponendo di intervenire legislativamente su salari e previdenza operaia, tutela dei lavoratori, patti colonici e cooperative agrarie. Nel giugno 1900, mentre presiedeva a Milano il Congresso della previdenza, lanciò l’idea di istituire un ministero del Lavoro. I suoi discorsi furono numerosi e molto ascoltati . Tra i più autorevoli si ricordano, in campo economico, quello per la perequazione fondiaria e, in campo politico, quello contro la politica coloniale. Fu membro di alcune commissioni (ripetutamente, di quella generale del bilancio) e autore di relazioni. Presentò inoltre varie petizioni in nome collettivo.

In predicato per il portafoglio di Agricoltura, industria e commercio, non divenne mai ministro. Si fece il suo nome per quel dicastero nei primi gabinetti Cairoli e, addirittura, nel dicembre del 1893, Crispi gli fece telegrafare di recarsi a Roma, salvo ritornare rapidamente sulla decisione di offrirgli il ministero (uno sgarbo che divenne di dominio pubblico). In due legislature, la XVIII e la XX, fu eletto alla vicepresidenza della Camera che abbandonò nel 1900 per guidare Palazzo Marino.

Il suo impegno a riformare la società e le istituzioni si esplicò anche con la tessitura di una fitta rete associativa di istituzioni filantropico-assistenziali di ispirazione laica, di sodalizi per la promozione delle scienze e di circoli più schiettamente politici, all’insegna di una collaborazione interclassista e di una conciliazione tra capitale e lavoro. La sua vicepresidenza, dal 1881 al 1900, della Commissione centrale di beneficenza, amministratrice delle casse di risparmio lombarde (poi Cassa di risparmio delle provincie lombarde), fino ad allora tradizionale roccaforte della 'consorteria', contribuì ad assicurare finanziamenti alle associazioni e agli interessi appoggiati dalle forze democratiche.

Il 1898 fu per Mussi un anno cruciale: nella repressione della dimostrazione popolare, che vide a Pavia la sollevazione di studenti universitari, morì Muzio, il suo unico figlio maschio. Il lutto, che lo segnò profondamente, non gli impedì di prendere la parola alla Camera, per chiedere l’estensione dell’amnistia ai condannati per i disordini del maggio di quell’anno, contribuendo a ricondurre la lotta dalle piazze alle sedi istituzionali.

Non ancora spenta l’eco delle cannonate di Bava Beccaris, le elezioni comunali sancirono a Milano, per la prima volta dal 1860, la messa in minoranza della 'consorteria', ritenuta corresponsabile della proclamazione dello stato d’assedio e della sua lunga durata. Dopo una trentennale permanenza all’opposizione, sul finire del 1899 Mussi fu dunque eletto assessore anziano, in attesa che le dimissioni da deputato gli consentissero di accettare la carica di sindaco (1900-1903). La guida della prima maggioranza popolare, che univa radicali, repubblicani e socialisti, non fu priva di ostacoli. La difficoltà di governare una coalizione composita, il rifiuto dei socialisti e, per alcuni periodi, anche dei repubblicani, di assumere responsabilità esecutive, l’instabilità delle giunte e i contrasti all’interno del partito socialista tra riformisti e rivoluzionari, lo portarono ad adottare cauti atteggiamenti mediatori. Contrario alla municipalizzazione dell’energia elettrica, chiesta dalla maggioranza, rassegnò le dimissioni. Nel 1901 fu chiamato alla presidenza dell’appena istituita Associazione nazionale dei comuni italiani. Con nuove forme e nuovi strumenti Mussi ripropose la battaglia per l’autonomia, agendo anche in tale incarico da moderatore. Nello stesso anno fu nominato senatore, ma non prese parte attiva ai lavori.

Morì a Baveno (Novara) il 18 agosto 1904.

