Mazzini, Giuseppe

Enciclopedia Dantesca (1970)

Mazzini, Giuseppe

Mario Scotti

, Alla lezione dell'Alfieri e più ancora a quella del Foscolo si collega l'interpretazione che il M. (Genova 1805 - Pisa 1872) ha dato di D., più che nelle idee originale nell'afflatto civile e religioso che la pervade. Ma non è la nobiltà degl'intenti che giustifica la presenza del M. fra i critici ottocenteschi di D., bensì l'amore per quella poesia e i suoi ideali animatori, il senso schietto di ammirazione per l'artista e l'uomo, che rappresentavano nella maniera più alta la vita spirituale d'Italia. E non in questo o in quel risultato è il pregio degli scritti danteschi del M., ma nella loro funzione di stimolo alla conoscenza di D., non sdegnando di rivolgersi anche agli operai emigrati in Inghilterra, a gente a suo avviso più pronta a cogliere l'umanità e la serietà dell'arte di quanto fossero i dotti, che per secoli avevano tormentato le parole del poeta senza penetrarne l'anima. Per ingiusta che possa essere la sfiducia del M. verso il lavorio esegetico e filologico di molti secoli, fino a credere che solo l'Ottocento cominciasse a intendere D., in effetti questa polemica mirava a una più profonda intelligenza della poesia dantesca e della poesia in genere, infrangendo i limiti di una cultura monastica, chiusa agli scambi della storia. Che il M. non strumentalizzi a fini politici altre esperienze umane, né disprezzi in sé la filologia e la ricerca erudita lo prova - al di là delle intemperanze polemiche - il suo convincimento che la Commedia possa svelare la sua intima ricchezza solo attraverso la conoscenza della vita e dei tempi del poeta e la restituzione del testo alla sua forma originaria. La cultura italiana appariva al M. soffocata dall'educazione cattolica e gesuita, che aveva impedito un libero accostamento alla poesia di D., a cui ora la generazione del Risorgimento si volgeva con un fervore sconosciuto. Il Labitte aveva sostenuto che questo entusiasmo era la reazione al Bettinelli e alla generale indifferenza del XVIII secolo; ma al M. il culto ottocentesco di D. appariva effetto dell'ansia di rinnovamento del popolo italiano (Opere minori di D., 1844). Lo studio di D. poteva riscattare il nostro popolo " dall'infiacchimento che tre secoli d'inezie e di servilità hanno generato e mantengono " (Commento foscoliano alla D.C., 1842-43).

Lo scritto Dell'amor patrio di D., esordio critico del M. poco più che ventenne, non mirava a isolare e seguire un particolare tema, ma era l'intuizione che in questo motivo fosse il centro del mondo umano e artistico del poeta. Reagiva il M. all'accusa rivolta a D. " d'intollerante e ostinata fierezza, e d'ira eccessiva " contro Firenze. In un popolo guasto e neghittoso sarà santo l'ufficio della satira; ma agl'Italiani del secolo XIII, resi violenti " dalle contese domestiche ed estere ", la cui fantasia poteva essere scossa soltanto da rappresentazioni di dannati e di eterni tormenti, non sarebbe giovato " lo stile grave di Persio " né " la delicata ironia del Parini ": occorrevano parole di fuoco, di alto sdegno, d'iracondo dolore. Ma lo sdegno e il risentimento che spirano le invettive dantesche non sono mai " scoppio di furore irragionevole o d'offeso orgoglio "; con molta finezza il M. penetra nell'umanità che ne vibra al fondo: " nei versi che più infieriscono, tu senti un pianto che gronda sulla dura necessità, che i fati della patria gl'impongono... ". Che nell'amor patrio possa cogliersi il denominatore comune di tutte le opere di D. il M. mostra, forzando e semplificando le linee di un pensiero ben più complesso e articolato: nella Monarchia D. " gettò quei semi d'indipendenza e di libertà, ch'ei proferse poscia nel suo poema "; col De vulg. Eloq. " cercava di soffocare ogni contesa di primato in fatto di lingua nelle varie provincie "; nel Convivio, predicendo al volgare il trionfo sul latino, " sembra ch'egli col pascersi di quest'avvenire, cerchi stornare la mestizia, che gli infortuni politici d'Italia e di se stesso gli procacciavano ".

In realtà l'equilibrio fra adeguazione storica e urgenze contemporanee si rompe in questa seconda direzione col balenare di un'idea, che resterà l'emblema del dantismo del M.: D. avrebbe presentito l'unità nazionale d'Italia, anzi ne sarebbe stato il primo, solitario celebratore. La religione laica di D. era il culto della patria. Guelfo e poi bianco, il poeta si schierava " con l'elemento della nazione futura " e, poiché il popolo non andava oltre l'idea del comune e il Papato non aveva la possibilità e la volontà di fondare l'unità italiana, egli che aveva il pensiero volto a quella meta lontana sembrò tradire la fedeltà al suo partito e farsi da guelfo ghibellino. Nell'ideale dell'Impero il M. vedeva l'escogitazione di una mente politica, cui poco importava se l'imperatore fosse italiano o germanico, ma molto che l'Impero fosse tolto alla Germania e restituito all'Italia.

