GIULIANO di Giovanni da Poggibonsi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIULIANO di Giovanni da Poggibonsi

Maura Picciau

Non si conoscono il luogo e la data di nascita di questo artista, attivo nel XV secolo, figlio di un Giovanni originario di Poggibonsi.

L'identità di G. è problematica e a tutt'oggi irrisolta: sotto tale nome, infatti, nel corso del Novecento la storiografia artistica ha radunato l'operato di tre figure attive in tempi e luoghi differenti. La prima è quella di Giuliano da Poggibonsi, presente a Firenze nei primi decenni del Quattrocento e collaboratore di Lorenzo Ghiberti alla porta nord del battistero; l'altra, quella dell'artista che lavorò a Valenza, in Aragona, tra il 1418 e il 1424; la terza, quella di un valido orefice registrato a Padova tra il 1430 e il 1438.

In ambito fiorentino la prima attestazione di G. risale al 1407, quando il suo nome compare nei pagamenti dei collaboratori di Ghiberti alla porta nord del battistero, secondo una dicitura (6 fiorini annui "per fanciullo") che non esclude l'eventualità che G. fosse un maestro esterno alla bottega ghibertiana che aveva inviato un suo giovane garzone (Krautheimer, 1982,doc. 31, p. 370). G. è in seguito documentato in relazione al cantiere del duomo di S. Maria del Fiore: infatti fu incaricato nel dicembre 1410 dagli "operai" dell'Opera del duomo di realizzare una scultura raffigurante un profeta (Poggi, doc. 191) per la quale egli fu compensato globalmente con la somma di 10 fiorini d'oro; la modesta quantità di marmo ricevuta e l'esiguità della somma suggeriscono una statua di piccole dimensioni. In tale circostanza è definito "intagliatore di fighure" (ibid., doc. 203). Il 30 dic. 1422 sempre l'Opera del duomo commissionò a G., denominato stavolta "aurifex" e "civis florentinus", di scolpire l'immagine di un profeta da porre sulla facciata della cattedrale "respiciente versus campanile" (ibid., doc. 259). L'anno seguente G. ricevette dagli operai 12 fiorini d'oro per la statua, che risultava essere stata sbozzata e condotta a Pisa, per poi farla pervenire a Firenze. L'opera doveva essere a buon punto, se, allorché il 28 sett. 1423 i consoli dell'arte della lana insieme con gli operai dell'Opera del duomo decretarono l'immediata cessazione dei contratti di commissione per le sculture, si fece eccezione unicamente per il profeta scolpito da G., deroga ribadita con una delibera ad hoc (ibid., docc. 264-266).

L'identificazione di questo manufatto e del primo profeta ha suscitato numerose ipotesi, stante l'impossibilità di ricondurre esattamente il numero di statue provenienti dalla cattedrale fiorentina e dal campanile di Giotto ai documenti pubblicati dal Poggi. Lanyi riconobbe nella coppia di piccole figure di profeta provenienti dalla porta del campanile, dove furono collocate nel 1431, e nella grande scultura raffigurante un ignoto profeta barbuto (un tempo situata nella seconda nicchia est del campanile e oggi, come i "profetini", al Museo dell'Opera del duomo) le opere di Giuliano di Giovanni da Poggibonsi.

