LAGALLA, Giulio Cesare

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LAGALLA, Giulio Cesare

Cesare Preti

Ultimo di tre figli, nacque nel 1571 a Padula, nel Salernitano, da Roberto, alto funzionario della burocrazia vicereale, e Vittoria Rosa. Ancora bambino, perdette i genitori e fu affidato con i fratelli alla tutela di uno zio paterno, padre Girolamo Lagalla, che lo avviò agli studi letterari.

Secondi L. Allacci, nel 1582 il L., appena undicenne, volle trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua formazione. Si iscrisse ai corsi di filosofia e medicina dello Studio ed ebbe come maestri G. Stillabota, F.A. Vivoli e B. Longo nelle discipline filosofiche, G.A. Pisano, G. Polverino e C. Scannapieco in quelle mediche. Affidato dal Collegio degli archiatri a G. Provenzale e G. Caro per un periodo di tirocinio, sembra vi si fosse condotto con una tale competenza da meritare, nel 1589, i gradi accademici "nulla pecuniarum solutione". Nello stesso anno, grazie a Longo, divenne l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza a Napoli, con la quale si diresse verso le coste laziali, per giungere poi, probabilmente nel 1590, a Roma.

Qui il L. avrebbe conseguito una nuova laurea in medicina, in seguito alla quale entrò al servizio del cardinale Giulio Antonio Santori, per il cui interessamento, nel 1592, ottenne da Clemente VIII l'incarico di lettore di logica presso la Sapienza romana. Per nove anni il L. tenne questa cattedra, pur continuando a coltivare la medicina. Inoltre, risale probabilmente a questo periodo l'emergere di un interesse per la teologia, che lo portò a comporre almeno tre orazioni sacre, De Trinitate, De Passione Christi Domini e De circuncisione Christi, lette dinanzi a Clemente VIII e al S. Collegio, in occasioni diverse: l'ultima il 1° genn. 1600 per l'inaugurazione del giubileo.

L'Oratio de Trinitate è conservata manoscritta (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 323; cfr. Kristeller, II, p. 444); le altre due furono pubblicate a Roma per G. Facciotto nel 1600, con il nome di G.C. Galla e sono le prime opere originali date alle stampe dal Lagalla. In precedenza aveva curato, sempre per Facciotto, la stampa di un commento ad Aristotele, lasciato manoscritto da G. Pontano, De immortalitate animae ex sententia Aristotelis libri septem (Roma 1597), precoce manifestazione di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla quale il L. si interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che contribuì ad attirargli sospetti di eterodossia.

Al problema dell'anima il L. dedicò almeno tre corsi annuali della lettura ordinaria di filosofia, che tenne alla Sapienza dall'anno accademico 1601-02 alla morte; queste lezioni furono raccolte in un manoscritto dal titolo De anima commentarii, descritto da Allacci e oggi perduto. Allo stesso argomento è dedicato il penultimo volume dato alle stampe dal L., il De immortalitate animorum ex Aristotelis sententia libri tres (Roma 1621), la cui composizione terminò prima del dicembre 1619, come risulta da una lettera del L. a G. Galilei (cfr. Edizione naz. delle opere, XII, p. 389).

Il L., pur riaffermando le posizioni della tradizione tomistica sulla questione dell'anima umana, secondo le quali l'anima intellettiva è forma informans del corpo ed è molteplice, accetta quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli, ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove eternamente, ma piuttosto come forma informante.

Morto Santori nel 1602, sembra che il L. si fosse avvicinato alla famiglia Aldobrandini, entrando, qualche anno più tardi, come medico al servizio del cardinale Pietro. Prima del 1610 conobbe Federico Cesi, al quale fu legato da una cordiale amicizia. Se questa non diede luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa richiesta da parte del L., fu solo a causa della sua marcata professione aristotelica (Gabrieli, p. 413). Cesi lo presentò comunque a Galilei quando quest'ultimo, nel 1611, si recò a Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al giudizio degli autorevoli astronomi del Collegio romano, nonché di influenti membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni incontri, durante i quali il L., incuriosito dall'"occhialino" galileiano, lo sperimentò e fu intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle "pietre lucifere di Bologna", una specie di barite scoperta nei primi anni del sec. XVII nei dintorni della città emiliana. Da ciò che vide, trasse spunto per due scritti, pubblicati in un unico volume, il De phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. Gallileo Gallileo nunc iterum suscitatis physica disputatio… nec non de luce et lumine altera disputatio (Venezia 1612).

