VERDI, Giuseppe Fortunino Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 98 (2020)

VERDI, Giuseppe Fortunino Francesco

Fabrizio Della Seta

– Nacque a Roncole di Busseto, presso Parma, il 10 ottobre 1813, primogenito di Carlo (1785-1867), oste e commerciante, e di Luigia Uttini (1787-1851), filatrice, di Saliceto di Cadeo. Una sorella, Giuseppa Francesca, nata nel 1816, morì di tifo o colera nel 1833.

Le Roncole, oggi Roncole Verdi, è una frazione a 5 km a est di Busseto. Già feudo dei marchesi Pallavicino passato nel 1637 ai Farnese, nel 1813 il territorio apparteneva al dipartimento del Taro dell’impero napoleonico; Verdi nacque dunque cittadino francese e in francese fu stilato l’atto di battesimo, in data 11 ottobre. Nel 1814 il territorio tornò a far parte del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, di cui Verdi fu cittadino fino al 1859.

Le informazioni sulla biografia giovanile di Verdi, fino al momento in cui divenne un personaggio pubblico, dipendono, oltre che da pochi documenti d’archivio, soprattutto dalla memorialistica locale (G. Demaldè, Cenni biografici..., 1842 circa; H, Cavalli, José Verdi, 1867; E. Seletti, La città di Busseto, 1883) e da dichiarazioni rilasciate dallo stesso compositore in età matura (M. Lessona, Parma, 1869; A. Pougin, Giuseppe Verdi, 1881); esse sono perciò circonfuse da un’aura di leggenda che rende spesso difficile discernere i fatti certi. Fra questi sembra attendibile il racconto, fatto da Verdi stesso ad Arrigo Boito, di come nella primavera del 1814 la madre, rifugiandosi nel campanile, sottrasse il bimbo alle violenze dei soldati russi (M. Conati, Interviste e incontri con Verdi, 2000, p. 397).

Le prime notizie sulla vocazione musicale di Verdi riguardano le impressioni lasciate sul fanciullo, nei primi anni di vita, da musicisti ambulanti, fra i quali, verso il 1815, un violinista chiamato Bagassèt. Fin dal 1818 egli prese lezioni di organo e canto dall’organista locale Pietro Baistrocchi, mentre il parroco Carlo Arcari gli impartiva i primi rudimenti di lettura e scrittura. Si conserva ancor oggi nella Casa di riposo per musicisti di Milano la spinetta acquistata dal padre nel 1820 e riparata gratuitamente nel 1821 dall’artigiano Stefano Cavalletti, «vedendo la buona disposizione che ha il giovanetto Giuseppe Verdi d’imparare a suonare questo istromento» (ibid., p. 400). Alla morte di Baistrocchi (1823), Verdi era in grado di prenderne il posto nelle funzioni religiose.

Nello stesso anno Carlo Verdi consentì al figlio di stabilirsi a Busseto, a pigione presso il possidente Pietro Michiara (Mickler), per proseguire gli studi. Mentre continuava a svolgere il servizio domenicale di organista alle Roncole, Verdi frequentò il locale ginnasio, ristabilito nel 1819 dalla duchessa Maria Luigia, dove ricevette i fondamenti di una formazione umanistica. Fra gli insegnanti, il più importante fu il canonico Pietro Seletti, letterato e musicista dilettante, che nel 1831-32 ospitò l’allievo come pensionante in casa propria. In questo periodo entrò nella vita di Verdi la figura di Antonio Barezzi, facoltoso grossista e dilettante di vari strumenti, fondatore (nel 1816), presidente e finanziatore della Società filarmonica di Busseto: Verdi lo considerò sempre un secondo padre.

A Busseto, dopo aver continuato le lezioni di musica con l’organista don Pietro Arquati, dal 1825 studiò contrappunto e composizione con Ferdinando Provesi, organista della locale collegiata e direttore della scuola di musica municipale, nonché direttore musicale della Filarmonica. Per quest’ultima (che non aveva una vera orchestra, ma i cui membri, tutti dilettanti, partecipavano alle funzioni religiose e suonavano in accademie private) fece le sue prime prove come compositore: «Dagli anni 13 fino alli anni 18 [...] ho scritto una farragine di pezzi: marcie per banda a centinaja: forse altrettante piccole Sinfonie che servivano per chiesa; pel Teatro, e per accademie: cinque o sei tra concerti e variazioni, per Piano forte che io stesso suonava nelle accademie: molte serenate: cantate (arie, moltissimi duetti, terzetti), e diversi pezzi da chiesa di cui non ricordo che uno Stabat Mater» (appunto manoscritto, 1853, in Nel primo centenario di Giuseppe Verdi 1813-1913, Milano 1913, p. 5).

A Busseto (Archivio capitolare della Collegiata di S. Bartolomeo; Biblioteca della Fondazione cassa di risparmio di Parma) è stata identificata una quantità di manoscritti musicali di Provesi in cui compare, in misura crescente nel tempo, anche la mano di Verdi (D. Rizzo, Verdi filarmonico, 2005, pp. 213-371). È difficile stabilire con certezza la paternità delle musiche, dato che la prassi didattica prevedeva che all’allievo fosse affidata la copiatura, poi anche il completamento di composizioni del maestro o di altri musicisti, per esempio di Giuseppe Nicolini e Ferdinando Paer, e che questi intervenisse in quelle dell’allievo. Composizioni attribuibili con una certa sicurezza a Verdi compaiono a partire dal 1828-29; tra cui, due Tantum ergo a voce sola (basso e tenore) e orchestra. Risalgono a questo periodo, anche se non sopravvissute, la cantata I deliri di Saul (1828) e Le lamentazioni di Geremia (1831).

Nel 1831 Verdi andò ad abitare in casa di Barezzi, anche per dare lezioni di pianoforte e di canto alla di lui figlia, Margherita (1814-1840), con la quale intrecciò una relazione sentimentale non malvista dai genitori di lei. Barezzi, che intravedeva in lui un futuro genero di successo, fu determinante per il successivo passo nella carriera, il trasferimento a Milano onde completarvi gli studi nel locale conservatorio; egli si adoperò per procurargli una borsa di studio quadriennale del Monte di pietà di Busseto, per ottenere la quale Carlo Verdi dovette rivolgere un’istanza alla duchessa; indi, non potendosi ottenere tale borsa prima di un anno, anticipò di persona la somma necessaria.

