LURAGHI, Giuseppe Eugenio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 66 (2006)

LURAGHI, Giuseppe Eugenio

Nicola Crepax

Nacque a Milano il 12 giugno 1905, da Felice e da Giuditta Talamona, ultimo di quattro figli.

La famiglia era esponente di quella parte del ceto medio cittadino, commerciale e impiegatizio, che all'inizio del secolo attraversava una fase di veloce rinnovamento. La prima giovinezza del L. - fu pugile di buon livello e vincitore di importanti tornei - trascorse sul finire della belle époque e durante la prima guerra mondiale, in una città in trasformazione, scossa dall'irrompere delle grandi fabbriche nella periferia.

Nel 1920 la morte prematura del padre, direttore di una società impegnata nel commercio con l'India, e due anni più tardi quella della madre, peggiorarono le condizioni economiche della famiglia, guidata dalla sorella maggiore, Maria; tuttavia il L. riuscì a terminare, nel 1927, gli studi di economia e commercio presso l'Università Bocconi con una tesi sull'industria aeronautica.

Accantonati presto i giovanili propositi di dedicarsi alla pittura, il L. intraprese una brillante attività giornalistica discutendo, in una lunga serie di articoli sulla stampa specializzata, le prospettive che si presentavano in Italia allo sviluppo nella produzione di aerei.

A pochi mesi dalla laurea il L. trovò un impiego presso la Rinaldo Rossi di Milano, una piccola impresa alimentare, e nel 1930, dopo alcune esperienze in medie imprese lombarde, approdò alla Pirelli. Qui - alle dirette dipendenze del consigliere di amministrazione e direttore centrale del settore gomma, G. Venosta - nell'autunno del 1932 ricevette l'incarico di condirigere la filiale spagnola, la più antica, e allora tra le maggiori, delle consociate.

Poco dopo, la guerra civile (1936-39), il rientro precipitoso da un breve soggiorno in Italia, il confronto con il repentino sgretolarsi della società spagnola nella drammatica resistenza repubblicana, resero assai problematico il tentativo di riorganizzazione della produzione degli stabilimenti in Spagna.

Nel 1938 il L. tornò definitivamente in Italia come direttore generale della società Linoleum del gruppo Pirelli, la cui principale attività era la produzione di rivestimenti per pavimenti. Nel 1939, fu chiamato da Alberto e Piero Pirelli a sostituire lo scomparso Venosta nella carica di condirettore centrale del gruppo; prima e dopo la Liberazione, sviluppò un'intensa collaborazione, professionale e umana, con C. Merzagora, nominato commissario della Pirelli dal Comitato di liberazione nazionale (CLN), durante il breve periodo di allontanamento della famiglia fondatrice dalla guida dell'impresa. Nel 1948, da tempo divenuto direttore centrale, il L. suscitò, tra i vertici aziendali, un'ampia discussione che lo pose presto in contrapposizione con A. Pirelli in merito alla riorganizzazione del gruppo.

Il L. considerava che l'impresa dovesse evolvere verso la creazione di un sistema multidivisionale, in cui le direzioni delle singole branche produttive avrebbero dovuto avere garanzie di autonomia e potere decisionale.

Tale diversità di vedute portò il L., nel 1950, alla risoluzione di lasciare la Pirelli e di accettare l'offerta di E. Marchesano, presidente dell'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), di assumere la carica di vicedirettore generale della Società idroelettrica Piemonte (SIP), grande impresa controllata dalla holding pubblica e allora prevalentemente impegnata nella produzione e distribuzione dell'energia elettrica. L'anno successivo gli fu però offerta la direzione generale della finanziaria a partecipazione statale Finmeccanica, dov'era confluito il multiforme agglomerato di imprese meccaniche controllate dall'IRI, con il compito di ristrutturarne le partecipazioni a poco più di due anni dalla fondazione.

Il L. si trovò alla guida di un gruppo di imprese ancora alla ricerca di una soluzione ai problemi causati dalla riconversione produttiva postbellica: la grande quantità di dipendenti ereditata dalla gestione di guerra era associata, nella maggioranza dei casi, alla indeterminatezza delle strategie industriali; il patrimonio di competenze e professionalità era compromesso dalle drammatiche difficoltà in cui si dibattevano le amministrazioni aziendali. Le fragili condizioni della Finmeccanica riproponevano la riflessione sul ruolo delle partecipazioni statali dopo l'uscita del Paese dalla dittatura fascista: struttura per il risanamento di aziende in crisi oppure strumento per l'attivazione di politiche economiche correttive degli andamenti di mercato.

