CHIOVENDA, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)

CHIOVENDA, Giuseppe

Giovanni Tarello

Nato a Premosello (Novara) il 2 febbraio del 1872 da Pietro e da Leopolda Moglino, di famiglia agiata, seguì regolari studi classici (il ginnasio ed il liceo quale convittore in un collegio religioso di Domodossola; conseguì la licenza liceale il 16 luglio 1889), e s'iscrisse alla facoltà giuridica di Roma, ove si laureò nel 1893. Nel 1891 perse il padre - la madre era morta durante la sua infanzia -, restando capo di una famiglia di fratelli più giovani e provvedendo all'amministrazione dei beni.

Una propensione giovanile per la poesia diede frutti non degni di ricordo (pubblicò a Roma una scelta di poesie nel 1891 o, successivamente, un altro volumetto di versi, Agave, nel 1894). Fin da studente subì l'influenza di Vittorio Scialoja, che lo seguì con benevola attenzione e lo indirizzò - giusta una direttiva che Scialoia si propose anche in altri casi simili - allo studio della dottrina giuridica germanica. Nell'ambito degli studi del processo civile, verso cui il C. dopo la laurea indirizzava i suoi interessi, nella cultura germanica avevano rilievo gli insegnamenti di Oscar Bülow, di Joseph Kohler e di Adolf Wach; quest'ultimo venne eletto dal C. quale ideale maestro, e tale egli rimase sempre, anche se mai personalmente avvicinato, come ci informa il C. nel necrologio di Wach apparso sulla Rivista di diritto processuale civile del 1926(rist. in Soffi di diritto processuale civile 1900-1930, I, Roma 1931, pp. 263-268).

Dopo alcuni anni di studio e di raccoglimento, sulla base di una monografia su La condanna nelle spese giudiziali (Torino 1900), il C. conseguì l'abilitazione alla libera docenza in procedura civile e ordinamento giudiziario, che esercitò nella facoltà romana nell'anno accademico 1900-1901, la prolusione al suo corso libero, letta il 21 genn. 1901, su Le forme nella difesa giudiziale del diritto (pubblicata nella Rivista italiana per le scienze giuridiche del 1901, in seguito rist. nel citato vol. I dei Saggi di diritto processuale civile, cit., pp. 353-378) costituisce il primo importante saggio chiovendiano: esso ottenne larga risonanza e furono notate, nell'ambiente accademico, alcune propensioni del giovane autore per un indirizzo riformatore sulle linee della recente legislazione processuale austriaca preparata dal ministro della Giustizia (o studioso del processo) Franz Klein, e cioè la Zivilprozessordaung del 1895, entrata in vigore il 1° gennaio del 1898.

Forse la risonanza del corso libero romano non fu estranea all'incarico di procedura civile che nel 1901 il C. ottenne nella facoltà giuridica. modenese. Certo quellaprolusione concorse a farlo riuscire vittorioso a un concorso per cattedra, ed ottenere a decorrere dal novembre 1901, la cattedra di procedura civile dell'università di Parma. Il brevissimo insegnamento parmense segna una tappa importante nella formazione della dottrina chiovendiana, sia per la prolusione (letta il 5 dicembre) su Romanesimo e germanesimo nel processo civile (Parma 1902; poi in Saggi di diritto... cit.), sia per un breve corso di Lezioni di diritto processuale civile, anno 1901-1902 (Parma 1902), che è il primo nucleo dei futuri famosi Principii ed in cui la locuzione "diritto processuale" già sostituisce l'altra, corrente, "procedura".

La prolusione parmense si inscrive nel nazionalismo culturale della dottrina giuridica italiana del tempo, con la tesi secondo cui tutto ciò che, nella disciplina del processo è buono è romano, e quanto è cattivo è degenerazione (canonistica e germanistica) del processo romano; si inscrive anche, come la precedente prolusione, nella serie delle invocazioni di una riforma processuale.

Risalgono a questo periodo alcuni scritti minori che esemplificano il metodo che negli anni seguenti si sarebbe chiamato "scientifico" (contrapponendolo a "esegetico") di trattazione della procedura: indicando un "istituto", si postulano in astratto due diversi sistemi di disciplina; si opta per uno dei due sistemi; si asserisce che il sistema prescelto è quello proprio della legge italiana; infine si conclude che l'istituto indicato è disciplinato dalla, disciplina peculiare del sistema prescelto (indipendentemente dana lettera della legge, dagli indizi offerti dai lavori preparatori, dalla giurisprudenza consolidata).