Nel giugno del 1832 Verdi si recò a Milano per sostenere l’esame di ammissione al conservatorio come alunno interno, ma fu respinto perché straniero, perché superava di quattro anni il limite di età e per la difettosa impostazione pianistica; Barezzi si assunse allora l’onere di mantenerlo a Milano (come pensionante di Giuseppe Seletti, nipote di Pietro) affinché svolgesse gli studi privatamente. Fu scelto per maestro Vincenzo Lavigna, buon contrappuntista di scuola napoletana e maestro sostituto al teatro alla Scala; questi impose a Verdi, oltre agli usuali esercizi di contrappunto e allo studio assiduo del Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, l’analisi di partiture operistiche moderne da prendere a noleggio e la frequentazione degli spettacoli teatrali. Verdi corrispose alla fiducia di Barezzi accelerando al massimo gli studi; pur non avendoli ancora terminati, nell’aprile del 1834 tornò a Busseto per concorrere al posto di maestro di musica comunale restato vacante per la morte di Provesi (26 luglio 1833). Il posto gli fu però assegnato solo all’inizio del 1836. dopo un lungo conflitto con le autorità ecclesiastiche che vollero assegnare a un tale Giovanni Ferrari, da loro protetto, la carica tradizionalmente unita alla prima di organista della collegiata (sulla vicenda, in cui si mescolavano questioni di natura politica con conseguenze per l’ordine pubblico, per cui dovette intervenire la stessa duchessa, cfr. Marchesi - Vetro, 1979). Nel frattempo Verdi aveva proseguito gli studi con Lavigna, aveva rinunciato a concorrere a un favorevole posto di organista nella cattedrale di Monza e aveva esordito come direttore del coro e maestro al cembalo a Milano nell’esecuzione della Creazione di Franz Joseph Haydn (11 aprile 1834, teatro dei Filodrammatici, con replica privata il 16 al Casino dei nobili); nell’aprile del 1835 fu di nuovo maestro al cembalo ai Filodrammatici nella Cenerentola di Gioachino Rossini.

Questi eventi mostrano come Verdi si fosse inserito fin da allora nella società aristocratica milanese; strinse amicizia, fra gli altri, con Giuseppina Appiani, Emilia Morosini, Andrea Maffei, più tardi suo librettista, e la moglie di questi Clara Spinelli (contessa Clara Maffei), che fu sua confidente fino alla morte (Gerhard, 2012).

È probabile che in questo ambiente Verdi si sia accostato a idee antiaustriache, maturando umori che circolavano anche negli ambienti anticlericali e potenzialmente sovversivi di Busseto, di cui la cerchia di Barezzi era un centro di riferimento. Una traccia ulteriore di questo clima si trova nella composizione dei «Cori delle Tragedie di Manzoni, a tre voci, ed il Cinque Maggio a una sola», quest’ultimo eseguito in casa del conte Renato Borromeo, composizioni che Verdi affermò di aver conservato al contrario di tutta la restante produzione giovanile (appunto manoscritto, 1853, in Nel primo centenario..., cit.).

Gli anni 1836-39 furono segnati dal ritorno a Busseto, dalla ripresa attività di compositore per la Filarmonica, dal matrimonio con Margherita (4 maggio 1836) e dalla nascita di due figli prematuramente scomparsi: Virginia (26 marzo 1837-12 agosto 1838) e Icilio (11 luglio 1838-22 ottobre 1839).

La scelta dei nomi dei figli, di derivazione alfieriana, conferma la condivisione di ideali antitirannici di lontana ascendenza giacobina. Fra le composizioni risalenti a questo periodo Verdi ricordò, oltre alle usuali «marcie, sinfonie, pezzi vocali et.. una Messa intiera, un Vespero intiero, tre o quattro Tantum ergo ed altri pezzi sacri che non ricordo» (appunto manoscritto, 1853, in Nel primo centenario..., cit.): alcune di esse sono state identificate con certezza, mentre è controversa l’autenticità di altre. L’autografo di un Tantum ergo, ora al Museo teatrale alla Scala, fu autenticato dal compositore il 1° settembre 1893 con le parole: «Riconosco, ahimè! d’aver messo in musica, circa sessant’anni fa, questo Tantum Ergo!!! Consiglio il possessore di questo infelice componimento di gettarlo alle fiamme. Queste note non hanno il minimo valor musicale, né ombra di colorito religioso!!» (ed. a cura di D. Rizzo, Milano-Parma 2000).

Al 1838 risale l’uscita della prima opera a stampa, una raccolta di Sei romanze per canto con accompagnamento di pianoforte (Milano, Canti) su rime di vari poeti, fra i quali Jacopo Vittorelli e il medico bussetano Luigi Balestra, autore di due traduzioni dal Faust goethiano.

Ma le ambizioni di Verdi erano rivolte al teatro. Fin dal 1835 lavorava a un melodramma serio su libretto di Antonio Piazza variamente designato come Lord Hamilton o Rocester (non è chiaro se si trattasse della stessa opera), terminato nel settembre dell’anno successivo, che tentò invano di far rappresentare a Parma. Prima ancora che scadesse l’impegno triennale con il comune di Busseto, nel 1839 Verdi si stabilì a Milano con la moglie e il figlio e riuscì a ottenere dall’impresario Bartolomeo Merelli la commissione per un’opera da allestire alla Scala in autunno.

Il 17 novembre 1839 andò in scena Oberto conte di San Bonifacio (dramma in due atti di Temistocle Solera, che riprendevaRocester). Benché fosse venuta a mancare la compagnia annunciata, che doveva comprendere celebrità quali Giuseppina Strepponi, Napoleone Moriani e Giorgio Ronconi, il successo fu tale da indurre Merelli a prevederne la ripresa e poi a offrire a Verdi un contratto per altre tre opere; per la prima di esse gli fu affidato un melodramma giocoso di Felice Romani risalente al 1818 (anch’esso riveduto da Solera), Il finto Stanislao, ribattezzato Un giorno di regno.

