MAZZARINO, Giulio Cesare

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 72 (2008)

MAZZARINO, Giulio Cesare.

Flavio Rurale

– Nacque a Palermo nel 1544 da una famiglia originaria di Genova. Non sono noti i nomi dei genitori.

Entrò nella Compagnia di Gesù il 12 apr. 1559, dopo aver compiuto gli studi di grammatica e umanità, e prese i voti semplici perpetui a novembre.

Nel catalogo della provincia siciliana è descritto nei seguenti termini: «è di buono ingegno […]. Haverà habilità per predicare. Hora si esercita nelli ufficii bassi et dà buona edificatione a tutti. Speramo che sarà buono instrumento per la Compagnia» (Roma, Archivum Romanum Societatis Iesu, Provincia siciliana, 59, c. 124v).

Nel 1561 lasciò Palermo per il Collegio romano, dove seguì retorica, greco e il corso d’arti, ottenendo infine, nel luglio 1564, il titolo di maestro.

Gli anni trascorsi tra Palermo e Roma furono di grande importanza per la formazione del M., per gli scambi fruttuosi con teologi e filosofi della statura di F. Toledo, P. Parra, J. de Mariana, A. Gagliardi, E. Sá. Erano con lui, ancora giovani studiosi, R. Bellarmino, che gli fu amico, e G. Botero (che avrebbe incontrato ancora a Parigi e poi a Genova e a Milano, prima del licenziamento di Botero dalla Compagnia nel 1580 e quindi prima della stesura del trattato Della ragion di Stato). Il M. poté dunque condividere esperienze stimolanti, dibattiti e discussioni su questioni già oggetto di polemica e di scontro nella giovane Compagnia (le Costituzioni, il sistema dei gradi, il modello di spiritualità). Gli intellettuali con cui ebbe a che fare fin dalla sua gioventù si sarebbero resi protagonisti di lì a poco di tante dispute teologiche e politiche (talora su fronti contrapposti), a cui egli stesso non sarebbe rimasto estraneo.

Il M. avviò la propria attività di docente nel collegio di Palermo, insegnando nel 1567 «la terza e quarta scuola» e l’anno seguente il corso di filosofia (ibid., cc. 163v, 174v). Sempre nel 1568 assunse il ruolo di prefetto agli studi. Dopo una breve permanenza a Parigi, nel 1574 fu assegnato alla provincia di Longobardia e divenne rettore del collegio di Genova.

Andava intanto precisandosi la sua vocazione di predicatore, emersa già all’epoca dell’ingresso nella Compagnia, ruolo che lo avrebbe messo a contatto con casate principesche, ceti patrizi, autorità diocesane, nonché posto al centro del dibattito politico, spesso destinato a tradursi in conflitto giurisdizionale, che attraversò le relazioni interne agli Stati cattolici cinque-seicenteschi. Il «mestiere del sermone» (dal titolo della sua Somma della Vangelica osservanza, parte I, Venezia 1615) lo rese protagonista della sua epoca, pronto a scrivere prediche per altri a pagamento e a serrare le proprie in mobili ben chiusi per evitare plagi e furti.

Nel 1574 si spostò a Torino, richiesto per le doti di oratore dai nobili della corte del duca Emanuele Filiberto. Nel 1576 si pose in urto con il padre provinciale F. Adorno (confessore dell’arcivescovo Carlo Borromeo) che, avendolo promesso alle autorità della Serenissima, rimase infastidito dalla scelta del M. di rinunciare all’incarico, anche perché destinato al pulpito genovese dal generale E. Mercurian.

Nel 1578 giunse nella Milano di Borromeo, dapprima per svolgere una missione segreta in Valtellina, al fianco del vescovo di Vercelli Gianfrancesco Bonomi, e per predicare nelle parrocchie della diocesi; poi per tenere il quaresimale nella chiesa del collegio gesuitico di Brera. Qui incontrò nuovamente, oltre a Botero, il professore di filosofia dei tempi del Collegio romano, il padre Parra, coinvolto nelle controversie che stavano opponendo Borromeo e il governatore spagnolo, Antonio de Guzmán y Zúñiga, marchese d’Ayamonte. In novembre divenne professo di quattro voti.