Nonostante l'isolamento nella scuola dei proceduristi, il metodo del C., affine a quello di alcuni studiosi tedeschi, susci, tava consensi in coloro che, specialmente in materie giuridiche diverse dalla procedura, militavano per il trionfo dei metodi "dogmatico-pandettistici" nella cultura giuridica italiana: primo di tutti Vittorio Scialoja. Sull'ala di questi consensi, essendo morto il Manfredini, il C. fu chiamato a succedergli sulla cattedra di procedura civile dell'università di Bologna per l'a. 1902-1903. La prolusione bolognese su L'azione nel sistema dei diritti (Bologna 1903, poi in Saggi cit.) è stata considerata l'atto di nascita della modem "scienza del diritto processuale" italiana; in essa l'azione veniva configurata "come un diritto contro l'avversario, consistente nel potere di produrre di fronte a questo l'effetto giuridico dell'attuazione della legge"; nell'accentuare la posizione dell'azione in quanto rivolta verso l'avversario (anziché, come presso alcuni teorici tedeschi, in quanto rivolta verso lo Stato), il C. poneva in evidenza l'unico punto di contatto, dal suo punto di vista, tra l'interesse dello Stato e quello del privato: cioè la "attuazione della legge"; in tal modo il rapporto tra azione e. giurisdizione è inteso come rapporto organico tra il privato che ha la legge dalla sua (il privato già astrattamente tutelato dalla legge) e la funzione di rendere concreta la legge (mentre l'altro privato, quello che "ha già" torto, è oggetto deirapplicazione della legge); immersa in questa teoria, anche l'azione civile, non diversamente dall'azione penale, si atteggia come una funzione pubblica: conclusione, quest'ultima, non tratta in modo esplicito dal C., ma resa esplicita dai suoi discepoli durante l'epoca fascista.

Nel complesso si trattava di una dottrina che rovesciava Pidea liberale (secondo cui il processo civile è l'attività giurisdizionale pubblica al servizio dei privati) in senso autoritario (per cui anche nel processo civile l'interesse privato, con l'azione, adempie ad uni funzione pubblica promuovendo, con l'attuazione della legge, un interesse dello Stato).

Il periodo più fruttuoso dell'attività del C. può farsi iniziare con la chiamata alla cattedra di Napoli (per il 1905-1906) e, subito dopo, a quella di Roma (dal gennaio 1907). In questo periodo pubblica un trattato, Principii di diritto processuale civile, che dopo una edizione parziale del 1906 a Napoli vede continue edizioni (nel 1908, nel 1912, nel 1923, nel 1928) e una lu nga serie di scritti più brevi (poi in gran parte raccolti in due grossi volumi., Saggi di diritto processuale civile 1900-1930, Roma 1933-34); in questo periodo si formò al suo seguito una vera e propria scuola (cui, prima di staccarsene, aderì Francesco Camelutti, oltre a Piero Calamandrei e Antonio Segni), che ebbe un organo nella Rivista di diritto processuale civile fondata dal C. e Camelutti nel 1924 a Padova; in questo periodo si svolse la battaglia per la riforma del codice di procedura civile.

Il C. vedeva nella organizzazione del processo "l'intero problema del rapporto fra lo Stato e il cittadino"; problema da risolvere facendo sì "che il giudice, come organo dello Stato. non debba assistere passivamente alla lite ... ma debba partecipare alla lite come forza viva e attiva", non già in quanto dotato di poteri equitativi, ma in quanto investito della direzione del processo (dei suoi tempi, delle modalità, delle attività probatorie) e della iniziativa e dell'impulso processuale. Ideologia del processo che non poteva appagarsi di proposte volte a migliorare il codice del 1865, quali si vennero progettando ad esempio nel 1909 dal ministrodi Grazia e Giustizia Vittorio Emanuele Orlando, e nel 1913 - progetto Mortara - dal ministro C. Finocchiaro Aprile: e difatti entrambi questi progetti ebbero violente, critiche da parte del C., che nel secondo caso volse al proprio fine sabotatore della riforma il malcontento del ceto forense e dei magistrati, promuovendo relazioni negative e agitazioni nelle sedi del Consiglio dell'ordine degli avvocati e sulle pagine delle riviste accademiche. Il C. propugnava un codice processuale civile completamente nuovo ed imperniato non sui principi del processo liberale napoleonico, bensì su quelli del processo austriaco del Klein. Poiché negli anni immediatamente precedenti la guerra l'interesse per il processo austriaco e la sua adozione come modello si verificarono anche in Germania, occorre ricordare quanto segue.