La composizione fu funestata dalla morte di Margherita (18 giugno 1840); fosse che questo evento, peraltro noto al pubblico, influisse negativamente sulla volontà di Verdi, fosse per il carattere antiquato del libretto, Un giorno di regno cadde all’unica rappresentazione del 5 settembre 1840 (ma fu ripresa con buon esito a Venezia nel 1845, a Roma nel 1846 e ancora nel 1859 a Napoli). Seguì un periodo di abbattimento durante il quale Verdi fu tentato di abbandonare il mestiere di compositore; solo la fiducia di Merelli, che si ostinò ad affidargli il libretto del Nabucodonosor (dramma lirico di Solera, già rifiutato da Otto Nicolai), valse a farlo recedere dal suo proposito. L’opera andò in scena alla Scala il 9 marzo 1842 con grandissimo successo, nonostante la cattiva prestazione della prima donna: si trattava di Strepponi, brillante soprano dal burrascoso passato sentimentale (aveva tre figli illegittimi), ora in declino e in procinto di ritirarsi (la stessa che nell’autunno del 1839 aveva caldeggiato l’allestimento di Oberto).

Nabucco (così l’opera fu poi sempre designata) rappresentò per Verdi l’inizio di una carriera faticosa, ma di crescente successo. Nei quattro anni successivi consolidò il proprio nome nei più importanti teatri d’Italia scrivendo quattro «drammi lirici» per la Scala (I lombardi alla prima crociata, libretto di Solera, dal poema di Tommaso Grossi, 11 febbraio 1843; Giovanna d’Arco, libretto di Solera, parzialmente da Friedrich Schiller, 15 febbraio 1845) e per la Fenice di Venezia (Ernani, libretto di Francesco Maria Piave, da Victor Hugo, 9 marzo 1844; Attila, libretto di Solera e Piave, da Zacharias Werner, 17 marzo 1846), e due «tragedie liriche» per l’Argentina di Roma (I due Foscari, libretto di Piave, da George Gordon Byron, 3 novembre 1844) e per il S. Carlo di Napoli (Alzira, libretto di Salvadore Cammarano, da Voltaire, 12 agosto 1845), senza contare le riprese curate di persona: particolarmente importante quella, propiziata da Gaetano Donizetti, di Nabucco al Kärntnertortheater di Vienna il 4 aprile 1843, prima apparizione della musica verdiana fuori d’Italia. Tra il 1844 e il 1847 diede anche, per l’unica volta nella sua vita, lezioni di musica a un giovane conterraneo, Emanuele Muzio, già allievo di Provesi e protetto da Barezzi, che divenne poi compositore e direttore d’orchestra.

Le lettere di Muzio a Barezzi forniscono informazioni sul metodo didattico di Verdi, che si rifaceva a quello usato con lui da Lavigna; esso prevedeva lo studio di maestri della tradizione strumentale italiana quale Arcangelo Corelli e di «tutta la musica classica di Beethoven, Mozart, [...] Schubert, Haydn ecc.; poi verremo ai moderni» (Garibaldi, 1931, pp. 166, 168, 198 s.). Nel 1847 Muzio, divenuto assistente del maestro, lo accompagnò a Firenze e a Londra, da dove scrisse importanti resoconti della sua attività.

Molto tempo dopo Verdi definì «anni di galera» i sedici trascorsi dal Nabucco (lettera a Clara Maffei, 12 maggio 1858, in Conati, 2000, p. 41). L’espressione, estrapolata dal contesto e impropriamente riferita alla produzione che precede Rigoletto (1851), è stata spesso intesa come un giudizio negativo del compositore sulla qualità delle opere prodotte prima di quella data; in realtà Verdi intendeva riferirsi alla quantità di lavoro svolto in un periodo più ampio, che comprende vari capolavori e altre opere comunque importanti. Grazie a questo attivismo, Verdi pose le basi della propria indipendenza economica, passando dal compenso di 2000 lire austriache assegnatogli per Oberto alle 12.000 accordategli per Ernani e alle 18.000 per Attila; stabilì, per lo sfruttamento commerciale delle proprie opere, un legame con la casa editrice Ricordi che durò poi fino alla morte; impose un nuovo stile nel rapporto tra compositore, imprese, cantanti, librettisti, censure, a tutto vantaggio del primo per quanto concerneva l’affermazione della volontà artistica (a partire da Ernani si riservò per contratto il potere di approvare gli esecutori). Verdi svolse perciò un ruolo fondamentale nella storia sociale del compositore italiano, realizzando il passaggio da una condizione artigianale a una professionale e affermando con l’esempio l’idea del diritto d’autore in ambito teatrale, che venne poi legalmente riconosciuta dopo l’Unità d’Italia anche grazie all’azione congiunta sua e di Ricordi (Rosselli, 1983; Baia Curioni, 2011). Sul piano artistico, egli incarnò l’ideale – affermatosi nel corso del secolo in Italia e in Europa – del compositore drammaturgo, responsabile ultimo della creazione operistica; lo dimostrano ampiamente i suoi carteggi con i librettisti, ch’egli, con diverse sfumature, considerava realizzatori di progetti drammatici ben chiari nella sua mente, dalla scelta dei soggetti (dopo Nabucco non musicò più nessun libretto composto da altri in precedenza; cfr. anche A. Rizzuti, Argomenti d’opere, in Verdi e le letterature europee, a cura di G. Pestelli, Torino 2016, pp. 71-107) alla pianificazione delle situazioni distribuite in atti, scene, numeri musicali; è significativo che in vari casi la stesura dei libretti occupò un tempo molto più lungo di quello necessario alla composizione della musica.