La direttrice di marcia impressa dal L. ebbe il pregio della chiarezza degli intenti: i programmi industriali ebbero la precedenza sulle altre considerazioni, o almeno questa fu la volontà che guidò la sua azione. Dismissioni, accorpamenti, ristrutturazioni avrebbero dovuto restituire economicità al gruppo nel rispetto delle regole del mercato.

In particolare l'Alfa Romeo - controllata dall'IRI dal momento della nascita dell'Istituto nel 1933, ma già da sette anni nell'orbita pubblica per mezzo dell'Istituto di liquidazione - apparve agli occhi del L. suscettibile di grandi sviluppi, qualora si fosse attrezzata a seguire strategie espansive simili a quelle delle altre imprese automobilistiche europee.

Quando entrò in contatto con la casa del Portello il L. trovò un'impresa sovraccaricata da un alto numero di addetti (circa 8000), impegnata al Nord nella produzione di poche, costosissime, automobili e al Sud con gli impianti distrutti dai bombardamenti e riattivati solo in parte per produzioni aeronautiche di carattere marginale. Il L. pose ai vertici aziendali un ristretto staff di uomini nuovi, tra i quali alcuni dirigenti conosciuti durante la lunga esperienza alla Pirelli. La nuova cultura amministrativa e gestionale espressa da questo gruppo si saldò con la conservazione delle capacità progettuali e delle competenze tecniche degli ingegneri che lavoravano presso l'ufficio progettazione e l'ufficio "esperienze" e che trovavano la loro piena espressione nella figura di O. Satta Puliga. Infine il L. chiamò l'austriaco R. Hruska con l'incarico di riorganizzare i processi industriali. Hruska trasferì all'Alfa Romeo alcune competenze acquisite negli anni precedenti in Germania al fianco di F. Porsche, quando aveva collaborato, dal 1938 fino al termine della guerra, all'impostazione del progetto Volkswagen e alle produzioni di mezzi di trasporto a scopi bellici.

Per il L. e l'Alfa Romeo il successo arrivò con la Giulietta, nel 1955. La produzione negli anni Cinquanta si mantenne al di sotto delle cento vetture giornaliere, restando quindi in una logica da mercato di nicchia, ma le auto vendute nel primo quinquennio rappresentarono il quadruplo delle soglie preventivate. La ristrutturazione degli impianti napoletani e, soprattutto, l'accordo produttivo con la brasiliana Fábrica nacional de motores per la fabbricazione e la vendita di autocarri accompagnarono il sostanziale risanamento dei conti dell'impresa. Alla fine degli anni Cinquanta l'Alfa Romeo era il maggior produttore nazionale di autocarri pesanti e vantava una quota vicina al 15% del mercato nazionale per la fascia di vetture con una cilindrata compresa tra i 1000 e i 2000 cm3. I positivi risultati raggiunti non erano comunque considerati dal L. un punto d'approdo stabile per l'impresa. Il successo era reso effimero dalle ridotte dimensioni della produzione complessiva, che sarebbero inevitabilmente risultate inadatte a reggere il confronto con l'evoluzione del mercato interno negli anni Sessanta. Tale consapevolezza portò il gruppo dirigente dell'Alfa Romeo, sotto lo stimolo del L., ad avviare già nel 1954 uno studio per la progettazione di un nuovo stabilimento nel Mezzogiorno, dedicato alla produzione di un'utilitaria di dimensioni e cilindrata particolarmente ridotte, adatta quindi alla prima motorizzazione delle famiglie italiane.

Il L. non riuscì a far convergere sul progetto il necessario consenso del governo, proprio negli anni in cui la FIAT era impegnata nel massimo sforzo per la diffusione della propria utilitaria "600". L'Alfa Romeo costituiva di fatto un caso a sé nel sistema delle imprese a partecipazione statale, in quanto produttrice di un bene di consumo durevole in un segmento di mercato condizionato dalla posizione quasi monopolista di una grande impresa privata quale la FIAT.

