MARANINI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 69 (2007)

MARANINI, Giuseppe

Luca Mannori

Nacque a Genova il 16 apr. 1902 da Paolo, giornalista e sindacalista socialista, e Rina Melli, di famiglia ebraica, ambedue originari di Ferrara. Il padre, dopo un periodo trascorso a Trento, dove aveva collaborato al giornale di C. Battisti, Il Popolo, si trasferì a Bologna, incominciando a lavorare per Il Giornale del mattino.

Appunto a Bologna il M. trascorse l'adolescenza, in un clima familiare e sociale segnato da profonde passioni civili e da un forte coinvolgimento patriottico. Interventista negli anni della prima guerra mondiale, seguì con grande partecipazione le vicende del conflitto; continuò quindi a coltivare orientamenti politici nettamente filonazionalisti, anche se temperati da un innato equilibrio e da un viscerale rifiuto della violenza. A questi stessi anni data l'inizio del legame con la coetanea Elda Bossi, che sposò poi nel 1924.

Nel settembre 1919, appena diciassettenne, fuggì di casa per partecipare all'impresa di Fiume, guidata da G. D'Annunzio; ma nel giro di un mese, deluso dalla piega presa degli eventi, fece ritorno a Bologna e riprese a frequentare l'ultimo anno di liceo. L'anno successivo la famiglia si trasferì a Milano, dove il padre assunse la carica di direttore amministrativo de Il Secolo. Il M., benché fin d'allora animato da un sincero orrore per il "formalismo giuridico" e da una netta propensione per gli studi storici, cedette alle pressioni familiari, iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Pavia. Mentre iniziava a collaborare anch'egli col Secolo, si legò allo storico del diritto pavese A. Solmi, cui si sentiva accomunato da uno stesso entusiasmo per il Risorgimento. E appunto con Solmi, nel novembre 1924, discusse la tesi di laurea in storia del diritto italiano da cui nacque il suo primo lavoro importante, Le origini dello statuto albertino (Firenze 1926).

Il volume costituisce uno dei primi seri studi sulla concessione della carta carlalbertina e, al tempo stesso, un saggio di quella scienza politica basata su fondamenti storici che il M. coltivò per tutta la vita. L'immagine dello statuto proposta in quest'opera è, tuttavia, abbastanza diversa da quella destinata a campeggiare nei contributi del M. maturo. Lo statuto è infatti qui presentato come il felice punto d'incontro tra "le due grandi forze ideali e politiche del Risorgimento, la monarchia e la rivoluzione", che trovano una equilibrata composizione in un governo di gabinetto nel quale sovrano e Parlamento concorrono armonicamente alla gestione dello Stato. Una rappresentazione tutta in linea con la dottrina costituzionale classica dello Stato liberale, di cui però il primo dopoguerra e l'avvento del fascismo avevano nel frattempo sancito la crisi definitiva. Alla tematizzazione di tale crisi, appunto, e ai modi per superarla sarebbero stati dedicati gli scritti del M. nel quindicennio successivo.

Il M. si era intanto orientato senz'altro verso l'insegnamento; vinta una cattedra di economia politica presso un istituto tecnico veneziano, nel 1925 egli si trasferì nella città lagunare. Il nuovo ambiente lo stimolò a coltivare la sua vocazione storiografica, suggerendogli l'ambizioso progetto di una storia costituzionale di Venezia (La costituzione di Venezia, I-II, Venezia 1927-31). Grazie a questo sforzo e all'aiuto di Solmi, già nel 1927 riuscì a ottenere un incarico d'insegnamento in storia del diritto italiano presso la nuova facoltà di scienze politiche di Perugia. E fu appunto nella nuova sede che egli redasse e pubblicò il suo primo studio di diritto positivo, La divisione dei poteri e la riforma costituzionale (Venezia 1928), opera che segnò la sua adesione intellettuale al fascismo.

La crisi resta il tema dominante della produzione di questi anni. Nel caso di Venezia, si tratta della crisi che aveva investito e travolto le libertà comunali alla fine del Medioevo; e il fascino dell'esperienza lagunare, per il M., sta proprio nella eccezionale capacità di reazione di una élite aristocratica che, nel generale sfacelo delle democrazie cittadine italiane, era riuscita a difendere il proprio diritto all'autogoverno costituendosi in "Stato-partito" e introducendo una serie di sapienti sistemi di autoregolazione istituzionale. Una simile consapevolezza era invece mancata del tutto alla classe dirigente dell'Italia liberale; affidandosi alla fallace formula della divisione dei poteri di Montesquieu, questa si era abbandonata "fin dai primissimi tempi" a un parlamentarismo di stampo assemblearista, che aveva condotto alla cronica instabilità del dopoguerra. La presa di potere di B. Mussolini e le leggi costituzionali del 1925-26 erano quindi viste dal M. come un salutare tentativo di restaurare "l'antico ordine di cose" sancito dallo statuto, secondo quella tesi del fascismo come "ritorno" all'equilibrio bipolare Corona-Parlamento accolta anche da altri giuristi contemporanei (si pensi a O. Ranelletti). Un'impostazione, questa, che definisce il senso e i limiti dell'adesione del M. al regime.