Il 1847 fu per molti aspetti un anno decisivo. Il 14 marzo andò in scena al teatro della Pergola di Firenze Macbeth (libretto di Piave, con interventi non dichiarati di Maffei), opera chiave non solo perché fu il primo confronto diretto con William Shakespeare, ma anche per l’eccezionale impegno profuso nella composizione e nella messinscena. Subito dopo Verdi diede attuazione al disegno, da tempo accarezzato, di affermare la propria presenza all’estero. Per Londra, dove conobbe gli esuli Giuseppe Mazzini e Luigi Napoleone Bonaparte, scrisse I masnadieri («a tragic opera», libretto di Maffei, da Schiller; Her Majesty’s theatre, 22 luglio 1847) e per Parigi Jérusalem (opéra di Gustave Vaëz e Alphonse Royer; Opéra, 26 novembre 1847), adattamento dei Lombardi del 1843 in forma di grand opéra. Al Théâtre-Italien erano peraltro già comparsi Nabucco nel 1845 ed Ernani, con il titolo Il proscritto, nel 1846. A Parigi risiedette, con alcune interruzioni, fino all’agosto del 1849, senza dubbio beneficiando del clima intellettuale della città; ivi iniziò il legame sentimentale con Strepponi, con la quale, per quanto si fosse ritirata dalle scene, era sempre rimasto in contatto. La nuova esperienza parigina si avverte nel linguaggio delle opere scritte in questo periodo, prima Il corsaro (poesia di Piave, da Byron), commissionata dall’editore Lucca di Milano e allestita, senza l’intervento dell’autore, al Teatro grande di Trieste il 25 ottobre 1848.

Le scelte delle fonti dei libretti riflettono una consapevolezza culturale fino ad allora rara, seppur non sconosciuta, tra i compositori italiani. Sebbene Verdi stesso abbia contribuito a creare di sé un’immagine di musicista rozzo, ‘contadino’, sia la sua formazione a Busseto sia le frequentazioni a Milano portano a credere che si fosse creato una cultura magari non accademica ma tutt’altro che limitata e soprattutto aggiornata, in primo luogo sulla letteratura teatrale antica e recente. La sua cerchia milanese comprendeva frequentatori di Alessandro Manzoni, dal quale ottenne una lettera di presentazione a Giuseppe Giusti, conosciuto nel 1847 a Firenze ma che già nel 1846 aveva menzionato i Lombardi nel suo Sant’Ambrogio. Di Manzoni, oltre alle tragedie e alle poesie che aveva in parte messo in musica, Verdi conosceva fin da ragazzo I promessi sposi, «non solo il più gran libro dell’epoca nostra, ma uno dei più gran libri, che sieno sortiti da cervello umano [...] una consolazione per l’umanità. Io avevo sedici anni, quando lo lessi per la prima volta» (lettera a Clara Maffei, 24 maggio 1867, in Giuseppe Verdi. Lettere, 2012, p. 511). Altra passione precoce fu Shakespeare, «poeta di mia predilezione che ho avuto fra le mani dalla mia prima gioventù, e che leggo e rileggo continuamente» (lettera a Léon Escudier, 28 aprile 1865, in Verdi’s Macbeth, 1984, p. 119), che conobbe nelle traduzioni allora circolanti, in particolare quella pubblicata nel 1839 da Carlo Rusconi; attraverso di essa ebbe accesso agli estratti del Corso di letteratura drammatica di August Wilhelm Schlegel, che potrebbe aver letto per intero nella traduzione di Giovanni Gherardini apparsa nel 1817. Infine, conobbe De l’Allemagne di Mme de Staël, la cui lettura raccomandò a Piave per la stesura di Attila (lettera del 12 aprile 1845, in Giuseppe Verdi. Lettere, 2012, p. 116): da lì trasse l’idea d’ispirarsi alle Stanze di Raffaello Sanzio per la scena dell’incontro con il papa Leone (lettera a Vincenzo Luccardi, 11 febbraio 1845, in Carteggio Verdi-Luccardi, a cura di L. Genesio, Parma 2008, p. 63). Oltre che con lo scultore Luccardi, conosciuto a Roma nel 1844 e suo corrispondente assiduo, l’interesse per le arti figurative lo portò ad avere contatti con pittori e scultori, come Lorenzo Bartolini, Giovanni Dupré, Vincenzo Gemito e Domenico Morelli. Nel corso degli anni Verdi coltivò i propri interessi in vari ambiti della cultura (cfr. in particolare Pizzi, 1901), condividendoli con Strepponi, donna colta e versata nelle lingue straniere, come testimonia anche la biblioteca privata conservata intatta nella villa di Sant’Agata (frazione di Villanova sull’Arda, Piacenza) che fu la residenza stabile della coppia a partire dal 1851.

Il 5 aprile 1848, all’indomani delle Cinque giornate, Verdi tornò da Parigi a Milano, dove incontrò Mazzini. Il suo contributo agli eventi politico-militari del biennio 1848-49 fu essenzialmente artistico: progettò di scrivere un’opera tratta da L’assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi; il progetto fu però accantonato in favore dell’unica sua opera dichiaratamente patriottica, La battaglia di Legnano (tragedia lirica di Cammarano, da Joseph Méry; Roma, teatro Argentina, 27 gennaio 1849). Richiestone da Mazzini, compose un Inno popolare («Suona la tromba, ondeggiano») su versi di Goffredo Mameli, inviato il 18 ottobre 1848 con le parole: «Possa quest’Inno, fra la musica del Cannone essere presto cantato nelle pianure lombarde» (Giuseppe Verdi. Lettere, 2012, p. 199).

