STROZZI, Giulio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 94 (2019)

STROZZI, Giulio

Paolo Cecchi

STROZZI, Giulio. – Nacque a Venezia e fu battezzato nella parrocchia di S. Marziale il 15 settembre 1583 (Baroncini - Collarile, 2016, p. 22), figlio naturale di Roberto Strozzi di Camillo (ramo veneziano della casata patrizia fiorentina) e di Aquilina Bianchi, vedova del cittadino Domenico Barovier (di una famiglia di vetrai muranesi). Nel 1612, tre anni prima di morire, Roberto, facoltoso banchiere, concesse al figlio una rendita di 20.000 scudi, da corrispondergli in rate annuali di 1600 ducati; nel contempo, per legato testamentario lo escluse dalla proprietà e gestione del banco di famiglia, che venne intestato a tre nipoti di Roberto (ibid., pp. 17-20, 22; Cecchini, 2015, passim).

Giulio rimase a Venezia fin verso il 1602. Di un soggiorno padovano si hanno notizie tardive e incerte: dalla dedica della «tragedia» Erotilla (Venezia 1615) al cardinal Scipione Caffarelli Borghese risulta che l’operetta, terminata in Roma, era stata iniziata «nell’otio di Padova»; sotto il nome di «Assicurato», Strozzi figura nelle Leggi de gli Academici Ricovrati (Padova 1648, p. 28), sodalizio fondato nel 1599 (ne fecero parte Galileo Galilei, Cesare Cremonini, Antonio Querenghi e Pio Enea degli Obizzi), ma non si sa se l’affiliazione risalisse al primo o al terzo decennio, dopo il suo ritorno da Roma. La laurea in utroque iure conseguita nello Studio di Pisa (1603-05?) gli permise d’intraprendere la carriera curiale in Roma, dove si stabilì non più tardi del 1606.

Attorno al 1609 divenne protonotario apostolico numerario, ruolo con mansioni giuridico-notarili nell’amministrazione pontificia (cfr. Le glorie de gli Incogniti, 1647, p. 281; Erythraeus, 1648, p. 195). Il 20 settembre 1610 partecipò al terzo concistoro semipubblico indetto da Paolo V Borghese per il processo di canonizzazione di Carlo Borromeo (concluso il 1° novembre 1610; cfr. M.A. Grattarola, Successi maravigliosi della veneratione di s. Carlo, Milano 1614, p. 189). Al già menzionato cardinal nipote Scipione, suo protettore, dedicò la traduzione del romanzo picaresco Lazarillo de Tormes (manoscritta, datata 1608; edizioni moderne a cura di B. Brancaforte - Ch. Lang Brancaforte, Ravenna 1977, e di A. Ruffinatto, Napoli 1990) e la citata Erotilla, «cresciuta ed allevatasi per molti anni a cotesta corte»: la tragicommedia fu stampata per le nozze tra Marcantonio Borghese, cugino del cardinale, e Camilla Orsini, figlia di Virginio e Flavia Peretti Damasceni. Tra marzo e giugno 1611 assistette nel «giardino Quirinale», con il cardinale fiorentino Ottavio Bandini, il di lui nipote Pietro Dini, monsignor Ottaviano Corsini e l’abate Francesco Cavalcanti (poi dedicatario, con Pietro Giacomo Cima, della prima edizione del Natal di Amore, Venezia 1621), a una dimostrazione di Galilei dell’osservazione telescopica delle macchie solari, recentemente scoperte (G. Galilei, Le opere, V, Firenze 1895, pp. 81 s.); nel poema La Venetia edificata (Venezia 1624, canto VII, 49-56) accennò poi all’uso del cannocchiale per lo studio dei moti e dei fenomeni celesti; inoltre nell’orazione funebre per Cosimo II de’ Medici ricordò la scoperta galileiana degli ‘astri medicei’ nel 1610 (Esequie fatte in Venetia dalla natione fiorentina al serenissimo D. Cosimo II..., Venezia 1621, c. 23v). Maestro di camera del cardinal Luigi Capponi, legato di Bologna dall’agosto 1614 al 1616, ricevette la dedica della Breve descrittione della festa fatta nella gran sala del sig. podestà l’anno 1615 il dì 2 di marzo (Bologna 1615).

