MASCARDI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MASCARDI, Giuseppe

Lorenzo Sinisi

– Nacque a Sarzana tra il 1540 e il 1545 da Francesco e da Chiara Manecchia. La famiglia paterna apparteneva all’aristocrazia cittadina (erano visdomini di Luni e signori di Trebbiano e Sarzana dal XV secolo) e vantava consolidate tradizioni giuridico-forensi inaugurate dal nonno Niccolò, che intorno al 1511 fu tra gli artefici della riforma degli statuti di Sarzana, pubblicati a Parma nel 1529, e proseguite dal padre, avvocato e giudice di una certa reputazione sia in patria sia nella vicina Massa.

Secondo Mannucci (p. 28) il M. compì i primi studi umanistici sulla scia del fratello maggiore Niccolò a Roma, presso il collegio gesuitico da poco istituito. Verosimilmente intorno al 1560 si trasferì a Pisa, dove intraprese gli studi giuridici presso il locale ateneo e si addottorò in utroque iure il 14 febbr. 1565.

Incerte e frammentarie sono le notizie circa la sua attività negli anni immediatamente successivi alla laurea. Secondo Gerini (p. 107) si recò, forse in veste di giureconsulto, alla corte del duca di Urbino Guidubaldo II Della Rovere, dove visse per qualche tempo. È certo altresì che, negli ultimi mesi del 1571, si trovasse a Roma su incarico del capitolo cattedrale di Sarzana a trattare presso la Curia, insieme con l’avvocato genovese Cesare Contardi (futuro vescovo di Nebbio), un’importante questione in materia di riscossione di decime nella diocesi lunense, questione che vide coinvolti a diverso titolo l’arcivescovo di Genova, il vescovo di Albenga e la Reverenda Camera apostolica.

Come narra lo stesso M. in quella fonte di primaria importanza per la ricostruzione delle sue vicende biografiche che è la prefazione «candido lectori» pubblicata nel primo volume del De probationibus, fu durante questo soggiorno romano che egli cominciò a lavorare a un’ambiziosa trattazione sistematica dedicata al tema dei mezzi probatori. Allo stesso periodo risale probabilmente la decisione di abbracciare lo stato clericale e forse anche il conseguimento del titolo di protonotario apostolico.

Grazie all’interessamento di personaggi influenti come il cardinale genovese Benedetto Lomellini e dello stesso padre del M., il quale già qualche anno prima aveva avuto un contatto epistolare con il cardinale Carlo Borromeo arcivescovo di Milano, il M. fu chiamato da quest’ultimo presso la curia ambrosiana come vicario competente per le cause civili. Giunto a Milano nel settembre 1575, si trovò investito del compito di giudicare cause provenienti da un territorio assai vasto e relative a varie materie: matrimoniale, beneficiale, successoria, delle decime e altre non rientranti nelle fattispecie delittuose. In quel periodo, che lo vide impegnato a sbrigare una notevole mole di lavoro, il M. contrasse la peste, dalla quale riuscì a guarire, come si apprende da una lettera del settembre 1576 in cui rassicurava il padre sulla sua recuperata salute.

In realtà la guarigione non fu rapida e dovette lasciare diversi strascichi in un fisico non particolarmente robusto, se è vero che Borromeo, nell’ottobre 1577, si preoccupava ancora delle condizioni di salute del M., cui consigliava il ritiro «in luoco di questa diocesi di buon aere, fin che siate afatto riavuto» (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Epistolario..., P.14 inf., c. 259r).

Nel dicembre del 1577 il M. era a Padova, sempre nelle vesti di vicario, ma l’incarico ebbe durata assai breve tanto che già l’anno seguente indirizzò una missiva al cardinale Borromeo in cui, annunciandogli con gioia la repentina conclusione del servizio presso la diocesi patavina, lo ringraziava per aver accolto «in casa sua» il fratello minore Alberico, che stava attraversando un momento difficile nel suo cammino di fede (ibid., F.141 inf., c. 197r).