La connessione tra Verdi e il Risorgimento, fin dal secondo Ottocento un topos della pubblicistica e della storiografia, è divenuta alla fine del XX secolo oggetto di accese controversie (si vedano in particolare: Pauls, 1996; Parker, 1997; tavola rotonda «Verdi nella storia d’Italia», in Verdi 2001, 2003, pp. 189-226; Della Seta, 2017). Occorre distinguere tra il messaggio patriottico, esplicito o sottinteso, da attribuire ad alcune sue opere e le idee personali del compositore. Nel primo caso si tratta essenzialmente di un fatto di ricezione: benché vi siano tracce, sporadiche ma non minime, del fatto che già verso la metà degli anni Quaranta almeno una parte del pubblico attribuisse significati politici ad alcune opere o a parti di esse (in particolare I lombardi, Ernani, Attila e Macbeth; e non va trascurato che i poeti Solera e Piave furono direttamente coinvolti nelle vicende di quegli anni), e benché si sia dimostrato che l’uso, nella primavera del 1859, dello slogan «Viva VERDI» come acronimo di «Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia» non è una leggenda (M. Sawall, “Viva V.E.R.D.I.”. Origine e ricezione di un simbolo nazionale nell’anno 1859, in Verdi 2001, 2003, pp. 123-131), è chiaro che l’immagine di Verdi «cantore del risorgimento» è in buona parte una costruzione postunitaria funzionale alla creazione di un pantheon di figure simbolo dell’Italia risorta. Non vi sono invece dubbi sul fatto che Verdi aderì convintamente agli ideali risorgimentali, con un’evoluzione che lo portò dal clima genericamente anticlericale di Busseto (dove già nel febbraio del 1831 aveva tentato di arruolarsi nella Guardia nazionale; Conati, 2002, p. 30), attraverso le frequentazioni milanesi, all’adesione a posizioni repubblicane e mazziniane, attestate da numerose dichiarazioni esplicite: la più famosa si trova in una lettera a Piave del 21 aprile 1848 («ancora pochi anni forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, Una, republicana. Cosa dovrebbe essere?»; facsimile in Abbiati, 1959, I, a fronte di p. 752). Ancora nel novembre del 1849, di ritorno per mare da Napoli dove «si conduce una vita che è una morte. Gesuiti e soldati», Verdi trovò modo di visitare il patriota Enrico Cernuschi, detenuto nella fortezza di Civitavecchia, e di adoperarsi affinché fosse trasferito in Francia (Cernuschi a Carlo Cattaneo, 14 dicembre 1849, in Carteggi di Carlo Cattaneo, serie II, Lettere dei corrispondenti, 3, 1845-1849, a cura di G. Albergoni - R. Gobbo, Firenze-Bellinzona 2016, p. 608).

Il viaggio in Italia nella primavera del 1848 non aveva avuto solo scopi politici: in maggio Verdi acquistò la tenuta di Sant’Agata lungo il torrente Ongina, a 3 km a ovest di Busseto, chiaro segno della volontà di tornare in Italia; nell’agosto del 1849, esauritasi l’ondata rivoluzionaria europea, si stabilì infatti a Busseto, nel palazzo Cavalli-Dordoni da lui acquistato fin dal 1845, dove poco dopo lo raggiunse Strepponi. Il soggiorno nella cittadina si rivelò presto difficile: i bussetani rivendicavano un presunto credito nei confronti del musicista e non nascondevano il loro scandalo per un’unione non legalizzata (il matrimonio religioso fu celebrato in segreto il 29 agosto 1859 a Collonges-sous-Salève, in Savoia, e trascritto agli effetti civili nell’aprile del 1869; cfr. Carteggio Verdi-Piroli, a cura di G. Martini, Parma 2017, pp. 195-221, 1091). Verdi si sottrasse al clima di pettegolezzo stabilendosi, dopo il 1851, a Sant’Agata, dove si era frattanto fatto costruire una villa che andò via via ampliando nel corso degli anni. A Busseto mantenne rapporti con poche persone, fra le quali Barezzi, l’unico con cui si sentisse realmente in debito e che dopo qualche malinteso aveva accettato Strepponi come una nuova figlia. Da questo momento Verdi fu, oltre che musicista, un proprietario terriero che seguiva con passione la produzione delle sue tenute, creando così l’immagine diffusa dell’‘artista contadino’ (in realtà fino ad allora egli aveva piuttosto mostrato di voler far dimenticare le sue origini campagnole).

Nonostante le difficoltà umane, alle quali si aggiungevano i difficili rapporti con il padre e la morte, nel 1851, della madre, il periodo 1849-53 fu tra i più felici dal punto di vista creativo: dopo due opere, Luisa Miller (melodramma tragico di Cammarano, da Schiller; Napoli, S. Carlo, 8 dicembre 1849) e Stiffelio (libretto di Piave, da Émile Souvestre ed Eugène Bourgeois; Trieste, Teatro grande, 16 novembre 1850). importanti per la ricerca di nuove ambientazioni e di forme musicali più variate, vennero alla luce le tre destinate a consacrare la fama mondiale di Verdi: Rigoletto (melodramma di Piave, da Hugo; Venezia, Fenice, 11 marzo 1851), Il trovatore (dramma di Cammarano, da Antonio García Gutiérrez; Roma, teatro Apollo, 19 gennaio 1853) e La traviata (libretto di Piave, da Alexandre Dumas figlio; Venezia, Fenice, 6 marzo 1853; il parziale insuccesso, dovuto più alla prestazione dei cantanti che all’audacia del soggetto, fu riscattato l’anno dopo nella stessa città, nel teatro di S. Benedetto, il 6 maggio 1854, con la revisione di alcune parti dell’opera). In parallelo alla creazione dei tre capolavori si svolse la vicenda di un Re Lear, mai realizzato ma oggetto di discussioni e di stesure plurime del libretto da parte dei librettisti Cammarano, tra il 1849 e il 1852, e Antonio Somma, tra il 1853 e il 1856.

Il 10 agosto 1852 il presidente della Repubblica francese, Luigi Napoleone Bonaparte, conferì a Verdi la Légion d’honneur (la notizia gli fu recata a Sant’Agata dall’editore Léon Escudier). Dalla fine del 1853 all’inizio del 1857 Verdi risiedette quasi ininterrottamente a Parigi, dove per l’Opéra compose il suo primo grand opéra interamente originale, Les vêpres siciliennes (libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier; 13 giugno 1855), che dal 1856 e fino all’Unità circolò in Italia come Giovanna de Guzman, e il rifacimento del Trovatore con il titolo Le trouvère e l’aggiunta dei ballabili (libretto di Émilien Pacini; 12 gennaio 1857). In questo periodo consolidò i rapporti personali con l’imperatore, che lo ospitò a Compiègne nell’autunno del 1856.