In una data imprecisata tra il 1615 e il 1620 Strozzi rinunciò alla carica di protonotario apostolico e alla carriera curiale per dedicarsi in toto alle lettere. La decisione doveva risalire agli anni precedenti: attorno al 1608, forse in collaborazione con Paolo Gualdo, amico di Galilei (cfr. Lettere d’uomini illustri che fiorirono nel principio del secolo decimosettimo, Venezia 1744, p. 345), era stato tra i fondatori dell’effimera Accademia degli Ordinati, patrocinata dal cardinal Giovan Battista Deti. Dopo l’Erotilla, compose l’«anacronismo» Il natal di Amore, commedia in versi che intreccia svariati soggetti mitologici, non privi di risvolti scabrosi: fu certamente rappresentata a Roma nel 1620, secondo una rubrica nella princeps (Venezia 1621; ed. moderna a cura di M. Arnaudo, Padova 2009, p. 9). Non è facile accertare quali ambienti letterari frequentasse Strozzi in Roma. Dalla Vita e morte del cavalier Marino (1625) di Giovan Battista Baiacca si sa che già nel 1606 Strozzi, nella sua casa romana, «con dottissima conversazione s’intratteneva» col futuro autore dell’Adone (Carminati, 2011, p. 101). Il 5 gennaio 1621 Giovan Battista Marino gli scrisse da Parigi una lunga lettera, lodando (con qualche marginale riserva) il Natal di Amore e mettendolo nel contempo a parte della gestazione dell’Adone (cfr. Marino, 1966, pp. 292-294). Tra la sessantina di letterati, ecclesiastici e nobili menzionati nella dedica di Il natal di Amore si riconoscono esponenti di spicco dell’Accademia degli Umoristi come Girolamo Aleandro, Virginio Cesarini, il cardinal Bandini, Giovanni Battista Ciampoli, il Querenghi (forse già conosciuto a Padova), Pier Francesco Paoli, Arrigo Falconio, Francesco Della Valle e Cassiano dal Pozzo.

Strozzi fece ritorno stabilmente a Venezia verso il 1620, e forse sin dai primi tempi del rientro instaurò una relazione more uxorio con Isabella Garzoni detta la Grechetta: ne adottò la figlia Barbara, nata nel 1619 (v. la voce in questo Dizionario), della quale curò l’educazione, in particolare musicale, affidandola a insegnanti come Francesco Cavalli. Strozzi orchestrò il proprio rientro in laguna mandando in luce una serie di testi sia vecchi sia nuovi: nel 1621 fece ristampare L’Erotilla e Il natal di Amore, e pubblicò i primi dodici canti di un poema epico-celebrativo, La Venetia edificata (tutti e tre denominati nell’avantesto «Saggi poetici di Giulio Strozzi»). Nello stesso anno apparve inoltre un componimento che confermava la vocazione civico-retorica di Strozzi, nonché la considerazione in cui era tenuto dalla comunità fiorentina in Venezia: l’Oratione [...] nell’esequie del sereniss. D. Cosimo II (in Esequie, cit., cc. 21-24), recitata in memoria del granduca nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo; fu anche l’«inventore» delle imprese e iscrizioni latine che costellarono l’apparato funebre. Nel 1624 apparve per i tipi dello stampatore dogale Antonio Pinelli la versione definitiva di La Venetia edificata, in un sontuoso in folio ornato da un frontespizio e da ventiquattro tavole a piena pagina (una per canto) incise da Francesco Valesio, il migliore calcografo del momento in laguna, su disegno di Bernardo Castello. Il 12 luglio 1623 il Senato dispose l’elargizione di 100 ducati all’autore come contributo alle spese di stampa del volume (cfr. Archivio di Stato di Venezia, Senato, Terra, reg. 93, c. 98v). Un altro poema, Il Barbarigo overo L’amico sollevato (Venezia 1626), narrava il caso d’attualità dell’«heroica amicitia» tra due patrizi veneziani: Marco Trevisan, nobile ma indigente, e il più anziano Nicolò Barbarigo, che all’amico assicurò una rendita degna del suo censo. L’episodio assurse a esempio di virtù, celebrato da vari letterati in versi e in prosa. Il 1626 è l’anno in cui Strozzi risulta cointeressato nell’impresa editoriale, intensa ancorché effimera, dello stampatore Girolamo Piuti, «in Merceria all’insegna del Monte Parnaso»: pubblicarono tra l’altro la prima edizione del Settimo canto della Gerusalemme distrutta di Marino (cfr. l’accordo con lo stampatore Piuti del 1625 in Archivio di Stato di Venezia, Procuratori di San Marco de supra, Chiesa, reg. 161, c. 91v).