Le statue dei due piccoli profeti, di cui non si può determinare quale sia quello cui si riferiscono i documenti del 1410-12, raffigurano due uomini barbuti di età media, abbigliati con tuniche dalle pesanti pieghe falcate di gusto gotico, colti in atteggiamento di torsione e sbilanciati sull'anca, con lo sguardo rivolto verso l'alto: particolare, questo, che indusse Schmarsow (1886) a vedervi una Trasfigurazione di Cristo. Il panneggio, fluente e corposo, si adagia morbidamente sul corpo per poi guadagnare una pesante verticalità di caduta, rivelando una chiara derivazione ghibertiana, ma anche una memoria del Trecento toscano. Il profeta a grandezza naturale, che Lanyi, seguito dalla Brunetti, ritenne raffigurare Giosuè, presenta caratteri analoghi: una figura nervosa nel volto e nella tensione delle mani, ma dall'assetto statico, confermato dal panneggio affine a quello delle due sculture piccole. La figura in piedi, imponente e grave, è improntata a un'espressione di patetismo - marcata dalle labbra tumide e dischiuse, dal vigoroso chiaroscuro dei capelli, dagli zigomi sporgenti - che la allontana dal classicismo elegante di Ghiberti, pur echeggiandolo. Le fonti antiche ne attribuivano la paternità a Donatello, in ragione presumibilmente della sua alta qualità espressiva. Se la critica del Novecento ha generalmente accolto la prossimità stilistica tra questo insieme di opere, la loro attribuzione è stata controversa. Le ipotesi più accreditate sono: i tre profeti sarebbero di mano di G., tesi di Lanyi ripresa recentemente da Markham Schulz; il gruppo di sculture risalirebbe a Nanni di Bartolo (Brunetti); si tratterebbe di opere della giovinezza di Donatello (Bellosi; Herzner). In ultima analisi, l'intricata esegesi attributiva - che riguarda tutto il corpus scultoreo della cattedrale di Firenze - appare nel caso delle statue che vanno sotto il nome di G., ancora più difficile da dipanare. L'assenza di altre opere autografe dell'artista ha infatti generato una ritrosia della critica ad assegnargli la paternità di sculture, quali i tre profeti, di altissimo livello formale ed esecutivo.

Sotto il nome di Giuliano di Giovanni da Poggibonsi viene censito dalla storiografia artistica spagnola lo scultore che realizzò tra il 1418 e il 1424 una serie di dodici rilievi in alabastro di soggetto vetero e neotestamentario, inseriti nel retablo, anch'esso di alabastro, che chiudeva il coro della cattedrale di Valenza, oggi conservati nella cappella del Santo Calice.

Il retablo fu commissionato allo scultore catalano Jaume Esteve, che realizzò la struttura portante e la decorazione di coronamento, dovendone anche rifare alcune parti che non soddisfecero il committente; mentre all'artista italiano, denominato nei documenti "Julià lo florentì", furono affidate le scene. I documenti lasciano trapelare che Esteve facesse da intermediario tra "Julià" e il committente, il cardinale di S. Giorgio al Velabro, Carlo de Urries, nominato a Perpignan nel 1408 da papa Benedetto XIII. Il cardinale aveva messo a disposizione una bottega per eseguire il lavoro; ma, alla sua scomparsa nel 1420, parrebbe che lo scultore italiano avesse preferito operare altrove e inviare i pannelli scolpiti, ricevendo per tramite di Esteve il compenso di 70 fiorini a coppia, consegnandone all'incirca una all'anno, fino al 1424. Schmarsow (1911) indicò in Giuliano di Giovanni da Poggibonsi l'ignoto scultore, che egli ritenne di gran valore, e la storiografia spagnola accolse tale ipotesi. Questa proposta attributiva si basava sulla schietta derivazione ghibertiana dei