MAGGIOLINI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 67 (2006)

MAGGIOLINI, Giuseppe

Ilaria Sgarbozza

Nacque a Parabiago, piccolo borgo alle porte di Milano, il 13 nov. 1738 da Gilardo, guardiano degli impianti di irrigazione del locale monastero di S. Ambrogio, e da Caterina Cavalleri.

Scarse sono le notizie in merito alla formazione e agli esordi, limitate al racconto encomiastico del primo biografo, Giacomo Antonio Mezzanzanica, secondo il quale il M. si dedicò sin dall'infanzia ai lavori di falegnameria nel laboratorio del convento di S. Ambrogio, dove, adolescente, conobbe il sacerdote novarese Antonio Maria Coldiroli, erudito eclettico e scienziato, che lo educò al disegno (Mezzanzanica, in Mostra commemorativa, p. 10; Beretti, 1994, p. 11). Stando alla stessa fonte, all'età di circa venti anni il M. prese in moglie la guardarobiera del monastero, Antonia Vignati, e aprì una bottega sulla piazza del paese, lavorando al servizio dell'anonima clientela locale.

Al 1765 risalirebbe il fondamentale incontro con il pittore Giuseppe Levati, allora impegnato nella decorazione del palazzo Litta a Lainate. In visita a Parabiago, Levati sarebbe stato colpito dall'eccellenza dei mobili realizzati dal M. e gli avrebbe commissionato un canterano (perduto), giudicato, alla consegna, di straordinaria qualità (Mezzanzanica, in Beretti, 1994, p. 12). Fu dunque soprattutto grazie all'intermediazione di Levati che al M. si aprirono le porte della committenza aristocratica e dell'affermazione professionale. Il suo volume d'affari dovette in effetti crescere notevolmente nel corso degli anni Sessanta se, in occasione del primo, temporaneo, soggiorno a Milano, nel 1771, si fece accompagnare da dodici aiutanti. L'occasione del trasferimento nel capoluogo lombardo fu l'incarico - ricevuto dal marchese Giambattista Meriggia su probabile consiglio di Levati - della realizzazione degli apparati effimeri (perduti) destinati ai festeggiamenti per le nozze tra l'arciduca Ferdinando d'Asburgo, governatore di Milano, e la duchessa Maria Beatrice d'Este. Il felice esito dell'iniziativa, coordinata da Giuseppe Piermarini, determinò il definitivo ingresso del M. nella cerchia degli artisti gravitanti intorno al conte Carlo di Firmian, impegnati nella riforma della decorazione d'interni in senso antibarocco.

Dal 1773, sotto la direzione di Piermarini e dell'ornatista Giocondo Albertolli, tra i più accesi sostenitori del rinnovamento del gusto, il M. fu dunque impegnato nella realizzazione di mobili (dispersi probabilmente già negli anni di governo napoleonico) e di pavimenti lignei del palazzo reale (distrutti nel corso della seconda guerra mondiale ma noti attraverso una serie di lastre fotografiche conservate presso il Civico Archivio fotografico del Comune di Milano: ibid., pp. 14-23).

Attraverso l'ampio fondo dei disegni di bottega, pervenuto nell'aprile del 1882 alle Civiche Raccolte d'arte applicata del Comune di Milano, è possibile la ricostruzione dell'iter creativo del M. sin dai primi anni di attività milanese.