Il Barbarigo fu l’ultima opera a stampa di Strozzi riconducibile ai generi letterari canonici: dopo d’allora, e sino alla morte, egli pubblicò – sempre in Venezia – soltanto testi in prosa o in versi per occasioni devozionali o civico-religiose (Le veglie quaresimali, overo L’officio della santa settimana, 1626; la Lettera [...] ad un suo amico ove egli dà conto del solenne possesso preso dall’eminentissimo signor cardinal Cornaro patriarca di Venetia, 1632) nonché politico-diplomatiche (Le Sette giornate nelle quali hebbe Venetia i serenissimi principi D. Ferdinando II gran duca quinto di Toscana e D. Gio. Carlo de’ Medici suo fratello, 1628), e un’importante serie di drammi per musica. Ma nel medaglione che a Strozzi dedicano Le glorie de gli Incogniti figurano quasi trenta opere sue, tra poetiche e prosastiche, «da stamparsi, che però non vennero mai pubblicate» (1647, pp. 282 s.).

Tra il 1628 e il 1629 Strozzi dimorò a Casteldurante (l’odierna Urbania) nella corte di Francesco Maria II Della Rovere, ultimo duca d’Urbino (ibid., p. 282). Nel Carnevale del 1629 vi fu allestito Il natal di Amore con notevoli varianti rispetto alla prima versione e un nuovo prologo cantato (nello stesso anno Giovanni Rovetta incluse nel libro primo dei suoi Madrigali concertati un dialogo composto sopra uno stralcio del dramma strozziano). Attorno al 1630, sotto l’egida del patrizio Giovan Francesco Loredan, nacque in Venezia l’Accademia degli Incogniti, fucina di idee scettico-libertine e anticuriali, derivate in primis dall’aristotelismo materialista padovano coevo e dal pensiero politico-giuridico di Paolo Sarpi: fu un centro d’irradiazione dello sperimentalismo letterario anticlassico. Non si sa quando Strozzi abbia aderito al consesso, né si conosce la sua attività prettamente accademica. Tra il 1637 e il 1638 promosse l’Accademia degli Unisoni, una sorta di dépendance degli Incogniti dedita sia a disquisizioni svolte da membri del cenacolo di Loredan sia ad adunanze musicali, incentrate sulle esibizioni canore e retoriche della figlia adottiva Barbara (cfr. Veglia prima [-terza] de’ signori Academici Unisoni, havuta in Venetia in casa del signor Giulio Strozzi, 1638).

Nell’ultimo tratto del suo itinerario artistico, dal 1639, Strozzi fu soprattutto poeta teatrale per musica, con Giovanni Francesco Busenello e Giovanni Faustini il più eminente in quella fase eroica dell’opera alla veneziana. Già in precedenza – in un’epoca in cui il teatro d’opera stricto sensu non aveva messo radici in laguna – Strozzi aveva prodotto testi poetici per musica, di genere vuoi cameristico vuoi teatrale. Attorno al 1627 imbastì un componimento drammatico in forma di dialogo, La finta pazza Licori: Claudio Monteverdi intendeva musicarlo per la corte di Mantova, ma il progetto, documentato nelle lettere del musicista ad Alessandro Striggi juniore, venne infine accantonato. Nel 1628 compose I cinque fratelli, cinque sonetti in onore del granduca Ferdinando II e del fratello Giovan Carlo in visita di Stato a Venezia, intonati da Monteverdi (musica perduta). Nel 1630, per le nozze di Giustiniana Mocenigo e Lorenzo Giustiniani, scrisse una Proserpina rapita con musica ancora di Monteverdi (perduta la partitura, rimane una sola canzonetta a 3 voci, Come dolce oggi l’auretta, apparsa postuma nel libro IX di Madrigali e canzonette, 1651); a giudicare dal libretto a stampa, lo spettacolo, denominato «anatopismo», dovette consistere in un’azione scenica commista di musiche vocali e strumentali, testo recitato e momenti coreutici. Sono di Strozzi anche molte rime intonate in due libri di musiche a 1, 2 e 3 voci e basso continuo di Nicolò Fontei (Venezia 1635 e 1636; una di esse, Gira il nemico insidioso Amore, compare anche nel libro VIII di madrigali di Monteverdi, Venezia 1638); il testo di una serenata encomiastica per la nomina a procuratore di S. Marco del futuro doge Giovanni da Pesaro (1641), con musica di Filiberto Laurenzi; e tutti i componimenti contenuti in Il primo libro de’ madrigali della figlia Barbara, opera d’esordio della compositrice (Venezia 1644; ed. moderna dei versi in G. Strozzi, Poesie, a cura di A. Aurigi, Firenze 1999).