Era infatti arrivata al M. la chiamata da parte di un’altra importante figura di vescovo riformatore, quel Paolo Burali d’Arezzo che, dopo aver guidato la diocesi di Piacenza per circa otto anni, era stato destinato a reggere le sorti della cattedra arcivescovile di Napoli. Probabilmente non furono estranei alla chiamata i rapporti di amicizia e reciproca stima che intercorrevano fra Borromeo e Burali: questi, nel marzo 1578, scrisse con una certa soddisfazione al confratello milanese che «monsignor Giuseppe Mascardi ultimamente» era venuto a sollevarlo «da qualche fatica et peso di questa chiesa» come nuovo vicario generale (ibid., F.74 inf., c. 401r).

Data la mole del lavoro che comportava l’arcidiocesi partenopea, il M. divise i suoi compiti con un altro vicario, Gaspare Sillingardo, il quale aveva esercitato le medesime funzioni del M. a Milano sotto la guida di Borromeo. A Napoli si ambientò decisamente meglio rispetto a Padova, tanto è vero che lì prese il suddiaconato e avrebbe anche preso gli altri ordini sacri, se una caduta accidentale non avesse segnato prematuramente la fine del cardinale Burali. Pur essendo stato confermato dal capitolo cattedrale in attesa dell’arrivo del nuovo arcivescovo, il M. non nascose in una lettera a Borromeo il desiderio di cambiare aria per varie ragioni, tra cui le difficoltà a far funzionare la macchina della giustizia ecclesiastica in un contesto influenzato inevitabilmente dal regalismo spagnolo.

Lasciata Napoli nei primi giorni del 1579, il M. raggiunse Roma, dove ebbe occasione di riabbracciare il fratello maggiore Niccolò che, dopo aver servito anch’egli Borromeo in qualità di vicario, era stato appena nominato vescovo di Brugnato. Ricevuta l’ordinazione presbiterale, il M. fu destinato dal papa Gregorio XIII a reggere il governo della diocesi di Piacenza, in assenza del vescovo Filippo Sega da poco nominato nunzio in Spagna.

Al suo arrivo a Piacenza il M. cercò di riprendere la politica riformatrice avviata con successo in quella diocesi da Burali e interrottasi col trasferimento dell’arcivescovo a Napoli; adottata la linea seguita da Borromeo nel governo della Chiesa ambrosiana, il M. resse la diocesi piacentina in anni difficili continuando a giovarsi del prezioso consiglio del cardinale milanese attraverso un fitto scambio epistolare, improntato da una parte a sentimenti di affetto paterno e dall’altra a una sincera devozione filiale.

La fama di giurista di buon livello e di giudice esperto lo segnalò in quegli anni al cardinale Gabriele Paleotti per la carica di vicario generale della diocesi bolognese; se il M. si mostrò propenso ad accettare l’incarico sia per il prestigio della sede sia per l’opportunità di lavorare alle dipendenze di Paleotti, molto stimato da Borromeo, si frappose però l’impossibilità di lasciare la diocesi di Piacenza stante la perdurante assenza del vescovo. Agli ultimi mesi del 1581, periodo in cui vi fu uno scambio di lettere fra Paleotti e Borromeo riguardo a tale questione, risale un giudizio dell’arcivescovo milanese sul M.: se egli era senza dubbio «persona integra, timorata di Dio, intelligente et zelante della disciplina», a tali buone qualità erano tuttavia «congiunti alcuni piccoli difetti come l’avere estimatione di se stesso, movere ad honori, voler essere rispettato et honorato et far un poco troppa cura nelle precedenze»; per quanto concerneva invece la sua attività di giudice del foro ecclesiastico egli si era talvolta mostrato «un poco tardo ed irresoluto» anche se ciò era ascrivibile non certo a una sua impreparazione dottrinale e pratica quanto piuttosto alla «debolezza della sua complessione» e al fatto che «era molto intento ad alcune fatiche di composizioni legali» (ibid., F.60 inf., c. 385v). Il riferimento esplicito al suo trattato De probationibus, che da tanti anni stava cercando di portare a termine, veniva fatto in un momento in cui il M. era accusato dal piacentino Niccolò Conti di aver «rubbato al vescovo Contardo l’opera che hora vuol far stampare de probationibus» (ibid., F.61 inf., c. 69r). Gli elementi su cui si basava l’accusa erano fondati, più che su effettivi riscontri testuali, su congetture come quella che una così cagionevole salute fisica e i pressanti impegni non avrebbero consentito al M. la realizzazione di un’opera di così ampia mole; a tali argomentazioni egli controbatté negando qualsiasi tipo di plagio e asserendo che erano ben 14 anni che stava lavorando alla sua opera, per la compilazione della quale si era anche avvalso della collaborazione di diversi aiutanti e segretari. L’accusa fu infine smontata dalla stessa presunta parte lesa, quel Cesare Contardi, giurista genovese già autore di due opere giuridiche di un certo pregio e vescovo in Corsica, che riconosceva che l’opera del M. era «assai diversa dalla sua et che ingiustamente si opponeva a quel gentilhuomo questo delitto» (ibid.).