Come le aspirazioni politiche del M. urgevano su questa immagine di D., suggestiva ma storicamente forzata, così altre convinzioni culturali maturate nel clima romantico agivano a darle rilievo e talora ad accrescerne la forzatura. La distinzione fra una poesia di forma e una poesia di sostanza e la nuova importanza attribuita a questa seconda era accolta per mostrare come D. fosse stato frainteso per secoli perché non se ne era colto lo spirito; l'attenzione volta ai caratteri che differenziano le varie tradizioni nazionali portava a scorgere in D. l'espressione di una filosofia italica, anello fra la scuola di Pitagora e i filosofi del 1600; la poesia della Commedia era detta " vincolo fra il reale e l'ideale ", sintesi dei due poli verso cui tendeva lo spirito romantico. Quest'ultima distinzione serviva al M. per sgombrare il problema su cui dal Biscioni al Rossetti avevano armeggiato molti eruditi, quello della realtà storica di Beatrice. La poesia di D. innalzandosi dal reale all'ideale " in una continuità progressiva " purifica e idealizza la donna: assurdo ammettere due esseri distinti, la Beatrice del poeta e quella del teologo. Anche qui la scoperta sensibilità romantica del M.: l'amore di D. è diverso da quello della cavalleria e da quello del Petrarca; e questa sensibilità rende il M. disponibile alla grazia della Vita Nuova, proclamando le prose del libro giovanile di D. superiori alle migliori pagine del Boccaccio e i versi superiori alle rime del Petrarca (Opere minori di Dante).

Sul piano religioso D. gli appare cristiano e non cattolico. Di qui la polemica col Balbo, con l'Artaud e principalmente con l'Ozanam, colpevoli di avere trascurato i lavori del Foscolo e ripetuto antichi errori, che non sarebbero importanti se " non tendessero a falsare il nostro concetto dell'uomo, dell'intima vita dell'anima e della fede di Dante ". Il cristianesimo era derivato al poeta " direttamente dai primi padri della Chiesa ", il cui spirito egli vedeva tradito dal Papato di Roma: le idee ispiratrici del poema - dirà il M., alludendo forse alla Riforma - " aprono la via a un ulteriore sviluppo del Vero cristiano " (ibid.). La derivazione dal Foscolo qui è più appariscente che sostanziale: del resto la religiosità dantesca è considerata dal M. in senso laico e civile, più come fermento di una coscienza tesa al risorgimento della patria che come mistica illuminazione volta al rinnovamento della società cristiana mediante una riforma interna della Chiesa. Il Foscolo segna, per il M., una svolta fondamentale negli studi danteschi, perché ha cercato in D. " non solamente il poeta, non solamente il padre della lingua nostra, ma il cittadino, il riformatore, l'apostolo religioso, il profeta della nazione " e perché ha condotto la critica " sulla via della storia ". Ma dal vedere compiutamente quanto vi fosse in D. il Foscolo fu impedito dall'ostinarsi nelle forme greche e dalla mancanza di fede in una poesia nazionale: il suo merito fu piuttosto quello di avere liberato D. dalle incrostazioni di una falsa esegesi secolare. Questa differenza di posizione non scemò mai il culto che il M. ebbe per il Foscolo dantista, del cui pensiero si considerò discepolo e prosecutore. A Londra ne ricercò e riscattò i manoscritti e nel 1842-43 curò l'edizione della Commedia da lui illustrata, completando, come dichiarerà più tardi (Note autobiografiche, 1863), il commento filologico al Purgatorio e al Paradiso, ma forse soltanto limitandosi a trascrivere le varianti che il Foscolo aveva emarginato dai due suoi manoscritti del poema.

Opere dantesche del M.: Dell'amor patrio di D., in " Il Subalpino " II 1 (1837) 359-377 [ma composto nel 1826 o 1827]; D., in " Apostolato Popolare " 15 sett. 1841; Prefazione a La Commedia di D.A. illustrata da U. Foscolo, Londra 1842-43; Opere minori di D., in " Foreign Quarterly Review " XXXIII, n. 65 (aprile 1844); Scritti letterari di un italiano vivente, Lugano 1847; Scritti editi e inediti, ediz. diretta dall'autore, Milano 1862, II e IV (Letteratura I e II); Edizione Nazionale delle opere del Mazzini, I, Imola 1906; VIII, ibid. 1910; XVI, ibid. 1913; XX, ibid. 1915; XXIX, ibid. 1919; XCIV, 1943: raccolgono gli scritti di letteratura. Si veda inoltre l'Epistolario nell'Ediz. Nazionale.

Bibl. - A. Lodolini, Bibliografia mazziniana, Milano 1932; e si veda la bibl. che segue al saggio di G. Grana, in Letteratura italiana. I minori, IV, Milano 1962. Per il dantismo del M. ci limitiamo a indicare, oltre alle pagine del De Sanctis, del Nencioni, del Martini, del Mazzoni, del Borgese: E. Bertana, D. e M., in " Giorn. d. " XXIV (1921); A. Galletti, D. e M., in Studi su D., Milano 1941; L. Russo, La nuova critica dantesca del Foscolo e del M., in " Belfagor " IV (1949), poi in Problemi di metodo critico, Bari 1950; A. Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento, Firenze 1958.

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