rilievi, cui si riconosceva un'omogeneità stilistica ed esecutiva cui concorrevano anche altre suggestioni, quali la pittura di Lorenzo Monaco. Alcuni anni più tardi comparve un articolo dedicato ai rilievi, a firma di Mayer, teso a confutare in parte le tesi di Schmarsow e a mettere in luce i rapporti di G. con l'arte gotica catalana e a cercare un corrispondente italiano con la pittura senese. Soprattutto Mayer ricostruì la cronologia interna dei rilievi, che a suo avviso andava considerata a partire dalle scene più marcatamente fiorentine, quali la Pentecoste, misurate e già ordinate secondo una metrica di gusto rinascimentale, fino a quelle, come Mosè e il serpente di bronzo, che evidenziano una ricerca di effetti pittorici e naturalistici piuttosto che una compostezza classica o una spazialità razionale. In effetti, i dodici rilievi, letti secondo quest'ordine, presentano un sempre maggiore accostarsi al gusto gotico catalano, un'arte scultorea dunque dalle tonalità espressive forti, di ascendenza borgognona, rappresentata in quegli anni dall'operato di Pere Johan e Guillem Sagrera. Se si osservano il pannello della Crocifissione, certo uno dei primi realizzati, e quello raffigurante Giona che esce dalla bocca della balena, si assiste al passaggio di un artista pienamente informato delle novità rinascimentali italiane (prossimo a Ghiberti nelle forme ma anche attento all'arte di Donatello) verso un'arte che indaga con attenzione lenticolare il paesaggio e i gesti dei personaggi, dai volti forti dall'intaglio deciso, talora popolareschi, colti sempre in azione. La natura è fatta oggetto di descrizione minuziosa, popolata di animali e fiori e piante, che dallo sfondo avanzano verso il primo piano costituendo non tanto un elemento narrativo quanto il luogo delle azioni e dei sentimenti. Alcuni decenni dopo Krautheimer scrisse al riguardo una severa nota di approfondimento, volta a far chiarezza dal punto di vista storico e stilistico. Ricordando che i collaboratori di Ghiberti di nome Giuliano furono tre, Giuliano di Giovanni da Poggibonsi, Giuliano di Ser Andrea, Giuliano di Monaldo (dei quali il primo sembrerebbe essere il più esterno alla fucina ghibertiana), lo studioso fece presente la coincidenza delle date dei documenti fiorentini inerenti il profeta grande con l'esecuzione del retablo. Stilisticamente, inoltre, l'autore dei rilievi spagnoli appare debole, e le evidenti citazioni dalle opere ghibertiane coeve sono così palesi che non si può escludere che questo artista sia un anonimo artista toscano di nome Giuliano o addirittura uno spagnolo permeato di cultura fiorentina. In realtà, i dati storici non sono sufficienti a negare che lo scultore noto come "Julià" non abbia avuto degli occasionali rientri a Firenze e, anzi, la dimostrata agile mobilità degli artisti lungo le rotte del Mediterraneo rende questa ipotesi ben possibile, così come non è certo un suo soggiorno aragonese o barcellonese durato sei anni. In ogni caso, le difficoltà tecniche presentate dalla lavorazione dell'alabastro e la precisione di segno e la minuzia dei dettagli che G. raggiunge, fanno comunque supporre una sua valida formazione come orafo. A. Franco Mata ha recentemente messo in luce una sua influenza sul più grande scultore catalano a lui contemporaneo, Pere Johan; e il ritrovamento di alcuni documenti inerenti la decorazione scultorea del chiostro del duomo di Barcellona, che fanno cenno a episodiche presenze di un "Julià Florentì" proprio negli anni dell'attività di Pere Johan per la sede barcellonese, apre nuove aree di ricerca per gli studiosi.