Il fondo raccoglie i fogli consegnati al M. dai pittori e decoratori lombardi che collaborarono all'ideazione dei temi iconografici e ornamentali e comprende i più modesti disegni prodotti - in infinite varianti, utilizzate ripetutamente, all'occorrenza - dai disegnatori della bottega. Ne costituisce parte integrante un corpus di incisioni, la Raccolta di carte diverse di Giuseppe Maggiolini (1784), formato da stampe, ritagliate e incollate su cartoncini, tratte dai repertori decorativi settecenteschi di area tedesca e francese. Un elenco di ottantasei qualità di legni diversi è inoltre tra le carte a testimoniare la provenienza, soprattutto orientale, dei colori della "tavolozza". Il fondo è dunque una miniera di informazioni sull'evoluzione della maniera dell'intarsiatore e sulle fonti d'ispirazione dei suoi ornati, dalle invenzioni rocaille di Nicolas Anton Gutwein, di Franz Xaver Habermann o di Jean-Antoine Watteau ai cataloghi di arredi e di decorazioni d'interni di Carl August Grossmann, di Jean Hauer e di Jean-François Boucher (Colle, 1992, pp. 80 s.).

Perfettamente allineate al gusto per la cineseria e l'esotismo appaiono le prime opere sopravvissute del M.: una commode ora nelle Civiche Raccolte d'arte applicata del Comune di Milano e una scrivania da centro, forse appartenuta a Maria Teresa d'Asburgo, nella Bundessamlung alter Stilmöbel di Vienna, databili intorno al 1773 (Beretti, 1994, pp. 35-49).

Per i due mobili, caratterizzati da un fusto dalla forma rigonfia e da un cromatismo fortemente contrastato, il M. fece ricorso ai disegni di Levati e del giovanissimo Andrea Appiani per i motivi sinizzanti intarsiati sui fianchi e sui piani. In particolare, dall'analisi delle carte di bottega è emersa la dipendenza delle scene figurate di Appiani da prototipi di A. Watteau per il "cabinet du roi" del castello della Muette (Baccheschi; Colle, 2003), a testimonianza della durevole diffusione in ambito principesco di un gusto "francese" (tra lo stile Luigi XV e il primo Luigi XVI), che tardò a tramontare fino agli anni Ottanta e sul quale si innestò a fatica la maniera neoclassica.

Fu dunque solo dopo il 1773 che il M. si aprì alle istanze di rinnovamento introdotte in Lombardia da Agostino Gerli e da Albertolli, frutto di una sapiente unione tra la ricerca di semplicità e comfort e l'eredità classica. Il lavoro in direzione della definizione dei nuovi modelli architettonici e decorativi poté dirsi concluso intorno al 1783-84, quando il Giornale di Milano diede ripetutamente notizia dell'entusiastica accoglienza riservata dal pubblico, arciduchi compresi, alle opere della bottega di Parabiago, definite come di "nuovo disegno con tutti quei graziosi e scelti ornati" (Beretti, 1994, pp. 57 s.).

Si trattava di mobili che - come testimonia la coppia di commodes probabilmente commissionata al M. dalla famiglia Greppi (Milano, Civiche Raccolte d'arte applicata, e Venezia, già asta Semenzato del 27-30 sett. 1984: ibid., pp. 62-67) - inauguravano un nuovo modello di cassettone dalle forme squadrate e semplici, marcato alle estremità da semipilastri terminanti in piedi torniti o scanalati, e abbellito da cornici e fasce orizzontali e verticali, disposte attorno a grandi cartelle figurate. A contraddistinguerli era la rappresentazione di episodi legati non più al lontano Oriente, ma al mondo classico, quali allegorie, scene mitologiche, architetture in prospettiva e rovine monumentali, le forme delle quali erano suggerite all'intarsiatore dai menzionati "specialisti" Levati, Appiani, Gerli e Albertolli, oltre che da collaboratori "minori", come il figlio del M. Carlo Francesco o l'allievo Carlo Cantaluppi: celebrata al pari di un dipinto fu la tarsia in legni orientali con la Galleria del re di Polonia (1783: collezione privata), disegnata da Levati e commissionata da Ferdinando d'Asburgo per farne dono al sovrano Stanislao Augusto Poniatowski (González-Palacios, 1993; Il neoclassicismo in Italia, pp. 359, 512); come un oggetto capace di fornire una prova tangibile dello straordinario rinnovamento culturale della Milano asburgica fu osannato il contemporaneo tripode - snello e fittamente decorato di motivi tratti dal repertorio albertolliano - destinato alla corte di Pietroburgo (perduto, ma noto da un disegno di Levati, in Colle, 2001, pp. 543, 552).