In Italia la propaganda per il processo austriaco e per il potere direttivo del giudice conuncia. per opera del C., prima che in Germania; comincia, inoltre, come operazione dottrinale; comincia paludata da vecchi abiti sistematici e dogmatici, e sotto un provinciale mantello di romanesimo ritrovato: in Italia il processo austriaco è propagandato, insomma, come aulico e romano realizzarsi nel sistema della perfezione dottrinale. Talune istanze degli austriacanti germanici, proprie di una tendenza burocratica a raggiungere intanto più potere per il giudice rendendolo unico o facendo preparare il lavoro da un giudice istruttore singolo, trovavano in Italia corrispondenza, piuttosto che nel C., nei grandi giudici e grandi funzionari attenti al costo della giustizia, come ad esempio nel primo presidente della Cassazione romana Mortara (e nella sua riforma) e nei magistrati che a lui si riferivano (talvolta non chiusi ai ferinenti germanici, come il D'Amelio). Così il modello austriaco venne assunto, in Italia, come modello di attuazione della legge che accentuava piuttosto la legge che l'attuazione, al contrario della Germania, in cui il modello austriaco veniva da chi lo sbandierava pensato come bel modello di rapida e autoritaria "attuazionè". In un certo senso si può dire che, sin da questo momento, la tendenza autoritaria in Italia, sia che si riferisse al modello austriaco sia che restasse nel solco della dottrina germanica dell'età bismarckiana, optò per l'accentuazione dell'autoritá della legge e l'individuazione nella legge dell'autorità dello Stato, mentre in Germania (dove l'esaltazione della legge e dello Stato aveva conosciuto i suoi fasti trent'anni prima) le tendenze autoritarie si riferivano piuttosto ai poteri degli organi dello Stato e agli aspetti amministrativi ed esecutivi dell'amministrazione della giustizia; e di questi più antichi atteggiamenti (non limitati al solo settore del processo civile) porteranno l'eredità, nelle differenti dottrine giuridiche che rispettivamente esprimeranno, il fascismo ed il nazismo.

Il momento politico del C. si verificò nel 1918, quando fu istituita la Commissione per il dopo guerra, nel cui ambito egli venne chiamato a presiedere il gruppo per gli studi processuali; in pochi mesi preparò un progetto di riforma del procedimento civile, in duecentoquattro articoli raggruppati in cinque'titoli, ed una dotta relazione. Il modello ispiratore era :il processo austriaco (vigente nelle ex province austriache annesse): e la relazione, paventando quelle accuse di austriacantismo che poi effettivamente vi furono, incluse delle cortine fumogene - invero trasparenti - mostrando la "figliazione" del processo austriaco da quello germanico e perciò indirettamente da quello francese, e asserendo che i presupposti del processo austriaco erano storicamente italiani, e comuni al processo francese e inglese (cioè degli alleati!). La riforma progettata dal C. non fu attuata (quantunque il processo ingiuntivo, previsto nel titolo V. entrasse nella legisiazione italiana con legge 9 luglio 1922); già nel 1919 ogni possibilità di successo era venuta meno.

Nel 1924 il ministro Aldo Oviglio nominò il C. vicepresidente della sottocommissione per il codice di procedura nell'ambito della Commissione reale per la riforma dei codici; ma contrasti con il presidente, Lodovico Mortara, lo indussero alle dimissioni dopo pochi mesi. Dopo il 1924 il C. non ebbe più incarichi ufficiali; era, infatti, inviso al ministro Alfredo Rocco, suo antico avversario accademico; fu scrittore operoso e polemista acre; portò avanti, sulle riviste, la battaglia per un processo "orale e concentrato" (che gli parve di vedere in parte realizzato nella disciplina del procedimento per le controversie individuali di lavoro dei r. d. 26 febbr. 1928, n. 471); esercitò, con sobrietà e successo, l'avvocatura; ebbe molti e valenti discepoli, che ne esaltarono l'opera, anche dopo la morte.

Il C. morì il 7 nov. 1937, nel paese natale di Premosello, che da lui prese la denominazione di Premosello-Chiovenda.

Le dimissioni del 1924 e l'ostilità di Alfredo Rocco permisero a Piero Calamandrei di far circolare la opinione essere stato il C. avverso al fascismo: opinione che non trova fondamento nelle opere e nei giudizi professati per iscritto, specie se si ha riguardo al plauso per il processo del lavoro corporativista; forse, tuttavia, Calamandrei si riferiva a conversazioni private. Certo è, comunque, che l'opera del C. fu largamente utilizzata nella preparazione della riforma fascista del codice di procedura civile.

Bibl.: F. Camelutti, Metodi e risultati degli studi sul processo in Italia, in Foro italiano, LXIV(1939), 51, pp. 73 ss.; Id., La scuola ital. del processo, in Riv. di diritto processuale, n.s., II (1947), pp. 223 ss.; P. Calaniandrei, Glistudi di diritto processuale in Italia nell'ultimo trentennto, in Studi sul processo civile, V, Padova 1947, pp. 114 ss.; E. Allorio, Riflessioni sullo svolgimento della scienza processuale, in Problemi di diritto, III, Milano 1957, pp. 183 ss.; S. Satta, Diritto processuale civile, in Enciclopedia del diritto, XII, Milano 1964, pp. 1100 ss.; G. Capograssi, Intorno al processo (Ricordando G. C.), in Opere, V, Milano 1959, pp. 131 ss.; S. Satta, G.C. (nel centen. della nascita), in Diritto e società, I(1973), pp. 61 ss.; G. Tarello, L'opera di G.C. nel crepuscolo dello Stato liberale, in Materiali per una st. d. cultura giuridica, III, Bologna 1973. pp. 679 ss.

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