Nel 1956 il L. lasciò improvvisamente la direzione generale della Finmeccanica in contrasto con A. Fascetti, da poco chiamato alla presidenza dell'IRI. Nell'Alfa Romeo egli mantenne però il ruolo di vicepresidente, restando di fatto all'esterno del gruppo IRI, ma partecipando attivamente alle scelte strategiche aziendali che concernevano le nuove produzioni automobilistiche, e contribuendo in particolare, nel 1958, all'ideazione e alla concretizzazione dell'intesa Alfa-Renault: uno dei primi accordi industriali sottoscritti nell'ambito del trattato europeo per la fabbricazione di vetture francesi in Italia e per la distribuzione della Giulietta in Francia. Lo stesso anno, in occasione del consiglio di amministrazione, il L. fu però estromesso da ogni carica presso l'impresa milanese.

La contrapposizione netta tra il vertice dell'IRI e il L. aveva radici profonde ed era fondata sulla diversità di vedute in merito alle strutture organizzative dello Stato imprenditore. Mentre il L. cercava di delineare una coerenza interna al gruppo di imprese facenti parte della Finmeccanica, consolidando l'autonomia della sub-holding pubblica nei confronti dell'IRI, il presidente Fascetti voleva limitare il potere di indirizzo della Finmeccanica verso le aziende controllate, negandole la facoltà di collocare propri uomini nei consigli di amministrazione. La posizione di Fascetti rispecchiava peraltro le attese di larga parte delle forze di governo di esercitare un maggior controllo sull'attività dei manager pubblici in una fase di transizione per il sistema delle partecipazioni statali e di precisazione del ruolo dell'imprenditore pubblico nell'economia del Paese.

Tra il 1956 e il 1960, nel periodo in cui non ebbe responsabilità dirette nell'ambito dell'impresa pubblica, il L. assunse la carica di presidente e consigliere delegato della Lanerossi.

L'impresa tessile, fondata a Vicenza nel 1873, alle soglie del miracolo economico era priva di una strategia unitaria ed era progressivamente scivolata in una grave crisi industriale e gestionale. L'energica azione del L. fu rivolta sia alla drastica ristrutturazione dell'esistente sia all'apertura di nuovi mercati, e portò rapidamente al risanamento dell'impresa.

I buoni risultati raggiunti nei conti aziendali della Lanerossi si concretizzarono, in quegli anni di generalizzata effervescenza borsistica, in vistosi guadagni del titolo azionario, tali da suscitare su di esso una forte corrente speculativa risoltasi nell'uscita dei principali azionisti, guidati da F. Marinotti, e dal conseguente successo di una "scalata" in borsa condotta da M. Virgillito, il quale si era distinto in quegli anni in una serie di manovre finanziarie spregiudicate. Il L., che in questa esperienza aveva confermato le doti di capace tecnico dell'amministrazione e dell'organizzazione delle grandi aziende, rifiutò con decisione la proposta di Virgillito di restare alla guida del gruppo tessile. In quei mesi del 1960, il ricambio alla presidenza dell'IRI, con la nomina di G. Petrilli, stava riaprendo la possibilità di un suo reinserimento ai vertici dell'Alfa Romeo. La costruzione dello stabilimento di Arese, presso Milano, e l'avvio, nel 1962, della produzione della Giulia segnarono l'ascesa della casa milanese al rango di medio produttore.

La scelta della gamma aveva però consentito all'impresa di competere solo con le altre case europee specializzate nelle fasce di mercato di cilindrata medio alta. Fallito sul nascere il piano di costruire una piccola vettura nel Mezzogiorno, il L. aveva considerato un progetto analogo per la fabbricazione al Nord di un'utilitaria, ma anche tale progetto non era stato sviluppato negli anni, dal 1958 al 1960, in cui il L. era rimasto all'esterno dell'azienda.

Con il suo ritorno al vertice dell'Alfa Romeo, l'idea era stata posta ancora all'attenzione dei vertici aziendali, nella convinzione che l'impresa non potesse reggere la concorrenza internazionale unicamente sulla base dimensionale garantita dalle vendite di vetture di categoria medio alta. La costruzione dello stabilimento ad Arese e l'avvio delle linee di montaggio della Giulia avevano rappresentato, però, uno sforzo tale da esaurire le capacità finanziarie dell'impresa: di fronte alle difficoltà di mercato legate al rallentamento della congiuntura nel biennio 1964-65, l'Alfa Romeo fu costretta ad accantonare anche quel secondo tentativo di ingresso in una fascia di mercato inferiore. I quattro anni tra il 1961 e il 1965, periodo in cui era stata completata la prima configurazione del nuovo stabilimento, furono difficili dal punto di vista del bilancio aziendale, ma il L., recuperato nel 1966 un provvisorio punto di equilibrio nei conti dell'azienda, formalizzò l'apertura di una nuova fase espansiva per il successivo quadriennio.