Fortemente osteggiato nella sua carriera accademica da un establishment che non gradiva il suo atteggiamento antiformalista, il M. riuscì a ottenere una cattedra universitaria solo grazie all'intervento personale di Mussolini che, nel 1933, lo nominò professore "per chiara fama", probabilmente cedendo alle pressioni del padre del M., cui il duce era legato da antica amicizia. Negli anni seguenti, sempre insegnando a Perugia, il M. dette alle stampe vari, importanti studi di storia e di diritto costituzionale. Tra essi, oltre al fortunato Classe e Stato nella rivoluzione francese (Perugia 1935), in cui analizzava la crisi costituzionale della Francia rivoluzionaria mettendo a profitto la grande storiografia socialista d'Oltralpe, va ricordato soprattutto il saggio Dallo statuto di Carlo Alberto alle leggi costituzionali del fascismo (Firenze 1938).

Correggendo l'impostazione degli esordi, la storia costituzionale dello Stato liberale veniva qui presentata come la lunga degenerazione di un modello dualista, d'ispirazione inglese, cui l'élite nazionale si era continuamente richiamata senza rendersi conto di quanto fosse difficile il suo trapianto su un suolo diverso da quello che l'aveva generato. Sostanzialmente, si tratta della stessa linea che avrebbe poi trovato ampio sviluppo nella più tarda Storia del potere in Italia 1848-1967 (Firenze 1967).

Frattanto il M. si stava allontanando sempre più dal fascismo. Profondamente turbato dalle leggi razziali (che rischiarono di privarlo della cattedra, come figlio di madre ebrea) e sempre più scettico circa le attitudini "restaurative" del regime, già allo scoppio della guerra egli aveva iniziato a riavvicinarsi all'ispirazione socialista della prima giovinezza. A Firenze, dove si era trasferito nel 1940 a seguito della chiamata presso la facoltà di scienze politiche Cesare Alfieri, il M. stese una sorta di programma politico per la società futura che uscì nel dopoguerra (Utopia dopo la rivoluzione, Roma 1945); e, nell'agosto 1943, stilò il manifesto di un Partito socialista del lavoro, ispirato a una democrazia rappresentativa a base sindacal-corporativa. La sua conversione ideologica fu suggellata, tra il 1945 e il 1947, da un periodo d'intenso impegno civile, nel corso del quale fondò e diresse per due anni L'Arno, un foglio ispirato a un socialismo nettamente antisovietico e filoccidentale (i suoi fondi di questo periodo vennero poi raccolti nel volume Socialismo, non stalinismo, Firenze 1949, con prefazione di G. Saragat). Ma la politica attiva e il giornalismo militante lo stancarono presto. A riprendere campo, con la fine degli anni Quaranta, fu piuttosto la sua vocazione all'insegnamento e allo studio. Eletto nel 1949 preside - carica che avrebbe mantenuto fin quasi alla morte -, egli si impegnò perché il Cesare Alfieri divenisse la fucina di quella nuova classe dirigente, nutrita di una forte consapevolezza storica del proprio ruolo, di cui vagheggiava l'avvento nei suoi studi di questi anni. Al contempo, il M. maturò un atteggiamento sempre più critico nei confronti del sistema politico italiano così come esso si era venuto strutturando nel secondo dopoguerra. Molto tiepido - da buon "realista", e discepolo di G. Mosca - nei confronti della costituzione del 1948 che gli appariva poco più che "un catalogo di buoni propositi", egli vedeva riprodursi puntualmente nell'Italia repubblicana le stesse antinomie e gli stessi vizi che avevano funestato la vita dello Stato liberale (si veda la sua prolusione, per l'anno accademico 1949-50 su Governo parlamentare e partitocrazia [Firenze 1950] che introdusse nel lessico politico italiano il lemma "partitocrazia", destinato a grande fortuna). E fu anzitutto all'analisi e alla denuncia di questi vizi che egli dedicò l'intensissima attività scientifico-pubblicistica destinata a caratterizzare l'ultima parte della sua carriera.

Tale impegno si concretizzò non solo in decine di saggi e volumi, ma anche in un'assidua collaborazione a grandi quotidiani nazionali e in un'opera di traduzione e di divulgazione d'importanti politologi europei (da F.A. Hermens a M. Duverger). Certo è che il suo pensiero, pur subendo varie rimodulazioni, rimase fedele a una visione sostanzialmente pessimistica del quadro politico-costituzionale italiano (come egli rilevava in Italia "dalla concessione dello Statuto Albertino […] ad oggi, la democrazia ha fatto scarsi e dubbi progressi": Miti e realtà della democrazia, Milano 1958, p. 17). La parabola costituzionale dell'Italia, del resto, non costituiva affatto, ai suoi occhi, un caso isolato, ma piuttosto un episodio (per quanto grave) da iscrivere entro un comune orizzonte europeo ovunque minacciato dall'avvento di una medesima "democrazia aritmetica" e da una generale instabilità istituzionale. La stessa esperienza inglese, nonostante poggiasse su un sistema elettorale straordinariamente virtuoso, era andata incontro a uno stravolgimento radicale della sua geometria, finendo per perdere completamente quella salutare tensione interna Parlamento-governo che ne aveva costituito la più preziosa virtù durante la grande stagione sette-ottocentesca. A sottrarsi al trend generale non restava in definitiva, per il M., che la costituzione statunitense, da lui "scoperta" a partire da un corso del 1950 e negli ultimi anni costantemente indicata - col suo "re elettivo" dal forte profilo istituzionale - come l'ultimo, autentico baluardo del proprio ideale dualistico.