Sfumata nel frattempo la prospettiva bolognese ed essendo giunto, nell’estate del 1582, al termine della sua esperienza di governo della diocesi di Piacenza, il M. tornò in patria. Nel dicembre dello stesso anno fu deputato visitatore apostolico delle diocesi di Montefiascone e Corneto. Di lì a qualche mese effettuò la visita di alcuni monasteri a Genova su incarico della congregazione dei Vescovi e dei Regolari (ibid., F.163 inf., c. 197r); sempre a Genova, prestò in quel periodo la sua opera di giureconsulto a favore del capitolo cattedrale di Sarzana nell’annosa vertenza con il vescovo e con la Comunità cittadina sui diritti spettanti sul territorio incolto denominato «Marinella». Intanto, il 30 marzo 1583, Gregorio XIII lo aveva nominato vicario generale in spiritualibus et temporalibus nonché visitatore e commissario delegato della Sede apostolica nella diocesi vacante di Ajaccio, munito di quasi tutte le prerogative episcopali e con buone prospettive di una successiva nomina a vescovo della stessa diocesi; la soddisfazione che dovette in qualche modo procurargli tale nomina, sia per le ampie facoltà concessegli sia perché sembrava davvero il prologo a un’imminente consacrazione episcopale, fu però offuscata dai disagi che comportava la vita nell’isola e soprattutto dal timore della pirateria saracena per il viaggio incombente che lo spinse a chiedere a Borromeo il suffragio delle sue preghiere «acciò Dio mi salvi dal pericolo dei Turchi» (ibid., F.163 inf., c. 197v).

Tale destinazione e soprattutto i gravosi compiti annessi indussero il M. a disperare di poter ultimare in breve tempo le sue monumentali Conclusiones probationum omnium quae in utroque foro quotidie versantur, convincendolo a licenziare per le stampe i primi due volumi che uscirono a Venezia per i tipi di Damiano Zenaro nel 1584.

Dedicata al papa giurista Gregorio XIII, l’opera del M. si presentava come la più ampia e completa trattazione in materia di prove mai realizzata nell’ambito della dottrina di diritto comune. Nata dalla consapevolezza, maturata in tanti anni di studio e di attività nei tribunali sia come avvocato sia soprattutto come giudice ecclesiastico, della centralità in ambito processuale della materia probatoria, essa presenta una parte introduttiva divisa in 17 quaestiones, in cui l’autore si sofferma sull’utilità della materia, sulle nozioni fondamentali e sulle varie «species probationum»; segue una raccolta di 1428 conclusiones in cui vengono affrontate, in ordine alfabetico, tutte le problematiche più ricorrenti nel foro riguardo al tema delle prove. Espressione tipica della cultura della communis opinio, da essa traspare una notevole padronanza della materia attraverso la conoscenza approfondita della dottrina classica della glossa e del commento, aggiornata alla luce dei più recenti contributi della letteratura consiliare, della trattatistica e della decisionistica, destinata a prendere sempre di più campo. L’ampiezza dei contenuti e il taglio pratico garantirono all’opera – completata dal terzo tomo edito postumo nel 1588 a cura del fratello del M., Alderano –, un sicuro successo dottrinale ed editoriale, testimoniato dalla larghissima utilizzazione che di essa fece la scienza giuridica successiva nonché dalle numerose edizioni e ristampe italiane (Venezia, D. Zenaro, 1593 e 1609; Torino, G.B. Bevilacqua, 1587-88 e 1591; Torino, D. Tarino, 1597, 1608 e 1624, quest’ultima arricchita dalle Additiones del canonico napoletano Gian Luigi Riccio e del giurista Bartolomeo Negro da Castel d’Annone) e straniere, in particolar modo tedesche (Francoforte sul Meno 1588 e 1661; Herborn 1703; Francoforte 1727-31); nel 1626 il giurista Jodocus Stimpel pubblicò a Colonia il Compendium Mascardi de probationibus, riduzione in un volume della stessa opera del M. (riedizione: Colonia 1751).