I nuovi investimenti progettati puntavano al raggiungimento di una soglia dimensionale di circa mezzo milione di vetture annue. Il primo allestimento di Arese era considerato una tappa intermedia verso un ulteriore e definitivo passo, in grado di collocare l'Alfa Romeo in una posizione nettamente superiore sul mercato interno nel corso del decennio successivo. Il progetto riguardava la crescita dell'impresa nel suo complesso.

L'elemento qualificante della svolta era rappresentato dalla costruzione di un altro stabilimento nell'area di Pomigliano d'Arco, presso Napoli. Si trattava di realizzare una vettura del tutto nuova rivolta a una fascia medio bassa del mercato, inusuale per l'Alfa Romeo. Lo stabilimento Alfasud avrebbe prodotto 1000 auto al giorno la cui cilindrata e il prezzo di vendita si sarebbero collocati in una posizione intermedia tra le utilitarie FIAT e la produzione tradizionale Alfa Romeo. La scelta di indirizzare cospicue risorse nella costruzione dello stabilimento dell'Alfasud rappresentò, alla metà degli anni Sessanta, un drastico cambiamento nel ruolo svolto dall'IRI, che fino ad allora aveva concentrato la propria azione nella costruzione delle infrastrutture e nelle produzioni di base: un ruolo cioè non concorrenziale, ma di sostegno allo sviluppo dell'impresa privata.

La progettazione dello stabilimento di Pomigliano d'Arco costituì una frattura: si inquadrava nelle ancora incerte linee che, negli anni Sessanta, prefiguravano i caratteri della futura ristrutturazione del sistema industriale italiano, che avvenne dopo la svolta del 1969 e che avrebbe portato alla crescita del tasso di industrializzazione del Mezzogiorno a una velocità senza precedenti nella storia del Paese.

Il progetto Alfasud fu elaborato nelle sue linee essenziali dallo staff dell'Alfa Romeo nei primi mesi del 1966.

La via allora tracciata avrebbe portato con sé un cambiamento per la casa automobilistica, sia dal punto di vista della scala produttiva sia da quello della tipologia del prodotto. La crescita della casa milanese si sarebbe inevitabilmente scontrata con il ruolo dominante esercitato dalla FIAT sulla produzione nazionale; le strategie dell'IRI trovavano però motivazione nella politica economica dei governi di Centrosinistra, improntata dalla duplice aspettativa della continuità della crescita economica avviata nel dopoguerra e dell'avvio di un diffuso processo di industrializzazione nel Mezzogiorno, e quindi di uniformazione del Paese al modello di sviluppo sperimentato nelle regioni del Nordovest. La politica industriale dei governi di Centrosinistra si proponeva il contenimento della divaricazione dell'economia italiana, e l'impresa pubblica si trovò a rappresentare lo strumento privilegiato per la rapida attuazione di questi propositi: tale condizione ripropose allora, con enfasi ben diversa rispetto agli anni Cinquanta, la questione dell'autonomia e della responsabilità del manager pubblico di fronte a un indirizzo politico esercitato con maggior consapevolezza nei fini perseguiti e in un più preciso quadro istituzionale.

Nel settembre del 1966 il L. informò il presidente dell'IRI, G. Petrilli, della proposta elaborata dai manager dell'Alfa Romeo per "una nuova produzione automobilistica nel Mezzogiorno". Il progetto era già definito nelle sue linee essenziali. L'obiettivo dichiarato era quello di puntare a una quota di mercato sufficiente a mantenere in equilibrio i conti dell'Alfa Romeo e, conseguentemente, a contrastare l'espansione della FIAT e romperne il monopolio. Inoltre l'iniziativa sottolineava il ruolo dell'industria automobilistica, sia per il largo impiego di manodopera, sia per le numerose attività collaterali e accessorie, quale strumento delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno.