All'operato di un Giuliano di Giovanni orafo fiorentino, attivo a Padova durante il quarto decennio del Quattrocento, si suole collegare il nome di Giuliano di Giovanni da Poggibonsi. Egli è documentato la prima volta a Padova nel 1430, quando fece da garante per il lapicida Giovanni di Bartolomeo, il quale si impegnava a realizzare alcuni lavori per l'episcopio (Sartori). In tale occasione G. è detto maestro; e ciò indica uno status di artigiano affermato e verosimilmente inserito nella corporazione locale degli orefici: inoltre, il ruolo di fideiussore implicava un rapporto di piena fiducia con l'istituzione ecclesiastica. È presumibile dunque che a tale data G. fosse residente già da tempo nella città veneta, ove risultava abitare in contrada Ponte dei Tadi; mentre dal contratto di rinnovo della locazione triennale della bottega, datato 1434, si sa che esercitava in piazza dei Signori (Sartori).

Dai documenti pubblicati da Sartori prima e da Montobbio poi G. appare attivo a Padova sino al 1438, operoso al servizio della cattedrale e della basilica di S. Antonio, per la quale eseguì l'imponente reliquiario della sacra lingua incorrotta del santo, unica opera certamente autografa pervenutaci, che lo impegnò dal 1433 al 1436. Nel 1432 G. ricevette del denaro dal capitolo per delle operazioni di manutenzione di alcune suppellettili d'argento del duomo e per aver partecipato alla realizzazione di paramenti sacri adornati d'argento (Montobbio, p. 275 e doc. I). Nel 1433 fu retribuito con del frumento come anticipo per un tabernacolo per il Santissimo, da realizzare per il vescovo di Padova Pietro Donati. L'anno seguente ottenne poi una somma cospicua per l'esecuzione di tale manufatto. Nell'agosto 1434, G. è inoltre presente alla stesura del contratto d'incarico con cui i provvisori dell'Arca del Santo commissionarono allo scultore fiorentino Pietro Lamberti l'acquisto di otto colonne di marmo rosso di Verona. G. appare dunque in stretto contatto con il gruppo di scultori toscani attivi in Veneto a partire dal terzo decennio del XV secolo, e che a Padova trovavano un ambiente umanistico ricettivo e ospitale. Ancora nel 1437, anno di grande attività di G. per la curia episcopale, ebbe del denaro per cominciare il piede del tabernacolo, evidentemente sino ad allora trascurato dall'orefice, impegnato contemporaneamente nella realizzazione del reliquiario della lingua del santo. Poiché nel 1434 il Comune commissionava all'orafo Pietro di Alessandro da Parma la creazione, per la cattedrale, di una grande custodia-tabernacolo d'argento per la particola, tuttora esistente e noto come tabernacolo della Croce, Montobbio (p. 279) ha ipotizzato trattarsi del medesimo manufatto commissionato inizialmente a G., che ne avrebbe forse disegnato e magari in parte eseguito il piede, il quale presenta notevoli analogie di stile con il reliquiario della lingua, quali "la leggerezza e l'eleganza dell'intreccio".

Gli ultimi pagamenti a G. da parte del capitolo si registrano il 5 maggio 1438, ed è questa l'ultima data in cui G. è attestato a Padova (ibid., p. 276).

I due manufatti presentano analogie compositive e di ritmo; ma il reliquiario della lingua, tra gotiche reminiscenze ed esuberanti decorazioni di gusto orientale, manifesta un equilibrio già rinascimentale, di ascendenza toscana, specie nella cupola terminale con lanterna, "non indegna per disegno e proporzione di quel grande ingegno fiorentino, il Brunellesco" (Gonzati, 1851, p. 13). Altri lo avvicinano alle oreficerie veneziane coeve (Steingraber; Arslan). Reggioli, invece, vide nell'esuberanza ornamentale una possibile influenza iberica.

Si deve a Sartori il ritrovamento della serie di documenti che attestano la paternità di G. del reliquiario della lingua di s. Antonio. Il manufatto fu commissionato dai massari dell'Arca nel 1433. Tale contratto non è pervenuto; mentre quello seguente, datato 27 ag. 1434, riporta l'impegno di G. a terminare l'opera entro il 15 maggio 1435. La realizzazione del reliquario si protrasse ancora per un anno. Esso fu infine stimato in due tempi; e l'8 maggio 1436 una commissione composta da cinque periti nominati dai presidenti dell'Arca e da G. stesso - stavolta citato con il patronimico "di Giovanni" - espresse un giudizio unanime. L'opera fu valutata ben 11 ducati e tre quarti per ogni marca di peso. Tra i convenuti si distinguono Pietro da Parma e Antonio Ovetari, provvisore dell'Arca e mecenate, committente dell'omonima cappella nella chiesa cittadina degli eremitani, affrescata da Andrea Mantegna. Ovetari dimostrò di apprezzare molto il reliquiario, al punto di subentrare ai provvisori dell'Arca nelle spese sostenute e di far sistemare nel piede dell'oggetto il proprio stemma e il cimiero, ottenendo nel 1437 dal generale dell'Ordine una conferma perpetua di tale privilegio.

Il reliquiario, in argento dorato e imponente per dimensioni (cm 81 di altezza), poggia su un elaborato piede esalobato a scalini, decorato nella fascia rialzata da motivi gotici eseguiti a traforo e nel primo gradino da rosette smaltate e dagli stemmi Ovetari. L'alto fusto è composto di tre nodi architettonici, ornati inferiormente da foglie in lamina. Quello centrale, il più complesso e sontuoso, presenta delle edicole coperte da cupoline alternate a nicchie che ospitano delle statuine di santi. La teca è rappresentata da un vaso di cristallo racchiuso entro una struttura architettonica che presenta degli archi rampanti che insistono su torrette, sulle quali poggiano degli angeli adoranti ad ali spiegate. La copertura consiste in un sistema di cupoline e archi a tutto sesto sui quali campeggia su uno spesso tamburo una cupola brunelleschiana smaltata in blu e completa di lanterna, sormontata dalla statuetta aurea settecentesca di s. Antonio.