Fu anche alla luce di questa attrazione per il modello statunitense che il M. si trovò, nel corso degli anni Sessanta, a rileggere in una diversa prospettiva la carta italiana del 1948.

Quella carta, secondo il M. programmaticamente sabotata e stravolta dalle forze politiche dominanti, sembrò ora offrirgli una serie di validi appigli per la costruzione di altrettanti contrappesi alla debordante autorità del Parlamento e dei partiti (oltre che sull'istituto presidenziale, di cui il M. auspicava un forte irrobustimento, il suo sguardo si appuntava soprattutto sulla Corte costituzionale e sul Consiglio superiore della magistratura).

Da questo tipo di umori nacque la nuova figura di un M. "militante della costituzione", impegnato nella battaglia per la sua attuazione e noto anche al grande pubblico grazie a contributi come La Costituzione che dobbiamo salvare (Milano 1961), Il tiranno senza volto (ibid. 1963) o La Repubblica (Firenze 1965). E tuttavia, il libro che concluse l'esperienza scientifica del M. - la Storia del potere in Italia (1848-1967), ibid. 1967 - conferma una visione nella sostanza estremamente critica e preoccupata della parabola istituzionale italiana.

Il volume è anzitutto un grande saggio di metodo: tutta la vicenda del costituzionalismo italiano si apre a una comprensione unitaria, in cui eventi e singoli personaggi della storia italiana vengono posti e interpretati come momenti di una dinamica di lungo periodo che ha dominato il funzionamento delle nostre istituzioni a partire dal Risorgimento. Il collante e il comune denominatore dell'affresco sono, tuttavia, rappresentati dal fattore negativo costituito dalla cronica incapacità italiana a produrre stabilità istituzionale. La Storia del M. si snoda di fallimento in fallimento: dallo "pseudoparlamentarismo" liberale alla dittatura fascista, che di esso costituisce lo sbocco fatale, fino a una Costituzione repubblicana che nonostante le sue "presunzioni e astrazioni" finisce poi per reincamminarsi sulla medesima via dell'instabilità. La forza del disegno storiografico è insomma anche il suo limite: quello di una storia del sistema politico italiano risolta tutta - alla Gaetano Mosca - nei termini di una cronica anomalia.

Il M. morì a Firenze il 23 giugno 1969.

Per una bibliografia cronologica della ricca produzione del M. si rinvia al volume di L. Borsi, Costituzionalismo e classe politica. Mosca Arcoleo M., Milano 2000, pp. 545-550. Tra gli scritti ripubblicati, o editi per la prima volta dopo la morte dell'autore, vedi soprattutto: La Repubblica, con introduz. di S. Ortino, Firenze 1973; Lettere da Fiume alla fidanzata, a cura di E. Bossi, Milano 1973; Storia del potere in Italia (1848-1967), a cura e con introduz. di A. Panebianco, ibid. 1995; La costituzione degli Stati Uniti d'America, a cura e con introduz. di E. Capozzi, Soveria Mannelli 2003.

Fonti e Bibl.: E. Bossi, Un uomo libero, G. M., Cuneo 1977; A. Campi, Modelli di storia costituzionale in G. M., Roma 1995; T.E. Frosini, M. e la Costituzione tra mito e realtà, introduz. a G. Maranini, Il mito della Costituzione, Roma 1996, pp. 3-44; L. Borsi, Costituzionalismo e classe politica…, cit., pp. 347 ss.; D. Palano, Il giovane M.: appunti per una storia della scienza politica italiana tra le due guerre, in Teoria politica, XVIII (2001), 3, pp. 131-157; E. Capozzi, Le alternative costituzionali. Modello anglosassone e continentale nel pensiero costituzionale di G. M., in Le costituzioni anglosassoni e l'Europa. Riflessi e dibattito tra '800 e '900, a cura di E. Capozzi, Soveria Mannelli 2002, pp. 159-192; Istituzioni e poteri nell'Italia contemporanea. Atti del Convegno di studi in memoria di G. M. a cento anni dalla nascita… 2002, a cura di S. Rogari, Firenze 2004 (con contributi di: S. Rogari, L. Lotti, L. Mannori, A. Zanfarino, E. Capozzi, P. Schiera, S. Basile, G. Volpe, T.E. Frosini, C. Fusaro, S. Volterra, L. Borsi, F. Lanchester, M. Caciagli, P. Armaroli); Enc. del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, a cura di R. Esposito - C. Galli, Roma-Bari 2001, sub voce.

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