Giudizio di ottemperanza

Diritto on line (2013)

Aldo Travi

Abstract

Il codice del processo amministrativo ha introdotto novità di rilievo in materia di giudizio di ottemperanza, ammettendo per esempio un giudizio per l’interpretazione della sentenza da eseguire, prebdendo misure di contenuto diverso (quali le ‘astreintes’), disciplinando il ruolo del commissario ad acta. Ciò nonostante è rimasta fermo il modello precedente, espresso dalla bipartizione del processo amministrativo in un giudizio di merito e in un giudizio di ottemperanza, con limitatissime esperienze di maggiore condivisione fra le due fasi (esse sono limitate al giudizio sul silenaio e al giudizio per il risarcimento dei danni). Inoltre è rimasto fermo il presupposto fondamentale, rappresentato dalla inesecuzione del giudicato, con la conseguenza che ancora oggi non è esclusa una serie indefinita di annullamenti e di rinnovazioni del procedimento.

Il giudizio di ottemperanza (profili generali)

L’esecuzione di una sentenza nei confronti dell’amministrazione rappresenta un profilo nodale, in tutti i sistemi che riconoscano un diritto amministrativo: l’esecuzione della sentenza può richiedere infatti un intervento rispetto ad ambiti di attività che l’ordinamento assegna all’amministrazione per attuare interessi generali. Nel modello definito dalla legge di abolizione del contenzioso amministrativo (l. 20.3.1865, n. 2248, all.to E) la tutela dei diritti era sancita anche sul piano dell’esecuzione, ma soltanto nei termini di un dovere gravante sull’amministrazione. In termini generali, in base all’art.4 della legge l’atto giurisdizionale comporta per l’amministrazione un dovere di esecuzione, e per questo aspetto ha un ruolo di prevalenza rispetto a qualsiasi atto amministrativo. Questo punto è stato confermato anche di recente (in particolare, la sentenza amministrativa deve contenere sempre «l’ordine che la decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa»: art. 88, co. 1, c.p.a.). Nello stesso tempo, però, l’evoluzione legislativa e giurisdizionale successiva è stata determinata dalla insufficienza di affermazioni del genere, che si esaurivano sul piano del diritto sostanziale e alle quali molto spesso non seguivano comportamenti coerenti degli uffici.

Il fallimento del modello sostanzialmente ‘volontaristico’ fu testimoniato dalla riforma del 1889 (legge 31 marzo 1889, n. 5992) che assegnò alla Quarta sezione del Consiglio di Stato anche il compito di garantire l’esecuzione delle sentenze (“giudicato”) dei giudici ordinari. L’interpretazione di questa previsione, unitamente al riconoscimento alla Quarta sezione di natura giurisdizionale, ha inciso in profondità sull’assetto della giustizia amministrativa nel nostro Paese. Innanzitutto le ragioni della esclusività di una competenza dell’amministrazione si devono confrontare con quelle della garanzia della tutela giurisdizionale: è introdotto un ‘giudizio’ di ottemperanza. Inoltre, l’esecuzione è assicurata, sul piano giurisdizionale, con una tecnica tipicamente sostitutiva: il relativo giudizio non soltanto inerisce alla c.d. giurisdizione di merito, ma diventa il modello di una giurisdizione caratterizzata da un’amplissima fungibilità fra intervento del giudice e attività dell’amministrazione. La garanzia giurisdizionale dell’esecuzione è stata rappresentata, così, nei suoi termini essenziali, dalla capacità per il giudice amministrativo di sostituirsi all’amministrazione inadempiente, quando sia in gioco l’esecuzione delle sentenze.