Nel Carnevale del 1639 – due anni dopo il primo allestimento di un’opera in musica a Venezia – Strozzi esordì nel teatro d’opera con La Delia o sia La Sera sposa del Sole, «poema dramatico» musicato da Francesco Manelli (partitura perduta), che inaugurò il teatro di Ss. Giovanni e Paolo, di proprietà dei Grimani del ramo di S. Maria Formosa (fu poi a lungo la sala operistica più importante in città). Nell’«avviso al lettore» Strozzi dichiarò d’avere abbozzato una prima stesura di La Delia attorno al 1630, «per tributo di riverenza a gran Principe, nelle cui nozze io mi credeva di pubblicarla» (probabile riferimento alle nozze di Ferdinando II e Vittoria Della Rovere, già concordate nel 1631, ma poi celebrate solo nel 1637). Per il Carnevale del 1641 approntò La finta pazza, un astuto marchingegno amoroso innestato sulla vicenda del giovane Achille nascosto in Sciro; fonte presumibile il libro I dell’Achilleide di Publio Stazio, ma il motivo della pazzia simulata attingeva a un repertorio comico moderno in cui dovette rientrare anche la citata, perduta sua Finta pazza Licori del 1627. In questo dramma, come già in Il natal di Amore, il registro epico-mitologico viene sottoposto a una vistosa torsione ‘anticlassica’, all’insegna di una comicità salace, intessuta di trasparenti arguzie erotiche, alimentate dal travestimento, dagli scambi d’identità sessuale e dalla finta follia abilmente inscenata da Deidamia, la protagonista. L’opera inaugurò un altro importante teatro d’opera, il Novissimo, costruito ad hoc per il dramma musicale grazie a sovvenzioni e prestiti di patrizi che in parte dovettero essere affiliati all’Accademia degli Incogniti (ma non è finora stato chiarito appieno il reale assetto proprietario e gestionale del teatro, peraltro effimero: fu chiuso nell’inverno 1645-46). La finta pazza venne musicata da Francesco Sacrati (una copia tardiva della partitura è nell’Archivio Borromeo dell’Isola Bella; ed. facsimile a cura di N. Usula, Milano 2018), e lo spettacolo poté contare sull’apporto di due artisti fuoriclasse: la giovane soprano Anna Renzi, romana, che fu poi per anni mattatrice sui palcoscenici musicali veneziani, e lo scenografo Giacomo Torelli, fanese, che nel sistema visivo e macchinistico dell’allestimento introdusse innovazioni destinate a duratura fortuna nella scenotecnica di tutto il secolo.

Il successo fu clamoroso: La finta pazza venne data una dozzina di volte a Carnevale e venne ripresa per la fiera dell’Ascensione. Conobbe poi un’inopinata, inaudita fortuna in giro per l’Italia: in seguito all’allestimento del 1644 a Piacenza (voluto da Odoardo Farnese per celebrare la pace seguita alla guerra di Castro), due compagnie di musici itineranti, i Febiarmonici e i Discordati, diedero l’opera in una decina di città italiane (Milano, 1644; Firenze e Lucca, 1645; Bologna e Genova, 1647; Torino e Reggio, 1648; Milano, 1648-1651?; Napoli, 1652) in una versione rimaneggiata – all’insaputa dell’autore – rispetto all’originale veneziano; e nel 1645 fu la prima opera italiana allestita alla corte di Parigi. Il fenomeno segnò l’avvio di quella diffusione del teatro d’opera alla veneziana su scala nazionale che di fatto radicò poi durevolmente il melodramma nel sistema dei generi teatrali italiani ed europei.

Nel 1643 Strozzi tornò al teatro dei Ss. Giovanni e Paolo con il dramma La finta savia, una vicenda ambientata al tempo del re Proca, uno dei leggendari monarchi latini che nella genealogia mitica antico-romana precede la fondazione dell’Urbe.

Il libretto ha una configurazione inusuale, forse perché Strozzi aveva concepito il dramma non solo per la musica, ma anche «per poterl[o...] rappresentare senza canto»: ciascuna scena nei consueti tre atti è introdotta da un «argomento», un dettagliato, erudito riassunto in prosa dei dialoghi o dei soliloqui verseggiati. Il testo si presenta quindi come una sorta di prosimetro, commisto di narrazione esplicativa e azione drammatica per musica. Alla partitura della Finta savia accudirono ben sei autori (Laurenzi, Tarquinio Merula, Benedetto Ferrari, un tal Crivelli, Alessandro Leardini e Vincenzo Tozzi): l’apporto primario venne da Laurenzi, maestro di canto della Renzi, e una selezione di arie sue uscì a stampa nel 1643 (ed. facsimile a cura di A. Magini, Firenze 2000). Nel 1644 Strozzi promosse la pubblicazione di un encomio collettivo, Le glorie della signora Anna Renzi romana, che accanto a numerose eulogie poetiche (anche di accademici Incogniti) reca un suo entusiastico elogio delle virtù canore e istrioniche della cantante.