Atteso con impazienza da Galilei, che fu costantemente informato da Cesi dei progressi nella composizione, il libro deluse l'ambiente linceo (Gabrieli, p. 210). Nel primo dei due scritti, pur difendendo la verità ottica di ciò che mostrava il telescopio, il L. cerca di spiegare l'irregolare (la scabrosità della superficie lunare) come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione del principio di regolarità (invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni inclusi in essi), cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense di "etere", più opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo scritto il L. racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, G. De Misiani e G. Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente o una qualità reale, tratta delle "pietre lucifere" e, contro l'interpretazione di Galilei, il L. osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di luce, poi lentamente rilasciata; con ciò esclude che possa essere il prodotto della riflessione della luce solare sulla Terra da parte della Luna.

A proposito del primo dei due scritti, Galilei meditò di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso L. (Gabrieli, p. 212), di cui le note di lettura al volume in questione, pubblicate da A. Favaro, sembrano essere il lavoro preparatorio. Tale risposta non arrivò, ma i rapporti tra i due - a giudicare dal carteggio - divennero più stretti, forse per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche. In occasione dell'osservazione di una cometa nel novembre 1613, il L. scrisse il Tractatus… de metheoro quod die nona novembris anni presentis 1613 in Urbe apparuit sopra collem Pincium (Firenze, Biblioteca nazionale, Galil., parte VI, t. IX, cc. 116-129; Favaro, nell'Ed. naz. delle opere di Galileo Galilei, XII, p. 389, indica una stampa apparentemente irreperibile, Roma 1613) e poiché quest'opera pareva, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, il L. fu attaccato e tacciato di scarso aristotelismo. Si convinse così a chiedere a Galilei e a Cesi il sostegno per una lettura nello Studio pisano. Pur non mancando l'occasione (la morte di Flaminio Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fece niente, ma anche in questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi.

Aumentava intanto l'insofferenza del L. verso gli ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto. La sua De coelo animato disputatio fu stampata in Germania, per l'interessamento di Allacci, poco prima della morte dell'autore (s.l. [ma Heidelbergae] 1622), pur essendo stata completata nel 1614. Il L. non rinunciò a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta, fattagli intorno al 1620, di trasferirsi alla corte di Sigismondo III di Polonia come medico personale del sovrano. Le compromesse condizioni di salute (soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo portarono a rifiutare.

Negli ultimi anni il L. continuò a praticare, oltre alla medicina e alla filosofia, l'astronomia, e seguì il suo protettore, il cardinale P. Aldobrandini, in diversi viaggi in vari luoghi d'Italia. Durante il suo viaggio a Torino, nell'autunno del 1623, incorse nell'episodio che lo portò alla morte, avvenuta a Roma il 14 febbr. 1624, per un'infezione seguita alla cauterizzazione di una lacerazione dell'uretra, da lui stesso procurata mentre si medicava per lenire il suo male.

Inediti del L. sono indicati in P.O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 147, 290, 311; II, pp. 444, 448, 456; V, p. 547; VI, pp. 91, 156, 186, 189. Lettere del L., o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizionenaz. delle opere di Galileo Galilei, a cura di A. Favaro, VIII, XI, XII, XIII, XVIII, Firenze 1929-39, ad indices (nel vol. III, pp. 309-399, è pubblicato il De phoenomenis in orbe Lunae con postille di Galilei) e in G. Gabrieli, Carteggio linceo, Roma 1996, ad indicem.

Fonti e Bibl.: I.N. Erythraeus [G.V. Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, I, Coloniae Agrippinae 1643, pp. 222 s.; L. Allacci, Iulii Caesaris Lagallae vita, Parisiis 1644; T.M. Alfani, Istoria degli anni santi, Napoli 1724, pp. 394 s.; Nuovo Diz. istorico, XV, Napoli 1791, pp. 107-109; F. Colangelo, Storia dei filosofi e dei matematici napolitani, III, Napoli 1834, p. 162; S. Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae patrum bibliothecae, VI, a cura di A. Mai, Romae 1853, pp. 17-19; E. Wohlwill, Galilei und sein Kampf für die copernicanische Lehre, I, Hamburg-Leipzig 1909, pp. 214-218; V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Messina 1921, pp. 587 s.; G. De Crescenzo, Diz. storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani, Salerno 1937, pp. 67, 168; C.H. Lohr, Latin Aristotle commentaries, II, Firenze 1988, p. 214; I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al 1787, a cura di E. Conte, Roma 1991, ad ind.; M. Bucciantini, Contro Galileo, Firenze 1995, pp. 49-51 e passim; I. Gallo, Figure e momenti della cultura salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno 1997, pp. 27-71.

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