Il ritmo creativo si fece più lento: nel 1857 comparvero Simon Boccanegra (libretto di Piave, da García Gutiérrez; Venezia, Fenice, 12 marzo) e Aroldo (libretto di Piave; Rimini, Teatro nuovo, 16 agosto), un rifacimento di Stiffelio che tentava di ovviare alle difficoltà di circolazione create dal soggetto drammatico (il protagonista, un pastore protestante che, tradito dalla moglie, le propone il divorzio indi la perdona, fu mutato in un crociato reduce dalla Palestina). Per l’ultima volta Verdi subì le vessazioni delle censure preunitarie nel gennaio-febbraio del 1858, cercando di presentare a Napoli Una vendetta in domino (libretto di Somma, da Scribe), che metteva in scena un regicidio (l’assassinio di Gustavo III di Svezia, 1792); dopo un lungo braccio di ferro l’opera fu ritirata e andò in scena il 17 febbraio 1859 al teatro Apollo di Roma, con il sovrano ridotto a governatore inglese di Boston e con il titolo, rimasto poi definitivo, Un ballo in maschera (melodramma). Ancora una volta le vicende politiche distolsero Verdi dal teatro; alla seconda guerra d’indipendenza egli contribuì acquistando fucili per i volontari e promuovendo collette per le famiglie dei caduti. Le idee mazziniane avevano ceduto, come in molti della sua generazione, all’accettazione della monarchia sabauda e a un avvicinamento alle posizioni della Destra storica, congiunti a una personale ammirazione per Cavour; fu questi a volere che si candidasse a deputato di Borgo San Donnino (l’odierna Fidenza) nel primo parlamento italiano (l’elezione avvenne il 27 gennaio 1861), carica che esercitò con scrupolo trasferendosi a Torino, ma solo fino alla morte dello statista (6 giugno 1861). Quasi ad adempiere il dovere di rappresentare la musica italiana all’estero, Verdi accettò una richiesta da parte dell’Esposizione universale di Londra componendo un Inno delle nazioni su testo di Arrigo Boito, in cui usò le melodie della Marsigliese, dell’inno inglese e del Canto degli italiani di Mameli e Michele Novaro; la cantata fu eseguita il 24 maggio 1862 allo Her Majesty’s theatre di Londra.

Il decennio successivo vide un ulteriore rallentamento del ritmo produttivo; le nuove opere furono destinate prevalentemente a grandi teatri stranieri, i soli che potessero far fronte alle richieste economiche di Verdi e assicurargli realizzazioni soddisfacenti: per San Pietroburgo fu scritta La forza del destino (opera di Piave, da Ángel Saavedra duca di Rivas, teatro Imperiale, 10 novembre 1862), per Parigi il rifacimento di Macbeth (traduzione francese di Charles-Louis-Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont, Théâtre-Lyrique, 21 aprile 1865) e Don Carlos (opéra di Joseph Méry e Camille du Locle, da Schiller e altri, Opéra, 11 marzo 1867), per Il Cairo Aida (opera di Antonio Ghislanzoni, da un soggetto dell’egittologo Auguste Mariette e da uno scenario che ne trasse du Locle, Teatro dell’opera, 24 dicembre 1871). commissionata dal chedivè d’Egitto come opera di celebrazione nazionale.

Solo alla fine del decennio Verdi riallacciò rapporti con la Scala: li aveva interrotti dal 1845 perché insoddisfatto della qualità delle esecuzioni. Al teatro milanese destinò la revisione della Forza del destino (con modifiche di Ghislanzoni, 27 febbraio 1869) e la prima europea dell’Aida (8 febbraio 1872). Quest’ultima godette subito di un ampio successo internazionale che contribuì a consacrare il prestigio di Verdi; egli la allestì personalmente in più occasioni in Italia (Parma, Regio, 1872; Napoli, S. Carlo, 1875) e all’estero (Vienna, Hofoper, 1875; Parigi, Théâtre-Italien, 1876 e Opéra, 1880: in questa occasione ampliò il ballo del secondo atto), e fu attorno ad Aida che si sviluppò la controversia circa un presunto wagnerismo di Verdi.

Sul piano personale furono anche questi anni difficili. Il 14 gennaio 1867 morì il padre Carlo, il 21 luglio il suocero Antonio Barezzi, al quale Verdi era assai più legato che al primo. Nel luglio del 1868 i coniugi Verdi adottarono una cugina orfana, Filomena, detta Maria (1859-1936, figlia di un fratello del padre), che nel gennaio dell’anno successivo fu collocata presso un collegio di Torino per completarne l’educazione. Tra il 1869 e il 1870 un’antica amicizia con il direttore Angelo Mariani si ruppe per una serie di malintesi e di gelosie professionali; il matrimonio con Giuseppina attraversò fino al 1875 un periodo di crisi in cui ebbe una parte tuttora non chiarita l’ammirazione di Verdi per il soprano Teresa Stolz, già fidanzata di Mariani. Più di tutto amareggiarono Verdi le accuse di passatismo rivoltegli dal gruppo di giovani musicisti ‘scapigliati’, culminanti, nel 1863, nel brindisi di Boito All’arte italiana, che invitava a uscire «dalla cerchia del vecchio e del cretino»; mentre Boito e i suoi compagni propugnavano la superiorità della musica strumentale tedesca, cominciava la diffusione in Italia delle idee e delle opere wagneriane, cui Mariani concorse dirigendo nel 1871 a Bologna il Lohengrin. Verdi, che assistette a una recita il 19 novembre, reagì esaltando in più occasioni la validità dell’antica tradizione vocale italiana; risale a questo periodo l’esortazione «Tornate all’antico, e sarà un progresso» (lettera a Francesco Florimo, 5 gennaio 1871, in Giuseppe Verdi. Lettere, 2012, p. 604), spesso citata indebitamente dato che nel contesto originale si riferisce a problemi di didattica della composizione e del canto. In quegli stessi anni si occupò a più riprese dei conservatori di musica; pur avendo rifiutato ai primi del 1871 di assumere la direzione di quello di Napoli, nel febbraio dello stesso anno accettò di far parte di una commissione per la riforma degli istituti di formazione musicale istituita dal ministro Cesare Correnti.