Per le recite del Carnevale del 1645 al teatro dei Ss. Giovanni e Paolo, Strozzi scrisse Il Romolo e ’l Remo, dramma ispirato al mito della discendenza di Roma dal «nobil sangue troiano» (scena ultima), concepito come ideale proseguimento della Finta pazza (soggetto che prelude alla distruzione di Troia) e della Finta savia (che verte sulla nascita di Roma); ignoto l’autore della musica (le attribuzioni a Cavalli o a Barbara Strozzi sono a diverso titolo improbabili). Dopo il 1645 Strozzi non firmò più alcun dramma sino al 1652, anno della morte; compare però come mallevadore in un contratto relativo alla stagione del 1648-49 nel teatro di S. Cassiano, per il Giasone di Giacinto Andrea Cicognini e Cavalli (Morelli - Walker, 1976; e cfr. Antonucci - Bianconi, 2013, pp. XIV s., XXIV).

Negli ultimi anni il letterato, a quanto si deduce dall’ultimo suo testamento, dovette versare in angustie economiche (cfr. Archivio di Stato di Venezia, Notarile, Testamenti, b. 799, n. 269, 1º gennaio 1650, notaio Claudio Paulini). Fors’anche per tal motivo accettò la commissione, venutagli da Giovanni Battista Balbi, coreografo e direttore dei Febiarmonici, di approntare un dramma di soggetto spagnolo, «ridotto in nuova forma», desunto dal Celio di Cicognini (Firenze 1646): fu Veremonda l’amazzone di Aragona, musicata da Cavalli.

Ne esistono due edizioni, una veneziana e una napoletana, datate entrambe 1652. L’allestimento di Napoli, dedicato al viceré conte d’Oñate per celebrare la repressione della sollevazione catalana, è accertato (Palazzo Reale, 21 dicembre 1652; ipotetica una prima recita nella primavera precedente, cfr. Michelassi, 2019); dal libretto di Venezia non risulta invece in quale teatro l’opera sia stata allestita né quando, non potendosi accertare se la data di stampa e la dedica del Balbi (28 gennaio 1652) vadano intese alla lettera oppure more veneto (cioè 1653).

Morì a Venezia il 31 marzo 1652, all’improvviso.

Di Strozzi esistono due ritratti a olio, il primo (Oxford, Ashmolean Museum) di Bernardo Strozzi (1635 circa) o meno probabilmente di Simon Vouet (1625?), l’altro di Tiberio Tinelli (Firenze, Uffizi, 1635 circa); un ritratto a carboncino attribuito a Bernardo Strozzi (Firenze, Uffizi, Gabinetto disegni e stampe); e alcuni ritratti calcografici: si segnalano quello pubblicato nell’edizione del 1624 della Venetia edificata (inciso da Francesco Valesio, verosimilmente su disegno di Bernardo Castello) e quello incluso nelle Glorie de gli Incogniti (1647).

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Notarile, Testamenti chiusi, b. 123, n. 99, 14 gennaio1638 (notaio Alessandro Basso).

Oltre alla voce su Barbara Strozzi, si vedano: Le glorie de gli Incogniti o vero Gli huomini illustri dell’Accademia de’ signori Incogniti, Venezia 1647, pp. 280-283; I.N. Erythraeus [G.V. Rossi], Pinacotheca tertia. Imaginum virorum aliqua ingenii et eruditionis fama illustrium, Colonia [ma Amsterdam] 1648, pp. 193-197; C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, overo Le vite de gl’illustri pittori veneti, Venezia 1648, p. 253; Orazioni, elogi e vite scritte da letterati veneti patrizi in lode di dogi, ed altri illustri soggetti, II, Venezia 1796, p. 204; H. Prunières, L’opéra italien en France avant Lulli, Paris 1913, pp. 68-77; W. Osthoff, Maske und Musik. Die Gestaltwerdung der Oper in Venedig, in Castrum peregrini, LXV (1954), pp. 10-49 (trad. it. Maschera e musica, in Nuova Rivista musicale italiana, I, 1967, pp. 16-44); G. 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