Gli sviluppi successivi, fino al codice del 2010, furono principalmente di ordine giurisprudenziale. La sinteticità della previsione del 1899, riprodotta in termini immutati nei successivi testi unici del 1907 e del 1924, favorì un’elaborazione indubbiamente ‘creativa’, ma pur sempre aderente al parametro originario. Nell’elaborazione giurisprudenziale, infatti, è agevole cogliere il confronto fra il diritto del cittadino alla esecuzione della sentenza e l’azione amministrativa, e il riconoscimento al diritto all’esecuzione di un rilievo particolare, tale – per esempio – da non lasciare spazio né a limiti interni del genere rappresentato dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, né alla riconduzione a canoni di tipicità dell’azione (come invece valeva, almeno in passato, per il giudizio di cognizione avanti al giudice amministrativo). I passaggi più significativi di questa evoluzione furono rappresentati, nel periodo fra le due guerre mondiali, dall’affermazione che al giudice amministrativo era devoluta anche l’esecuzione giurisdizionale delle sentenze amministrative in tema di diritti soggettivi, e poi di tutte le sentenze amministrative, ivi comprese quelle in tema di interessi legittimi; in epoca più recente, dal superamento della barriera rappresentata dalla discrezionalità dell’amministrazione. L’esecuzione deve dunque essere piena e incondizionata: una volta acquisita questa premessa, la salvaguardia della discrezionalità amministrativa non può essere invocata per giustificare l’inottemperanza. Semmai, per il giudice il problema si sposta sulla selezione di modalità di esecuzione appropriate, che non turbino eccessivamente i caratteri di indipendenza della funzione giurisdizionale e la sua indifferenza verso i fattori politici che permeano intensamente la discrezionalità amministrativa: queste modalità furono identificate brillantemente nell’intervento del commissario ad acta. La riflessione della dottrina fornì ulteriori spunti a questo indirizzo, per esempio, nella riflessione di Nigro, con la costruzione del ‘giudicato a formazione progressiva’, che consentiva di ridimensionare lo spazio finale della discrezionalità, o assegnando un peculiare valore di cognizione al giudizio di ottemperanza.

L’importanza di questo assetto emerge con chiarezza alla luce di alcuni ordinamenti stranieri. Il problema dell’esecuzione delle sentenze, comune a tutti, fu risolto in modo diverso: in genere prevedendo forme di esecuzione indiretta, attraverso la comminatoria di misure pecuniarie a carico dell’amministrazione o del funzionario responsabile dell’inottemperanza (si pensi, in particolare, all’esperienza francese e a quella tedesca). Si tratta di un modello complessivamente meno efficace di quello italiano: la salvaguardia della funzione amministrativa comporta il rischio di una compensazione in termini monetari di qualsiasi obbligo reale di esecuzione ed il carattere ‘dissuasivo’ della misura pecuniaria risulta spesso ridotto, o per l’esigenza di considerare la condizione economica del funzionario, o per l’esigenza di non penalizzare eccessivamente l’amministrazione. Tant’è vero che in alcuni casi (di recente in Germania, ma più diffusamente in Spagna) si è dovuto postulare, comunque, uno spazio residuale per interventi sostitutivi del giudice, al fine di garantire l’esito della funzione giurisdizionale anche rispetto a un’amministrazione fermamente determinata a non adempiere (cfr. Travi A., Verso una convergenza dei modelli di processo amministrativo ?, in Falcon, G.D., a cura di, Forme e strumenti della tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi nel diritto italiano, comunitario e comparato, Padova, 2010, 7 ss.).

I contenuti del dovere di ottemperanza e il tema delle sopravvenienze

Il tema dei contenuti del dovere di ottemperanza è di particolare rilievo, perché riporta alle utilità che sono garantite al cittadino dalla sentenza di accoglimento del suo ricorso.

Il quadro delle utilità è di immediata percezione nel caso di una sentenza di condanna (non importa, se del giudice civile o del giudice amministrativo), perché è proprio di queste sentenze l’identificazione di una prestazione specifica, imposta alla parte soccombente, e l’esecuzione non può che attenere a tale prestazione. Nel caso della sentenza di accertamento il tema presenta una maggiore complessità perché postula che anche la sentenza di accertamento possa determinare obblighi di esecuzione a carico dell’amministrazione: in questo senso è stato interpretato l’art. 4, co. 2, della legge di abolizione del contenzioso amministrativo. La sentenza di accertamento, in questa prospettiva, postula un dovere di esecuzione ogni qual volta il giudice abbia accertato una incoerenza fra la situazione di fatto e quella di diritto, e ciò indipendentemente da ogni contenuto formale della sentenza. L’indagine, comunque, si è concentrata in modo particolare sulla sentenza di annullamento, rispetto alla quale l’incidenza su un’azione amministrativa provvedimentale rileva spesso in termini diretti.

Lo studio del giudizio di ottemperanza riporta, così, a quello degli effetti delle sentenze di annullamento. Il dovere dell’amministrazione di dare esecuzione alla sentenza, secondo la sistematica elaborata compiutamente negli ultimi decenni del Novecento, ricomprende un profilo eliminatorio (che attiene alla caducazione ex tunc degli effetti prodotti dal provvedimento prima dell’annullamento), un profilo ripristinatorio (che attiene alla ricostruzione della disciplina che si sarebbe prodotta in assenza del provvedimento illegittimo), ma soprattutto un profilo rinnovatorio o conformativo (che vincola l’attività successiva dell’amministrazione ad attenersi alla regola di diritto enunciata dal giudice nella sentenza). Il dovere di esecuzione della sentenza ricomprende anche il momento rinnovatorio del potere amministrativo; anzi proprio questo elemento risulta decisivo quando si tratti di eseguire una sentenza che abbia annullato un provvedimento negativo (un diniego di autorizzazione, di concessione, ecc.) o abbia accertato un silenzio senza esprimersi anche sulla fondatezza della pretesa sostanziale del cittadino. In queste ipotesi, infatti, l’esito pratico del giudizio è assicurato solo attraverso il riesercizio (o, nel caso del silenzio, attraverso il primo esercizio) del potere da parte dell’amministrazione dopo la sentenza.