L'alleanza con i più aggiornati decoratori attivi in città si indebolì, senza però mai venire meno (sono intarsiati su disegni di Albertolli, di Levati e di Appiani i tavolini, oggi in collezioni private milanesi, e il secrétaire del Museo dell'arredamento di Stupinigi, in Beretti, 1994, pp. 98-113), nel decennio compreso tra il 1784 e il 1796, quando il M., ormai a capo di una bottega costituita di almeno trenta elementi, affiancò alla produzione dei mobili destinati alle residenze aristocratiche quella degli arredi di uso comune, quali tavoli, sofà, poltrone e sedie, realizzati serialmente per un pubblico alto-borghese, secondo un sistema che prevedeva la definizione del modello architettonico e l'applicazione di motivi ornamentali collaudati, perfezionabili o variabili nel rispetto delle simmetrie e dell'equilibrio tra le parti (esemplificativi sono i tre secrétaires, ibid., pp. 115-125).

Di quegli anni è l'apposizione sugli arredi di maggior pregio del cartiglio "Intarsiatore delle LL.AA.RR.", a certificazione di un brevetto concessogli da Ferdinando d'Asburgo, probabilmente al tempo della tarsia con la Galleria del re di Polonia. Contemporanea è inoltre l'apertura, in ambito lombardo, di alcuni laboratori, organizzati secondo il vincente modello dell'officina di Parabiago da alcuni discepoli del maestro, tra i quali Gasparo Bassani, Lodovico Beller, Carlo De Nava, Domenico Vannotti e Francesco Abbiati (ibid., p. 87; Colle, 2001, p. 557).

Nel 1788 la fama dell'artista era consolidata a tal punto che la Società patriottica di Milano, in occasione della presentazione al pubblico del quadro con Due geni alati (Azzate, collezione privata: Beretti, 1994, pp. 138-141), gli concesse una medaglia d'oro per aver fatto risorgere l'arte dell'intaglio e "per averle aggiunto non poco di perfezione sì nel gusto, che nella solidità dei suoi lavori, a cui non giunsero gli antichi stessi" (Gazzetta di Milano, 29 dic. 1788: ibid., p. 139). L'anno successivo, sull'onda della fortuna arrisa all'opera, il M. ne tradusse il disegno preparatorio, autografo di Appiani, in tarsia per il fianco di una delle commodes commissionategli forse dalla famiglia Busca-Arconati-Arese (Milano, già palazzo Serbelloni: ibid., pp. 158-161). Concepiti come monumentali cofani decorati ai lati da sinuose figure femminili in legno dorato e da grifi in bronzo patinato, i due cassettoni si attestano come i capolavori della maturità del M., frutto di una stratificazione di conoscenze che spazia dalla serie di incisioni di Jean-Charles Delafosse per la Nouvelle iconologie historique (1768-71), agli stucchi albertolliani di palazzo Casnedi, ai mobili di Jean-Henri Riesener (Beretti, 1998, p. 83; Colle, 2001, pp. 554-556).

Sullo scorcio del secolo furono proprio l'eccellenza acquisita nella messa a punto dei modelli decorativi e la perfezione tecnica raggiunta nelle varie fasi della produzione a permettere alla bottega, ormai trasferita a Milano, di presentarsi alle autorità direttoriali francesi come una delle più avviate e floride imprese commerciali attive in città.