I contenuti delle sue prediche, sempre attente alle sollecitazioni provenienti dalla società, dai ceti dirigenti laici ed ecclesiastici, dai dibattiti interni alla stessa Compagnia, suscitavano intanto le prime reazioni contrastanti. Pertanto, in dicembre fu costretto a presentarsi presso il tribunale milanese del S. Uffizio per una frase pronunciata dal pulpito.

Nel gennaio 1579 il M. tenne le proprie prediche in duomo, per poi passare di nuovo a S. Maria di Brera, mentre proseguivano l’attività omiletica il provinciale Adorno e lo stesso Borromeo, non estraneo al suo allontanamento. Il M., contrariato come altri nella Compagnia dall’eccessivo rigore di Borromeo (soprattutto in materia di casi riservati e per l’intromissione in affari di competenza dell’autorità civile), attaccò dal pulpito di Brera le scelte dell’arcivescovo, parlando a un uditorio formato da politici spagnoli e milanesi, cui egli era particolarmente legato, letterati e nobildonne. Lo scontro non era più ricomponibile: il M. fu denunciato al S. Uffizio per avere seminato «nel popolo molte cose scandalose, erronee, non poco sospette, et a distruttione degli ordini» dell’arcivescovo (Ibid., Historia Societatis, 164, c. 37). Borromeo lo accusava anche di sostenere la teoria del potere indiretto del pontefice in temporalibus, da lui invece giudicata eretica.

Il processo, apertosi in marzo a Milano davanti al vicario arcivescovile e al delegato del S. Uffizio, fu trasferito a Roma, dove giunsero, a suo sostegno, numerose testimonianze del governatore, dei senatori, di molti confratelli della comunità milanese, nonché delle nobildonne che il M. certamente affascinava con il suo stile oratorio e i modi gentili e mondani. Nell’ottobre 1579 la sentenza dell’Inquisizione lo assolse da qualsiasi accusa di eresia, ma punì la sua imprudenza con una sospensione di tre anni dalla predicazione e dalle pubbliche lezioni.

Iniziò per il M. un lungo peregrinare tra collegi, case professe e pulpiti dell’Italia centromeridionale. Nonostante la sentenza del S. Uffizio e la punizione impartita, il 15 nov. 1580 fu proposto a ruoli di governo a Loreto, dove divenne vicerettore nel gennaio seguente. Tra il 1581 e gli anni Novanta si spostò tra Macerata, Loreto, Pesaro, Urbino, Siena, Perugia, sedi in cui ricoprì talvolta la carica di superiore.

Continuò a profondere il suo impegno nella predicazione e nella frequentazione degli spazi cortigiani (dove si ingeriva spesso in affari temporali), sovente su sollecitazione e con il sostegno della stessa curia generalizia. Nel 1583-84 fu alla corte di Francesco Maria II Della Rovere, duca di Urbino, di nuovo al centro delle polemiche che contrapponevano il principe e l’arcivescovo Antonio Giannotti. Intervenne abilmente anche nei difficili rapporti all’interno della famiglia ducale, svolgendo opera di mediazione. La sua fama di predicatore polemico e il conflitto con Borromeo non impedirono la sua chiamata a Bologna da parte dell’arcivescovo Gabriele Paleotti nel 1586.

Verso la fine degli anni Ottanta fu avviato contro il M. un nuovo processo, questa volta interno alla Compagnia e per accuse tutte inerenti alle polemiche, soprattutto di provenienza spagnola, che da anni ormai attraversavano l’Ordine ignaziano e il generalato di C. Acquaviva.