Soprattutto, con riferimento al profilo rinnovatorio, assume rilievo il tema delle c.d. sopravvenienze, ossia delle innovazioni di ordine normativo, ordinamentale, ecc. che possono interferire con il dovere di esecuzione. Questo tema risultava cruciale prima che la Cassazione, nel 1999, ammettesse il risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi: fino al 1999 il dibattito sulle sopravvenienze sembrava contrapporre un’esigenza elementare di garanzia per il cittadino, vittorioso nel giudizio di cognizione, con le ragioni dell’interesse pubblico. Si pensi all’impugnazione di un diniego illegittimo di permesso di costruire, quando, nel corso del giudizio o dopo la sentenza, intervenga un nuovo piano urbanistico che non consenta più il rilascio del permesso.

Il dibattito fu risolto in un primo tempo da un intervento pretorio del Consiglio di Stato (Cons. St., A.P., 8.1.1986, n. 1, in Foro it., 1986, III, 97) che ancora oggi fa testo in giurisprudenza. Si contrapponevano due tesi principali. La prima, richiamando principi generali sulla tutela giurisdizionale, sosteneva che le sopravvenienze non sarebbero mai opponibili e che l’amministrazione sarebbe stata tenuta a provvedere ‘ora per allora’, nel senso che avrebbe dovuto riesaminare la domanda del cittadino applicando la disciplina in vigore all’epoca della domanda stessa. La giurisprudenza precedente, invece, aveva sostenuto a lungo che l’amministrazione non potesse prescindere dalla disciplina sopravvenuta, e proponeva di fare applicazione del principio ‘tempus regit actus’, almeno fino a quando non fosse intervenuto il passaggio in giudicato della sentenza. Il Consiglio di Stato si orientò verso una soluzione apparentemente intermedia, ma in realtà sensibile soprattutto alle ragioni dell’amministrazione: concluse, infatti, che le sopravvenienze prevalgono quando siano precedenti alla notifica della sentenza di primo grado; invece, le innovazioni successive tendenzialmente non avrebbero potuto essere opposte.

È evidente, comunque, che alla stregua della soluzione giurisprudenziale si finisce con l’accettare che la durata del giudizio (seppure circoscritta al solo giudizio di primo grado) possa comportare un danno irreversibile per il ricorrente. La conclusione dell’adunanza plenaria appare relativamente più tollerabile oggi, dato che si tende ad ammettere, nel caso di impossibilità dell’esecuzione, per lo meno un risarcimento equivalente. Di recente, però, è emerso con forza anche un indirizzo diverso, che afferma in termini più generali che il giudicato sarebbe intangibile rispetto alle sopravvenienze normative solo se la sentenza si sia pronunciata in modo pieno sul rapporto, così da rendere vincolata la successiva attività amministrativa (Cons. St., sez. VI, 19.6.2012, n. 3569, in Foro it., 2012, III, 612); in questo modo, fra l’altro, l’incidenza delle sopravvenienze può essere soltanto marginale, se sia stata accolta una domanda di adempimento (cfr. art. 34, co. 1, lett. c, c.p.a., come modificato da art. 1, d.lgs. 14.9.2012, n. 160). Inoltre, con riferimento a prestazioni di carattere periodico (in genere, inerenti a diritti soggettivi), rimane ferma la possibilità che la normativa sopravvenuta possa incidere sugli obblighi già maturati (Cons. St., sez. V, 3.5.2012, n. 2547, in Foro it., 2012, III, 612).

La domanda e il procedimento

Come si è già segnalato, il giudizio di ottemperanza può essere promosso ogni qual volta la sentenza non sia stata eseguita spontaneamente dall’amministrazione. Il giudizio si svolge in genere davanti al giudice amministrativo: questa regola vale sempre nel caso di esecuzione di sentenze del giudice civile o del giudice amministrativo (mentre per l’esecuzione delle sentenze della Corte dei conti o delle Commissioni tributarie sono competenti i medesimi giudici che hanno pronunciato le sentenze).