Benché Mezzanzanica abbia negato la collaborazione tra il M. e le autorità napoleoniche prima del 1805, sono emerse tracce in tempi più recenti di stretti rapporti con il vicepresidente della Repubblica Italiana, Francesco Melzi d'Eril, sin dal 1802 (Beretti, 1994, p. 148), anno al quale sembra potersi datare la commessa da parte del Melzi per una toilette caratterizzata da una prodigiosa raffinatezza esecutiva (Monza, collezione privata: ibid., pp. 166-171); di due anni dopo paiono essere due commodes (New York, collezione Dalva Brothers: ibid., pp. 172-177) forse destinate all'appartamento di Napoleone nel palazzo reale. La stima che il viceré del Regno d'Italia Eugenio di Beauharnais nutrì per il M. è peraltro dimostrata dal fatto che questi e suo figlio poterono fregiarsi, dopo il 1805, del titolo di "ebanisti di Sua Altezza reale", in virtù del quale realizzarono una sessantina di tavoli da gioco "impiallacciati fini" per il palazzo di città e per la villa di Monza (quelli superstiti sono oggi distribuiti tra il palazzo reale e il palazzo Clerici: ibid., pp. 194-197). I disegni progettuali evidenziano, in questo caso, una certa assimilazione dei canoni estetici dello stile Impero, con un interesse pressoché esclusivo per la composizione dei piani, contraddistinti da un'incorniciatura perimetrale che racchiude un'ampia cartella centrale, circolare, quadrata o polilobata; singoli motivi decorativi di angoli, bordure e contorni si ripetono, spesso con la sola variante della scelta dei legni, mentre il tema figurativo principale è in genere una riproposizione di modelli tratti da opere eseguite negli stessi anni.

L'inaridimento delle soluzioni compositive, se forse scalfì il primato della bottega presso la corte (non sono noti incarichi successivi al 1809), non sembrò influenzare il rapporto con la clientela aristocratica e borghese, così che alla sua morte il M. lasciò al figlio Carlo Francesco una gran quantità di prestigiose commesse.

Il M. morì a Parabiago il 16 nov. 1814.

Carlo Francesco, nato a Parabiago nel 1758, sin dall'adolescenza seguì le orme del padre, ricevendo i primi insegnamenti di disegno da colui che ne era stato il maestro, l'abate Coldiroli. Stando a quanto riportato da Mezzanzanica (Morazzoni, 1957, p. 27), il giovane perfezionò la sua educazione grafica con Albertolli. Indirizzato all'incisione da Gerolamo Martelli, frequentò con successo i corsi dell'Accademia di Brera. L'iter formativo poté dirsi concluso intorno al 1783, anno in cui la sua firma affiancò per la prima volta quella del padre nella tarsia con la Galleria del re di Polonia. Da quel momento egli dovette essere impegnato a tempo pieno nell'officina paterna, dedito soprattutto alla supervisione e alla messa a punto dei modelli decorativi da tradurre in intarsio: il suo nome compare infatti in calce a numerosi disegni del fondo di bottega, accompagnati talvolta da note che suggeriscono correzioni da apportare o materiali da impiegare (si vedano, per esempio, i fogli relativi al secrétaire di collezione privata milanese, in Beretti, 1994, pp. 122-125). La qualifica di disegnatore e incisore è dunque quella che la storiografia contemporanea - da González-Palacios (nella Prefazione a Beretti, 1994, p. 6) a Beretti (1994, pp. 27 s.) - preferisce assegnare a Carlo Francesco, anche in considerazione della totale assenza di mobili autografi. Soltanto un modesto guéridon in legno di noce, databile al 1824 (Milano, collezione privata: ibid., pp. 218-221), appare infatti a lui attribuibile nell'invenzione, con un esito di poco superiore a quello della contemporanea e stanca produzione di bottega.