Le testimonianze dei confratelli interrogati si concentrarono attorno a tre quesiti: se il M. avesse mai mormorato contro il governo, se avesse obbedito ai superiori e se fosse stato di esempio a confratelli e forestieri. Emerse dagli esami – oltre alla conferma di frequentazioni femminili e di uno stile di vita che non disdegnava modi e costumi aristocratici – l’accusa di avere sostenuto in più occasioni la nomina di un cardinale protettore o di un visitatore apostolico, la riforma delle Costituzioni, la necessità di limitare la «monarchia» del generale, sottolineando polemicamente che «sono molti cardinali che aspettano occasione per far il generale a tempo» (ibid., c. 147v) e l’ostilità suscitata da Acquaviva tra i principi e contestando infine le bolle pontificie che riconoscevano gli scolastici come veri religiosi (nodo di tante polemiche coi domenicani). Anche in questo caso giunsero a Roma le difese sollecite della corte del duca d’Urbino e del suo segretario (ibid., cc. 138, 147, 169v).

La gravità della situazione era tale da far pensare al suo licenziamento dalla Compagnia, sicché i superiori di altri ordini religiosi, in significativa concorrenza tra loro, «lo havevano richiesto che andasse alle sue [sicil. loro] religioni» (ibid., c. 147r). Dell’intera vicenda furono intanto informati i cardinali Girolamo Della Rovere e Alessandro Peretti Montalto. Il M. non mancò di contestare la procedura seguita, essendo state utilizzate contro di lui informazioni segrete ascoltate in confessionale.

Nell’agosto 1591 il processo giunse a conclusione: i padri assistenti riconobbero la gravità e la veridicità delle accuse rivolte al Mazzarino. Ma egli non si diede per vinto, dichiarando di volere ricorrere al tribunale romano del S. Uffizio. A fine luglio, chiuso prigioniero nella propria camera, ricevette la visita del frate V. Montesanto, incaricato dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati di approfondire la questione per poi riferirne a Gregorio XIV; tuttavia il papa, particolarmente in collera con il M. e pronto a rinchiuderlo nelle carceri dell’Inquisizione, non accolse la richiesta di revisione del processo. Impose inoltre la distruzione delle carte fino allora prodotte «acciò che il nome di quei padri principali non sia posto e tenuto tra i nomi dei rei del Santo Ufficio» (ibid., c. 228). Giunse quindi l’applicazione della sentenza: un anno di casa di probazione, la pratica degli esercizi spirituali, un’orazione quotidiana di un’ora, il divieto di leggere libri, se non quelli spirituali che gli sarebbero stati assegnati, tra cui obbligatoriamente i Dodici gradi d’umiltà di s. Benedetto e le Regole della Compagnia. Anche in presenza di simile misure, c’era chi in Curia continuava a sostenerlo e a stimarlo per le sue qualità di oratore: il 10 ottobre dello stesso anno il cardinale Enrico Caetani affermava di volerlo per il prossimo avvento nella chiesa di S. Lorenzo in Damaso. Ma gli anni particolarmente turbolenti per la Compagnia consigliavano un atteggiamento rigido e autoritario, e questa volta il M. fu costretto a sottostare alla pena comminatagli.

All’inizio del 1593 il M. – non ancora completamente reintegrato nel proprio ruolo e privo di voce attiva e passiva, mentre era imminente la convocazione della quinta congregazione generale – minacciò l’ennesimo ricorso al pontefice. Facendosi forte di sostegni e amicizie – del nuovo papa, Clemente VIII, e di «molte persone gravi di fuori et de’ nostri dentro» (ibid., c. 246r) – rivendicò quella libertà di movimento al seguito di principi laici ed ecclesiastici di cui era stato privato dopo il processo del 1591 e che costituiva la cifra, propria del resto dell’operato dell’élite gesuitica di corte, del suo impegno nel mondo.

Nel 1596 subì il terzo processo: questa volta l’imputazione principale fu quella di sollicitatio ad turpia.

Nell’aprile 1596 il M. lasciò il collegio di Reggio. Tra maggio e giugno si susseguirono le testimonianze di accusatori e difensori; in particolare quelle delle tre terziarie di S. Francesco, di età tra i 20 e i 30 anni, che gli addebitavano atti vergognosi e turpi nei loro confronti in confessionale. Intervenne in sua difesa, dopo aver declinato ogni ruolo ufficiale nel processo perché legato a lui da amicizia, Roberto Bellarmino, che sollecitò la conclusione del negozio, essendo detto «padre degno di compassione, trovandosi già tanto tempo incolpato di colpa tanto grave» (ibid., c. 272). In effetti la sentenza lo riconobbe innocente, avvalorando l’ipotesi di una congiura contro di lui, ordita dentro il collegio gesuitico con appoggi nell’ambiente cittadino. Per restare «senza macchia o sospetto di simile colpa appresso alcuni» (ibid., c. 308) gli fu inflitta comunque una penitenza da scontare nella casa di Nola.