L’impatto con l’ambiente corso, avvenuto intorno alla metà del 1583, fu assai duro: il clero era poco numeroso e indisciplinato, la povertà e l’ignoranza imperversavano, e assai difficile risultò adempiere al delicato incarico affidatogli di portare a termine la costruzione della nuova cattedrale, evento a cui erano vincolate le scarse entrate della diocesi con il conseguente blocco, fino ad allora, della nomina del nuovo vescovo. Notevoli inoltre furono i problemi che il M. incontrò sia sul versante finanziario, per l’insufficienza dei mezzi di cui era provvisto, sia su quello dei rapporti con gli Anziani della Comunità di Ajaccio, non avari di critiche nei confronti del suo operato. Forse per la necessità di reperire nuovi fondi per l’impresa a lui affidata e forse ancor di più per il continuo declinare della salute, cui non era probabilmente estraneo il clima insalubre della zona, il M. lasciò l’isola per fare ritorno in patria. Qui però le sue condizioni fisiche si aggravarono ulteriormente; invitato come padrino al battesimo di Alessandra Parentucelli, il 21 ott. 1585, dovette essere sostituito dal padre Francesco.

Il M. morì a Sarzana qualche giorno più tardi e comunque non dopo il 12 nov. 1585, come dimostra una lettera conservata nel fondo Corsica dell’Archivio di Stato di Genova (n. 522) che, annunciando la sua morte recente, destituisce di fondamento la notizia, riportata da Ughelli e ripresa da quasi tutti gli autori successivi, della sua morte a Roma nel 1587.

Fonti e Bibl.: Sarzana, Arch. capitolare, B/106, R/1, R/2, S/34, S/37, Y/13, Y/16, Y/18, Y/21, Y/22, Z/58; Ibid., Arch. diocesano di Luni-Sarzana, Libri baptizatorum et mortuorum, anni 1548-87, 1, c. 149v; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Epistolario di s. Carlo, P.14 inf., c. 259r; F.92 inf.; F.74 inf., c. 401r; F.99 inf.; F.60 inf., c. 385v; F.61 inf., c. 69r; F.76 inf.; F.141 inf., c. 197r; F.142 inf., c. 382r; F.163 inf., c. 197; Arch. segr. Vaticano, Segreteria dei brevi, 56, c. 207v; Arch. concistoriale, Acta miscellanea, 49; Arch. di Stato di Genova, Corsica, 521, 522; Acta graduum Academiae Pisanae, II, a cura di G. Volpi, Pisa 1979, p. 75; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma 1667, pp. 485 s.; R. Soprani, Li scrittori della Liguria e particolarmente della Marittima, Genova 1667, p. 181; A. Oldoini, Athenaeum Ligusticum, Perusiae 1680, pp. 377 s.; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, III, Venetiis 1718, col. 497; E. Gerini, Memorie storiche di illustri scrittori e di uomini insigni dell’antica e moderna Lunigiana, I, Massa 1829, p. 107; F.L. Mannucci, La vita e le opere di Agostino Mascardi, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XLII (1908), pp. 12-28; P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), II, Roma 1967, pp. 61-66; E. Pontieri, Un arcivescovo riformatore nella Napoli postridentina: il cardinale Paolo Burali d’Arezzo (1576-1578), in Atti dell’Acc. Pontaniana, n.s., XX (1970-71), pp. 15-20; F. Molinari, La corrispondenza s. Carlo - G. M. e la dipendenza di Piacenza da Ravenna, in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana, V (1975), pp. 244-268; C. Donati, Curie, tribunali, cancellerie episcopali in Italia durante i secoli dell’Età moderna: percorsi di ricerca, in Fonti ecclesiastiche per la storia sociale e religiosa d’Europa: XV-XVIII sec., a cura di C. Nubola - A. Turchini, Bologna 1999, pp. 220-223; P.B. Gams, Serie episcoporum Ecclesiae catholicae, p. 764.