Nel quindicennio che seguì il 1814, quando l'officina fu interamente nelle sue mani, nacquero infatti mobili pensati pressoché esclusivamente per un ampio pubblico borghese che, memore del glorioso passato del nome Maggiolini, ambiva a possedere copie di vecchi e celebri arredi, badando ben poco alla qualità dei manufatti. Lo scadimento del lavoro al livello artigianale è testimoniato peraltro dal fatto che restano di quegli anni pochissimi disegni iconograficamente innovativi e soltanto due o tre mobili, carenti dal punto di vista compositivo e mortificati dall'utilizzo di legni ordinari, incapaci di restituire la ricchezza di sfumature tipica della produzione paterna. Alla morte di Carlo Francesco, nel 1834, fu Cherubino Mezzanzanica, già allievo di Giuseppe, a succedergli nel ruolo di capobottega. A lui spettò l'eredità del fondo dei disegni necessario alla prosecuzione dell'attività artigiana.

Fonti e Bibl.: A. Gerli, Opuscoli, Parma 1785, p. 40; Indice delle produzioni delle arti del paese esposte nel palazzo di Brera, Milano 1805, p. 14; G.A. Mezzanzanica, Genio e lavoro. Biografia e breve storia delle principali opere dei celebri intarsiatori G. e Carlo Francesco Maggiolini di Parabiago, Milano 1878; F. Meda, G. M., Parabiago 1914; Mostra commemorativa di G. M. (catal.), a cura di G. Nicodemi, Milano 1938; G. Morazzoni, Il mobile intarsiato di G. M., Milano 1953 (nuova ed., ibid. 1957); M. Ceriani, G. M. da Parabiago celebre intarsiatore nel 150 anniversario della morte (1738-1814), Milano 1965; C. Alberici, Il mobile lombardo, Milano 1969 (nuova ed., Novara 1996), pp. 17-19, 172-189; E. Baccheschi, Cineserie rococò nell'ambiente maggioliniano: Appiani e Watteau, in Arte lombarda, XIV (1969), 2, pp. 147-150; The age of Neoclassicism (catal.), London 1972, pp. 791 s.; E. Colle, Modelli d'ornato per G. M., in Prospettiva, 1992, n. 65, pp. 78-84; A. González-Palacios, Il gusto dei principi. Arte di corte del XVII e del XVIII secolo, Milano 1993, I, pp. 340-344; II, pp. 304-306; G. Beretti, G. e Carlo Francesco Maggiolini. L'officina del neoclassicismo, Milano 1994; G.B. Sannazzaro, Affreschi di Andrea Appiani prima dell'avvento di Napoleone, in Labyrinthos, XIII (1994), 25-26, p. 150; E. Colle, "Dipingere coll'intarsiatura in legno": appunti sul mobile intarsiato lombardo, in Rass. di studi e di notizie, XIX (1995), pp. 105-146; Id., Museo d'arti applicate. Mobili e intagli lignei, Milano 1996, ad ind.; A.M. Necchi, Ebanisti e incisori: M. e Appiani, Revelli e Piranesi, in Grafica d'arte, VIII (1997), 30, pp. 33-37; G. Beretti, Andrea Appiani: i disegni d'ornato per il "bravo signor Maggiolini", in Rass. di studi e di notizie, XXII (1998), pp. 39-92; Id., Milano 1771. L'uso di Vienna e la moda di Francia: decorazioni e arredamento alla corte ferdinandea, ibid., XXIII (1999), pp. 241-252 (in particolare, p. 254); A. González-Palacios, Il tempio del gusto. Le arti decorative in Italia tra classicismi e barocco, Vicenza 2000, pp. 314, 375, 681, 707-747; E. Colle, Le arti decorative, in F. Mazzocca - A. Morandotti - E. Colle, Milano neoclassica, Milano 2001, pp. 531-558; Il palazzo reale di Milano, a cura di E. Colle - F. Mazzocca, Milano 2001, pp. 207-218; Il neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova (catal.), a cura di F. Mazzocca et al., Milano-Firenze 2002, pp. 335-345, 359, 511-515; E. Colle, Il mobile rococò in Italia. Arredi e decorazioni d'interni dal 1738 al 1775, Milano 2003, p. 374; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIII, p. 556; The Dictionary of art, XX, p. 90.

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