La nuova produzione sarebbe stata gestita da una società indipendente, mentre l'Alfa Romeo avrebbe svolto le funzioni di capogruppo, fornendo progettazione, tecnologia, servizi commerciali e, in un primo tempo, anche lamiere e parti staccate. Gli uomini che avrebbero composto il primo gruppo di lavoro avevano partecipato alla nascita della Giulietta e avevano, quindi, condiviso con il L. la stagione degli anni Cinquanta. Il L. prevedeva che l'Alfa Romeo avrebbe raggiunto circa il 20% della produzione nazionale, nell'ipotesi che fosse superata la produzione di oltre due milioni e mezzo di automobili nel 1981.

Nel settembre del 1967 il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) approvò la costruzione del nuovo impianto e quindi il progetto di espansione dell'Alfa Romeo. Nel maggio del 1968 iniziò l'edificazione della fabbrica, con la partecipazione alla cerimonia inaugurale di A. Moro, allora presidente del Consiglio. Il programma era serrato e prevedeva l'avvio della catena di montaggio nel 1971. L'apertura, alla fine del 1969, della lunga fase di alta conflittualità sindacale avrebbe segnato però inesorabilmente la storia dell'industria automobilistica italiana e con essa quella dell'Alfa Romeo. La FIAT e la casa milanese rappresentarono due centri dello scontro sociale.

I lavori di ampliamento degli impianti di Arese e di completamento dell'Alfasud avvennero in una fase segnata da gravissime tensioni nelle relazioni industriali: la direzione d'impresa dovette perfino raccomandare alle filiali di non proporre la vendita di auto perché non era in grado di produrne a causa dei numerosissimi scioperi che inesorabilmente rallentavano il lavoro nelle fabbriche.

A tre anni dall'avvio del cantiere per la costruzione dello stabilimento, nel 1970 entrarono i primi lavoratori a Pomigliano. Alla fine del 1971 partirono le produzioni pilota e nel 1972, con un anno di ritardo rispetto alle previsioni, fu avviata la produzione all'Alfasud con 28.000 auto vendute nel primo anno, diventate 70.000 l'anno successivo: era meno di un terzo dell'obiettivo; lo stabilimento lavorava ampiamente al di sotto di ogni soglia economicamente accettabile.

Le drammatiche urgenze del contesto sociale ed economico delle province campane avevano caricato la grande occasione industriale Alfasud di tensioni che si scontrarono inevitabilmente con i limiti che il processo di sviluppo trovava all'interno e all'esterno dell'azienda. La progettazione dello stabilimento era avvenuta nella fase di accumulo delle tensioni poi esplose nell'autunno caldo. La crisi delle relazioni industriali e con esse del complesso tessuto sociale che ruotava attorno all'Alfasud era alimentata dall'inevitabile frattura tra la rigida organizzazione fedele al paradigma taylorista e una forza lavoro spesso priva delle competenze professionali necessarie e reclutata nell'ambito di un sistema dominato dalle clientele politiche locali. Lo stabilimento non funzionava. Le imprecisioni nella progettazione del ciclo produttivo non potevano essere corrette nel marasma organizzativo in cui si tentava di registrare gli andamenti delle linee, dove lavoravano operai che, in un confuso contesto conflittuale, non si dimostravano più disposti ad accettare un ruolo di variabile dipendente nel processo produttivo. Un disastro cui la struttura manageriale, creata anch'essa ex novo, non era nella possibilità di porre rimedio.

Nel corso del 1973 si esaurì il rapporto tra il L. e i vertici dell'IRI. Verso la metà di quell'anno si era aperto un contenzioso tra l'Alfa Romeo da una parte, l'IRI e il CIPE dall'altra.

Le questioni sul tappeto erano varie e di diversa natura: i conti dell'impresa erano sempre più compromessi dalle difficoltà sul fronte sindacale; la direzione d'impresa e le strutture di rappresentanza dei lavoratori non potevano essere su posizioni più distanti; né Arese né Pomigliano d'Arco si avvicinavano a un livello accettabile di sfruttamento degli impianti.