Dopo la breve esperienza parlamentare del 1861, Verdi non partecipò più attivamente alla vita pubblica, tuttavia seguì con attenzione le vicende italiane e internazionali esprimendo opinioni e commenti nella corrispondenza privata, soprattutto quella con il giornalista mantovano Opprandino Arrivabene (Verdi intimo, 1931; Lettere di Giuseppe Verdi..., 2018) e con il coetaneo bussetano nonché senatore Giuseppe Piroli (Carteggio Verdi-Piroli, cit.) e nelle conversazioni con l’erudito Italo Pizzi (1901). Scarso rilievo pratico ebbe la nomina a senatore del Regno, avvenuta il 15 ottobre 1874, per aver «illustrato la Patria» con «servizi e meriti eminenti», ma anche per censo; altri riconoscimenti furono la croce di cavaliere dell’Ordine civile di Savoia (5 luglio 1869) e di grande ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia (21 aprile 1872) e il gran cordone dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro (27 gennaio 1887; documentazione in http://notes9.senato.it/web/ senregno.nsf/ddee2edffd561928c1257114005998d3/16e3660548dcf3454125646f0061674e?OpenDocument#).

La più lunga pausa della carriera operistica di Verdi – dal 1871 al 1879, anno in cui prese avvio il progetto di Otello – fu interrotta da due lavori di diverso genere. Il primo fu un Quartetto per archi composto nel 1872-73, eseguito in privato a Napoli il 1° aprile 1873 e pubblicato da Ricordi nel 1876, scritto quasi per puntiglio allo scopo di dimostrare la propria padronanza delle forme strumentali classiche. Il secondo fu la Messa da requiem, progettata fin dal 1868 come opera collettiva per celebrare l’appena scomparso Rossini e di cui Verdi aveva scritto allora il Libera me. Fallito il progetto (una delle cause del dissidio con Mariani), Verdi lo riprese e completò per onorare la memoria di Manzoni, scrittore che solo negli ultimi anni aveva osato accostare personalmente (l’incontro, propiziato da Clara Maffei, preceduto e seguito da scambi di biglietti e di ritratti, avvenne il 30 giugno 1868). Con il Requiem, eseguito nella chiesa di S. Marco di Milano il 22 maggio 1874, Verdi s’impose al rispetto dell’opinione musicale dei Paesi tedeschi, anche grazie a una serie di tournées in cui lo diresse personalmente. Per il resto Verdi divideva il suo tempo fra Sant’Agata, dove seguiva con passione la produzione agricola e realizzava opere filantropiche (nel 1888 fondò l’ospedale rurale di Villanova sull’Arda), e Genova, dove svernava.

A partire dal 1878-79 la situazione, anche familiare, si tranquillizzò. L’11 ottobre 1878 la figlia adottiva Maria sposò Alberto Carrara, figlio del notaio bussetano di Verdi. Boito, reduce dalla clamorosa caduta (Milano 1868) e resurrezione (Bologna 1875) di Mefistofele, rese i dovuti omaggi al vecchio maestro cercando di far dimenticare le intemperanze giovanili; l’amico fraterno di questi, Franco Faccio, divenne il direttore di fiducia di Verdi, che ne propiziò la carriera come direttore stabile della Scala e, poco prima della sua morte prematura (1891), come direttore del conservatorio di Parma. Fu però necessaria la diplomazia di Giulio Ricordi per convincere Verdi a superare l’antica diffidenza e a prendere in considerazione il progetto, abbozzato da Boito, di Otello, che veniva incontro al suo desiderio, mai abbandonato, di cimentarsi con il teatro shakespeariano. La realizzazione di libretto e partitura (1879-86) procedette con una lentezza e una cura quali Verdi non aveva mai dedicato ad alcuna altra opera, e fu interrotta due volte per dar luogo a due rifacimenti da tempo nel cuore di Verdi: Simon Boccanegra (melodramma, riveduto da Boito; Milano, Scala, 24 marzo 1881) e Don Carlo (già rivisto per Napoli nel 1872, comparve alla Scala il 10 gennaio 1884 in una versione abbreviata in quattro atti, seguita da un’altra in cinque rappresentata al teatro Municipale di Modena il 26 dicembre 1886). Il 5 febbraio 1887 il dramma lirico Otello andò in scena alla Scala, suscitando l’ammirazione dell’intera Europa musicale per il rinnovamento linguistico di cui il musicista aveva dato prova. Verdi considerava terminata la propria carriera, ma gli sforzi congiunti di Ricordi e di Boito lo convinsero ad affrontare la scommessa di far rivivere la tradizione comica in musica che si voleva morta con Rossini; il 9 febbraio 1893 l’ottantenne Verdi rinnovò alla Scala il trionfo di sei anni prima con Falstaff (commedia lirica di Boito, da Shakespeare; l’opera fu soggetta a ritocchi nelle riprese immediatamente successive a Venezia e a Roma, e ancora in occasione della versione in francese presentata all’Opéra-Comique di Parigi il 18 aprile 1894).

Gli ultimi anni trascorsero abbastanza sereni, nonostante la perdita di Giuseppina (14 novembre 1897) e di molti amici, confortata però dalla vicinanza di Boito e di Stolz (è accertata l’esistenza di un copioso carteggio Verdi-Strepponi-Stolz, al momento non accessibile). Verdi compose ancora dei ballabili e alcune varianti per la prima parigina di Otello (Opéra, 12 ottobre 1894) e la serie dei Quattro pezzi sacri (Laudi alla Vergine Maria per coro femminile, testo dal canto XXXIII del Paradiso, 1887-93; Ave Maria su scala enigmatica per coro misto, 1889-95; Stabat Mater, per coro e orchestra, 1898; Te Deum per soprano, coro e orchestra, 1898), il primo e gli ultimi due eseguiti al Conservatoire di Parigi il 7 aprile 1898 e tutti pubblicati lo stesso anno da Ricordi.

Nell’ultimo decennio di vita Verdi si dedicò soprattutto all’edificazione della Casa di riposo per musicisti di Milano, costruita tra il 1889 e il 1899 su progetto di Camillo Boito e aperta nel 1902. Nel testamento, redatto il 14 maggio 1900 (in Gatti, 1951, pp. 793-795), designò erede universale Maria Verdi Carrara; tuttavia, oltre ad altri legati, destinò una parte cospicua del suo patrimonio all’ospedale di Villanova sull’Arda e alla Casa di riposo per musicisti, cui andarono i diritti d’autore sulle opere in Italia e all’estero.

Morì a Milano il 27 gennaio 1901, dopo una settimana di agonia per ictus cerebrale. La salma fu deposta al cimitero Monumentale e dopo una settimana fu trasportata con solenni onoranze, insieme a quella di Giuseppina, nella cappella della Casa di riposo.