Proprio la evidente derivazione fiorentina della cupola terminale e degli archi rinascimentali, e la grazia ghibertiana delle statuine, a una data così precoce, hanno indotto Sartori, seguito da Fiocco, a riconoscere in Giuliano di Giovanni da Firenze, la figura di Giuliano di Giovanni da Poggibonsi, già collaboratore di L. Ghiberti alla porta nord del battistero di Firenze. Ritenendo la maestria orafa di G. e la sua formazione ghibertiana del tutto compatibili con una sua ipotetica attività di scultore in scala maggiore e su materiali diversi dai metalli nobili (come testimonierebbero i documenti fiorentini del duomo), i due studiosi riferirono infine a G. un corpus di opere veneziane di ardua attribuzione, quali la croce di s. Teodoro delle Gallerie dell'Accademia, il monumento al Beato Pacifico Bon e la lunetta Corner situati nella basilica dei Frari, nonché alcuni importanti rilievi della facciata di S. Marco. In anni successivi tale insieme, che manifesta delle incoerenze di gusto e cronologia, è stato attribuito caso per caso ad artefici diversi, tutti riconducibili ad ambito o ispirazione toscani. Bisogna però sottolineare che non sono stati rinvenuti documenti chiarificatori; ma si è trattato di attribuzioni fatte su base formale. Anche in questo caso, come per le statue fiorentine del duomo, è lecito domandarsi quanto l'anonimato della figura di G. pesi nella negazione di un suo intervento, anche perché tra le opere che Fiocco e Sartori gli attribuirono alcune sono state ancora una volta ricondotte alla figura di Nanni di Bartolo.

G. ricompare nei documenti fiorentini soltanto nel 1440, quando ricevette da un famiglio dell'Opera 1 lira e 10 soldi per sedici piccole campanelle d'ottone. È detto "orafo alla Nighitosa", cioè presso la perduta loggia degli Adimari, situata in via Calzaioli. Nel 1443 ottenne insieme con i suoi soci, che non vengono menzionati, 13 fiorini d'oro per una coppia di ampolle d'argento, definite "pulcras et magnas", per la mensa del duomo (Haines, in Poggi, docc. 1525, 1888). In tale circostanza si rileva per la prima volta l'appellativo "Fachino", con cui lo ricorda Vasari. Quest'ultimo, oltre a tramandarne l'attività di sentenziatore per l'oro per la Zecca di Firenze, ruolo che ricoprì dal 1458 al 1460 insieme con Rinaldo di Giovanni Ghini, lo chiama "maestro ragionevole" e indica in Antonio Pollaiolo colui che gli avrebbe insegnato l'arte dello smalto. Ciò appare ben difficile considerando le date: Pollaiolo appartenne a una generazione successiva e non poté essere il suo maestro. A Pistoia, inoltre, è custodito un reliquiario di s. Eulalia, datato 1444, che Marchini attribuì all'orafo Gualandi. Lo stesso Marchini suggeriva, però, che "Gualandi" poteva essere forse interpretato "Giuliano di [Poggibonsi]". È evidente che questa possibilità non sia da escludere alla luce dell'alta qualità del manufatto e di un gusto che indusse Ragghianti a citare lo stile di Nanni di Bartolo per gli angiolini che coronano la teca, e di un ritmo compositivo che ricorda il reliquiario della lingua di s. Antonio da Padova. Inoltre il culto di s. Eulalia - patrona di Barcellona - in Italia è diffuso nelle terre che appartennero alla Corona d'Aragona, e raramente altrove.

Risale infine al 1467 (Haines, in Poggi, doc. 1917) l'ultima attestazione di G., allorquando partecipò con Antonio Pollaiolo e Luca Della Robbia alla stima del giusto compenso per l'orafo Bartolomeo di Fruosino, autore anni addietro del piede dell'altare maggiore della cattedrale. Il calibro dei maestri che espressero il proprio giudizio al riguardo rappresenta un indizio del valore di G. come orafo e della considerazione che dovette godere tra i suoi contemporanei.

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