Fonti e bibl.: Tra i necrologi: La morte di G. M., in Il Secolo, 19-20 agosto 1904; G. M., in Corriere illustrato della Domenica, 28 agosto 1904; Il Saraceno [Luigi Lodi], G. M., in La Tribuna, 19 agosto 1904; E. C. [Emilio Caldara], G. M., in Rivista municipale, I (1904), 7-8, pp. 145-147 e, inoltre, le commemorazioni del sindaco Giovan Battista Barinetti, in Atti del Municipio di Milano. Annata 1903-1904, I, Milano 1905, p. 498; del presidente del Consiglio provinciale Pietro Carmine, in Atti del Consiglio provinciale di Milano. Anno 1904, Milano 1904, p. 480; e del presidente del Senato Tancredi Canonico, in Atti parlamentari. Senato del Regno, Discussioni, leg. XXII, seduta del 3 dicembre 1904.

L’attività parlamentare è ricostruita da L. Brangi, I moribondi di Montecitorio, Torino 1889, pp. 11, 15, 29, 71-76; T. Sarti, Il parlamento subalpino e nazionale, Roma 1896, s. v.; A. Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848 al 1922, II, Roma 1941, s. v.; A.A. Mola, G. M., in Il Parlamento italiano 1861-1988, V, Milano 1989, pp. 552 s. Sul suo ruolo nella democrazia e nella cultura radicale si rimanda, ad indicem, a: G. Carocci, Agostino Depretis e la politica italiana dal 1876 al 1887, Torino 1956; Epistolario di Carlo Cattaneo, a cura di R. Caddeo, IV, Firenze 1956; L’Italia radicale, a cura di L. Dalle Nogare - S. Merli, Milano 1959; Quarant’anni di politica italiana dalle carte di Giovanni Giolitti, I. L’Italia di fine secolo 1885-1900, a cura di P. D’Angiolini; II. Dieci anni al potere 1901-1909, a cura di G. Carocci, Milano 1962; F. Fonzi, Crispi e lo “Stato di Milano”, Milano 1965; A. Galante Garrone, I radicali in Italia, Milano 1973; U. Levra, Il colpo di stato della borghesia, Milano 1975; A. Canavero, Milano e la crisi di fine secolo (1896-1900), Milano 1976; A. Galante Garrone, Felice Cavallotti, Torino 1976; F. Cavallotti, Lettere 1860-1898, a cura di C. Vernizzi, Milano 1979; L. Basile, Il Secolo 1865-1923, Milano 1980; La democrazia radicale nell’Ottocento europeo, a cura di M. Ridolfi, Milano 2005. Per l’appartenenza massonica si vedano, ad indicem, F. Cordova, Massoneria e politica in Italia, Roma-Bari 1985 e A.A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992. Per l’impegno nelle istituzioni locali cfr., ad indicem, i seguenti lavori: Storia di Milano, voll. XV-XVI, Roma 1962; F. Nasi, 1860-1899: da Beretta a Vigoni, in Città di Milano, 1968, suppl. n. 5; Id., 1899-1926: da M. a Mangiagalli, ibid., 1969, suppl. n. 6-7; Storia amministrativa delle province lombarde, II. La Provincia di Milano, Milano 1969; III. Il Comune di Milano, Milano 1970; M. Punzo, Socialisti e radicali a Milano, Firenze 1979; A. Porro, Amministrazione e potere locale: il Comune di Milano, in L’amministrazione nella storia moderna, II, Milano 1985, pp. 1791-1849; A. Cova - A.M. Galli, Finanza e sviluppo economico-sociale, I e IV, Milano-Roma-Bari 1991; Milano fin de siècle e il caso Bagatti Valsecchi, a cura di C. Mozzarelli - R. Pavoni, Milano 1991; Milano nell’Unità nazionale 1860-98, a cura di G. Rumi - A.C. Buratti - A. Cova, Milano 1991; J. Morris, The political economy of shopkeeping in Milan 1886-1922, Cambridge 1993; O. Gaspari, L’Italia dei municipi, Roma 1998; F. Della Peruta, Politica e società nell’Italia dell’Ottocento, Milano 1999; Corbetta. Storia della Comunità dal 1861 al 1945, a cura di M. Comincini, Corbetta 2003; E. Colombo, Come si governava Milano, Milano 2005; M. Soresina, La periferia al centro, Milano 2009.

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