In questo quadro il L. si trovò in difficoltà nel far approvare gli ulteriori piani di sviluppo di Arese, che riteneva necessari al completamento del progetto complessivo lanciato nell'ormai lontano 1966. Il CIPE chiese di procedere a operazioni di decentramento produttivo tali da decongestionare l'area di Arese. L'IRI si inserì in questa discussione proponendo la costruzione ad Avellino di uno stabilimento destinato al montaggio di 70.000 auto del nuovo modello Alfetta, allora fabbricate ad Arese. Il L. non poteva che rifiutare, considerata l'evidente diseconomicità dell'intervento prospettato. Lo scoppio della guerra del Kippur, nell'ottobre del 1973, indusse le prime tensioni sui prezzi petroliferi, rendendo di colpo anacronistica la discussione sulla costruzione di nuovi impianti produttivi nel settore automobilistico. Tuttavia la polemica tra i protagonisti della vicenda, e in particolare tra il L. e il ministro delle Partecipazioni statali A. Gullotti, restò aperta: nel gennaio del 1974 il L. non fu riconfermato nell'incarico di presidente dell'Alfa Romeo. La sua estromissione segnò la sconfitta, senza appello, della strategia che mirava ad attribuire all'Alfa Romeo un ruolo di primo piano sulla scena industriale del Paese. La crisi dell'azienda si sarebbe trascinata, senza soluzione, per oltre un decennio, concludendosi solo nel 1986 con l'acquisizione da parte della FIAT.

Nella vicenda tormentata del sistema industriale italiano negli anni Settanta il L. si occupò della ristrutturazione della Necchi, grande impresa specializzata nella produzione di macchine per cucire, esempio della tradizione del capitalismo familiare in crisi di fronte al progressivo disfacimento degli assetti che avevano sostenuto l'ascesa delle imprese italiane durante la stagione del miracolo economico. La lunga carriera del L. si concluse con la presidenza della Mondadori, mantenuta dal 1977 alla fine del 1982. L'uscita dal gruppo editoriale milanese avvenne in coincidenza con il fallimento del tentativo, inutilmente contrastato dal L., di affermazione nel campo televisivo, conclusosi con la cessione dell'emittente Rete 4 alla Fininvest di S. Berlusconi e con l'ingresso di C. De Benedetti ai vertici della Mondadori.

Il L. morì a Milano il 10 dic. 1991.

Lo scenario dell'economia italiana era ormai del tutto cambiato da quello che aveva accompagnato la sua lunga carriera professionale; il L. non aveva cessato di osservarne il disfacimento attraverso una serie di accorti e autorevoli interventi sulla stampa nazionale. Per tutta la vita, infatti, aveva continuato a collaborare con importanti testate giornalistiche, a volte con lo pseudonimo di Dario Renzi, intervenendo con vivace spirito polemico soprattutto sui temi legati alla politica economica e allo sviluppo industriale.

Sul piano politico il L. aveva condiviso gli ideali della tradizione socialista riformista italiana senza però aderire mai formalmente al partito. Sosteneva soprattutto la necessità della modernizzazione del Paese nel solco delle maggiori economie del sistema occidentale, ma nel rispetto della particolare articolazione della società italiana, dei cui differenziati assetti si dimostrò un attento osservatore. I compiti dello Stato erano visti dal L. in un'ottica di estremo rigore morale; fustigatore delle indebite ingerenze delle strutture dei partiti nella conduzione delle imprese pubbliche, riteneva tuttavia che, nell'Italia del miracolo economico, fosse imprescindibile l'intervento diretto dello Stato nella produzione industriale, sottolineando al tempo stesso la necessità di una divisione di ruoli tra la sfera politica, che avrebbe dovuto indicare gli obiettivi di politica economica generale, e i manager, cui, pur nell'ambito di un preciso mandato, doveva essere lasciata piena autonomia imprenditoriale.

Il L. affiancò alla vita professionale e all'attenzione per l'attualità economica una multiforme attività culturale in cui si segnala la pubblicazione di raccolte di poesie e di romanzi, in molte delle quali, attraverso un uso particolare del linguaggio, riecheggia il ricordo della società milanese dei suoi anni giovanili. Maggiori ripercussioni sulla vita culturale del Paese ebbe la fondazione, nel 1949 - con V. Sereni, L. Sinisgalli e S. Solmi - della casa editrice La Meridiana, che fino al 1957 pubblicò, tra l'altro, una fra le collane di poesia di maggiore reputazione nel panorama culturale dell'Italia del dopoguerra.