Proseguiva intanto la sua attività oratoria, mai disgiunta da una presenza significativa presso le corti italiane. Poco dopo il 1605 si trasferì da Palermo, dove era entrato in conflitto con alcuni nobili per la scarsa prudenza dimostrata, a Bologna.

Con l’aprirsi del nuovo secolo il M. avviò la pubblicazione delle sue prime opere, su temi legati alla predicazione e alla mistica: Cento discorsi su ’l cinquantesimo salmo… intorno… alla santità di Davide, Roma 1600, e De obligatione erga Beatam Virginem… sermones duo, ibid. 1609. Era diventato in effetti modello, con il padre C. Reggio, di una sobria e ben regolata predicazione apostolica, e perciò portato a esempio nei decenni successivi a tutta la Compagnia.

Il nuovo ruolo indusse il M. stesso ad avviare una ricostruzione del suo travagliato passato ripulendolo dei toni polemici e ribelli che avevano segnato molte delle sue esperienze giovanili. È perciò significativa in tale contesto la censura che il padre generale Acquaviva riuscì a imporre alla prima edizione della Vita di s. Carlo Borromeo di Pietro Giussani (1610) – giudicato non del tutto affezionato alle cose dei gesuiti – ottenendo in quella successiva del 1613 una descrizione meno compromettente dei fatti milanesi del 1579. Passati al vaglio dei revisori del Collegio romano, uscirono tra il 1615 e il 1618 a Venezia le quattro parti dei Ragionamenti sopra il Sermone [della Montagna], che in appendice al primo tomo comprendevano Una brieve prattica del predicare dedicata al cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte (edita nel 1618 a Parigi nella traduzione francese di J. Badouin), cui seguì, nel 1619, a Bologna Il Colosso babilonico delle considerazioni mistiche. In queste opere permane traccia, come emerge dalle censure, della verve polemica e del coinvolgimento politico del M. nelle vicende del proprio tempo.

Il M. morì a Bologna il 13 nov. 1621.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivum Romanum Societatis Iesu, Provincia siciliana, 6, c. 64; 59, cc. 96r, 124v, 163v, 174v; Provincia romana, 13 I, c. 1v; 53 I, c. 42v; Historia Societatis, 164; Fondo gesuitico, 662, cc. 150-155v (censure ai Ragionamenti); 673, c. 51; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Carteggio Borromaico (es. F.55 inf. passim); G. Besana, Il caso Mazzarino: un momento dei rapporti di s. Carlo Borromeo con la Compagnia di Gesù, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, a.a. 1966-67; M. Fumaroli, L’âge de l’eloquence. Rhétorique et «res literaria» de la Renaissance au seuil de l’époque classique, Genève 1980, ad ind.; M. Fois, S. Carlo Borromeo e i gesuiti: amore, servizio, dissenso, in Studia Borromaica, VI (1992), pp. 137-181; F. Rurale, I gesuiti a Milano. Religione e politica nel secondo Cinquecento, Roma 1992, cap. VII; A. Battistini, Le risorse retoriche di un predicatore gesuita: G. M., in I gesuiti e la Ratio studiorum. Atti del Convegno, Fiesole… 2002, a cura di M. Hinz - R. Righi - D. Zardin, Roma 2004, pp. 139-158; C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, V, Bruxelles-Paris 1894, coll. 826-829; M. Scaduto, Catalogo dei gesuiti d’Italia 1540-1565, Roma 1968, p. 96; J. Fejér, Defuncti primi saeculi Societatis Iesu 1540-1640, I, Assistentia Italiae et Germaniae (cum Gallia usque ad 1607), Roma 1982, p. 161; G. Besana, Mazarino (Mazarini) Giulio, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús, III, Roma-Madrid 2001, p. 2589.