Il significato storico di Verdi trascende la sua importanza strettamente artistica. Negli anni successivi all’Unità egli fu assunto a figura rappresentativa della nuova Italia per diventare, appena dopo la morte e fino a oggi, un’icona universalmente riconosciuta di ‘italianità’. Fra gli intellettuali italiani dell’Ottocento, solo Manzoni ebbe un’influenza così ampia e durevole; il minore prestigio culturale di cui tradizionalmente il teatro d’opera godeva e gode rispetto alla letteratura fu compensato a usura dall’assai maggior diffusione del primo nel mondo (già il 2 maggio 1862 Verdi poteva scrivere ad Arrivabene: «Quando tu andrai nelle Indie e nell’interno dell’Affrica sentirai il Trovatore»; in Verdi intimo, 1931, p. 17; Lettere di Giuseppe Verdi..., 2018, p. 70).

Nell’insieme la produzione operistica di Verdi realizza l’intento, perseguito con consapevolezza sempre crescente, di dotare la civiltà italiana di una grande tradizione di teatro al tempo stesso nazionale e universale, popolare e di alto significato morale e civile. A tal fine, Verdi si premurò di conciliare la salvaguardia di fattori che giudicava caratterizzanti della tradizione musicale italiana – il primato dell’espressione vocale, le convenzioni formali collaudate, fondamentalmente rispettate ma trattate con tutta la libertà necessaria – con l’ambizione di creare un corrispettivo musicale della drammaturgia romantica europea.

Sul piano strettamente musicale, l’intero arco della carriera di Verdi dimostra, a dispetto di perlopiù tarde dichiarazioni in senso conservatore e nazionalistico, una costante volontà di aggiornamento che raccoglie le sfide delle più importanti tendenze europee (francesi e tedesche) in fatto di forme, armonia, orchestrazione. Di fatto, mentre le prime opere si inseriscono pienamente nel mondo linguistico del melodramma postrossiniano, ma già tengono conto delle esperienze francesi di Rossini, Daniel Auber, Donizetti, Giacomo Meyerbeer e Hector Berlioz, le ultime, pur inconfondibilmente personali, appaiono in tutto e per tutto contemporanee non solo di quelle mature di Jules Massenet e delle prime di Giacomo Puccini – senza dubbio il maggior successore di Verdi: la sua Manon Lescaut andò in scena a Torino una settimana prima di Falstaff –, ma anche della produzione coeva di Pëtr I. Čajkovskij, Gustav Mahler e Richard Strauss.

La sostanza del teatro verdiano si compendia nell’ideale della convergenza dei linguaggi espressivi (parola, musica, recitazione, scenografia) in una rappresentazione unitaria («se l’opera è di getto, l’Idea è Una, e tutto deve concorrere a formare quest’Uno»; a du Locle, 7 dicembre 1869, in Conati, 2000, p. 61), finalizzata alla rappresentazione della complessità dell’animo umano quale si manifesta nelle interazioni tra i personaggi – dall’adesione sentimentale più profonda e consentanea al conflitto più violento – sempre collocate in un concreto, seppur idealizzato, contesto storico e culturale.

Prodotto della cultura liberale affermatasi nell’età delle rivoluzioni, la poetica di Verdi esprime una ricerca di ‘realismo’ dichiaratamente ispirata a Shakespeare e programmaticamente opposta alle correnti realistiche dominanti nella seconda metà dell’Ottocento: «Copiare il Vero può essere una buona cosa, ma Inventare il Vero è meglio, molto meglio» (a Clara Maffei, 20 ottobre 1876; in Giuseppe Verdi. Lettere, 2012, p. 717).

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Documenti ed epistolario: la maggior parte dei documenti verdiani è conservata in riproduzione presso la Fondazione Istituto nazionale di studi verdiani di Parma. È in corso l’Edizione critica dell’epistolario verdiano, Parma 1988 ss., dal 2017 Edizione nazionale dei carteggi e dei documenti verdiani. G. Demaldè, Cenni biografici del maestro di musica G. V. [circa 1842], ms. Busseto, Biblioteca della Cassa di risparmio di Parma e Piacenza (già Biblioteca del Monte di pietà), ed. in AIVS Newsletter, poi Verdi Newsletter, 1976, n. 1, pp. 6-10, n. 2, pp. 8-12, 1977, n. 3, pp. 5-9; B. Bermani, Schizzi sulla vita e sulle opere del maestro G. V., Milano 1846; H. Cavalli, José V., maestro de música, Madrid 1867; M. Lessona, Parma. G. V., in Id., Volere è potere, Firenze 1869, pp. 287-307; A. Pougin, G. V. Vita aneddotica, con note e aggiunte di Folchetto [J. Caponi], Milano 1881 (rist. Firenze 1989); E. Seletti, La città di Busseto, I-III, Milano 1883, ad ind.; I. Pizzi, Ricordi verdiani inediti, Torino 1901; I copialettere di G. V., a cura di G. Cesari - A. Luzio, Milano 1913; L.A. Garibaldi, G. V. nelle lettere di Emanuele Muzio ad Antonio Barezzi, Milano 1931; V. intimo. Carteggio di G. V. con il conte Opprandino Arrivabene [1861-1886], a cura di A. Alberti, Verona 1931; A. Luzio, Carteggi verdiani, I-IV, Roma 1935-1947; C. Gatti, V. nelle immagini, Milano 1941; W. Weaver, V.: a documentary study, London 1977; G. Marchesi - G.N. Vetro, V., merli e cucù. Cronache bussetane fra il 1819 e il 1839, Busseto 1979; M. Conati, La bottega della musica. V. e la Fenice, Milano 1983; V.’s Macbeth: a sourcebook, a cura di D. Rosen - A. Porter, New York 1984; M. Conati. Interviste e incontri con V., Milano 2000; D. Rizzo, V. filarmonico e maestro dei filarmonici bussetani, Parma 2005; G. V. lettere 1843-1900, a cura di A. Baldassarre - M. von Orelli, Bern 2009; G. V. Lettere, a cura di E. Rescigno, Torino 2012; Lettere di G. V. a Opprandino Arrivabene, a cura di A. Turba, Lucca 2018.

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