Come direttore generale della Finmeccanica, nel 1953, aveva voluto la rivista Civiltà delle macchine (in continuità con la rivista Pirelli, da lui precedentemente fondata), progettata e diretta da L. Sinisgalli, con cui il L. aveva avviato, proprio dai tempi della Pirelli, un sodalizio professionale e intellettuale. La rivista, sorta come house organ della finanziaria pubblica, rappresentò per un quinquennio un insolito luogo di incontro tra cultura tecnica e studi umanistici, rispecchiando il solido eclettismo culturale del Luraghi. Frutto di tale eclettismo fu, in particolare, il volumetto Le macchine della libertà (Milano 1967), con il quale egli tentava una sintesi del proprio pensiero di uomo di cultura e di manager industriale proponendo la sua visione di una moderna società democratica di massa incardinata sul ruolo centrale riservato allo sviluppo tecnologico.

Tra le opere edite del L. (tutte pubblicate a Milano, salvo diversa indicazione) si segnalano per la saggistica: Milano, dal quattrino al milione, 1968; Incontri eccellenti, 1991; per la narrativa: Due milanesi alle piramidi, 1966; Due milanesi alle piramidi e altre due storie del Pepp, 1970; Miracolo a Porta Ticinese, 1976; Pepp Girella ai fanghi, 1977; Castelli di carte, Torino 1978; Pepp Girella rapito da un disco volante?, 1979; per la poesia: Presentimento di poesia, 1940; Gli angeli, Modena 1941; Cipressi di Van Gogh, 1944; Stagioni, 1947; Poesie, 1978; Oh bej, oh bej, 1987; per la critica d'arte: Portinari, 1950; Disegni di Portinari, Torino 1955; Israel, disegni di Candido Portinari, ibid. 1959; Brasil, disegni di Candido Portinari, ibid. 1960; tradusse inoltre di R. Alberti, Poesie e Lo spauracchio, rispettivamente Milano e Torino 1949; sulla sua attività lavorativa: Capi si diventa, 1973, nonché il lungo articolo Alfasud, Mezzogiorno di fuoco, in Espansione, VII (1975), 64, pp. I-XXXII.

Fonti e Bibl.: La principale fonte disponibile per ricostruire la carriera del L. è costituita dal Fondo Luraghi, conservato a Milano presso l'istituto di storia economica dell'Università Bocconi: raccoglie l'ampio archivio personale limitatamente ai documenti inerenti all'attività professionale, alla corrispondenza e a una consistente rassegna dell'attività pubblicistica, oltre a un ampio dattiloscritto, lasciato dal L. alla famiglia, che ripercorre le principali tappe della sua vita professionale. A Pavia, nel Fondo manoscritti del Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell'Università degli studi, è conservata la raccolta di scritti e documenti relativi alle attività letterarie e di organizzazione culturale. Sull'attività presso l'Alfa Romeo le principali fonti sono costituite dall'Archivio storico dell'Alfa Romeo ad Arese e dalla deposizione del L. davanti alla XII Commissione industria della Camera dei deputati per l'Indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive dell'industria automobilistica nazionale, Roma 1969; l'Archivio storico IRI a Roma conserva numerosi documenti sull'attività del L. presso Finmeccanica, Alfa Romeo e Alfasud.

Una biografia del L. è curata da R. Gianola, L. L'uomo che inventò la Giulietta, Milano 2000; vedi ancora sull'attività editoriale, P. Rossi, Civiltà delle macchine, un ponte tra le due culture, in L'Industria, maggio-giugno 2003, n. 3. Sull'esperienza alla Finmeccanica è utile il "Rapporto Saraceno" (L'IRI. Origini, ordinamenti ed attività svolta, Torino 1956). Per una storia generale dell'Alfa Romeo si veda, da ultimo, G. Corbetta - A. Mazzucca - M. Vitale, Il mito dell'Alfa, Milano 2004. Sulla storia dell'Alfasud sono numerose le fonti giornalistiche, molte delle quali conservate presso il Fondo Luraghi; di più ampio respiro, pur non esenti da un approccio ideologico legato alle relative polemiche: A. Vitiello, Come nasce l'industria subalterna: il caso Alfasud a Napoli, 1966-1972, Napoli 1973; D. Salerni, Sindacato e forza lavoro all'Alfasud. Un caso anomalo di conflittualità industriale, Torino 1980; A. Bassolino, Mezzogiorno alla prova. Napoli e Sud alla svolta degli anni Ottanta, Bari 1980, pp. 121-135. Sempre sull'Alfasud si vedano anche: S. Conti, Un territorio senza geografia. Agenti industriali, strategie e marginalità meridionale, Milano 1982; R. Hruska - D. Chirico, La nascita dell'Alfasud. Atti della Conferenza, 1991, Milano 1991.

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