Il giudizio di ottemperanza avanti al giudice amministrativo può concorrere, così, con l’esecuzione civile, disciplinata dal terzo libro del codice di procedura civile. La concorrenza vale per l’esecuzione delle sentenze civili passate in giudicato (art. 112, co. 2, lett. c), c.p.a. – invece, per le sentenze esecutive del giudice civile, ma non ancora passate in giudicato, non è contemplato il giudizio di ottemperanza); vale per l’esecuzione dei lodi arbitrali esecutivi, purché siano divenuti inoppugnabili (art. 112, co. 2, lett. e), c.p.a.); vale per le sentenze passate in giudicato dei giudici speciali, per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza avanti agli stessi giudici (art. 112, co. 2, lett. d), c.p.a. – il rimedio specifico dell’ottemperanza davanti agli stessi giudici è previsto nell’ordinamento della Corte dei conti e delle Commissioni tributarie). Inoltre, in base all’art. 115, co. 2, c.p.a., vale per le sentenze di condanna del giudice amministrativo che abbiano ad oggetto il pagamento di somme di denaro (la stessa soluzione deve estendersi a pronunce analoghe, come i decreti ingiuntivi esecutivi, o le condanne alla rifusione delle spese processuali). La distinzione non attiene perciò alla circostanza che la condanna possa avere ad oggetto l’adempimento di obbligazioni, ma inerisce esclusivamente al contenuto pecuniario della condanna.

Nel sistema del codice la sentenza amministrativa si esegue essenzialmente col giudizio di ottemperanza ed anche l’azione di condanna nel processo amministrativo è inquadrata in questo contesto. Il processo amministrativo costituisce, nel sistema del codice, un sistema autosufficiente di tutela nei confronti dell’amministrazione, che si regge sul binomio rappresentato da cognizione ed esecuzione-ottemperanza.

Il ricorso per l’ottemperanza va notificato all’Amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio di merito (art. 114, co. 1; la notifica va effettuata alle parti, e non presso i rispettivi difensori nel giudizio di cognizione: infatti non si tratta di un gravame – cfr. Cons. St., sez. V, 23.2.2012, n. 1060, in Foro it., 2012, III, 401). Le parti del giudizio di ottemperanza vanno identificate, ai sensi dell’art. 114, co. 6, con le parti nei cui confronti sia stata pronunciata la sentenza da eseguire.

Il ricorso, una volta notificato, deve essere depositato presso il giudice competente nel termine stabilito in via generale dall’art. 45 c.p.a. . Insieme col ricorso, il ricorrente deve depositare una copia autentica della sentenza di cui chiede l’esecuzione. Il giudizio di ottemperanza può essere promosso anche per l’esecuzione di una sentenza amministrativa non ancora passata in giudicato; se sia passata in giudicato, è richiesto al ricorrente di documentarlo (art. 114, co. 2, c.p.a., come modificato da art. 1, d.lgs. 15.11.2011, n. 195).

Il ricorso non è sottoposto a termini di decadenza e, d’altra parte, non ha carattere impugnatorio. Il diritto all’esecuzione è assoggettato però a prescrizione ordinaria di dieci anni, decorrenti dalla data del passaggio in giudicato della sentenza (art. 114, co. 1, c.p.a.).

Il ricorrente che agisca per l’esecuzione di una sentenza amministrativa deve agire avanti allo stesso giudice che abbia pronunciato la sentenza: pertanto, in questo caso, il Consiglio di Stato può essere competente anche in unico grado. Se, però, la sentenza del Tar sia stata confermata in appello (o sia stata riformata senza, però, alcuna incidenza sul dispositivo, né sugli effetti della sentenza, ivi compreso quello conformativo), il ricorso va presentato al Tar. Invece, per l’esecuzione della sentenza di un giudice ordinario o di un altro giudice speciale diverso dal giudice amministrativo, è competente il Tar nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza da eseguire (art. 113 c.p.a.). La competenza è sempre funzionale (art. 14, co. 3, c.p.a.).

Il processo si svolge secondo le regole generali (art. 38 c.p.a.), con le modalità del c.d. rito camerale (art. 87, co. 2, c.p.a.; i termini processuali sono pertanto ridotti a metà). La pronuncia è assunta con sentenza in forma semplificata (art. 114, co. 3, c.p.a.).

Qualsiasi parte può ricorrere, con le medesime forme, anche per ottenere chiarimenti del giudice amministrativo in merito alle modalità di esecuzione della sentenza (art. 112, co. 5). Il ricorso al giudice dell’ottemperanza, in questo caso, non presuppone un’inottemperanza, ma presuppone incertezze effettive sugli effetti della sentenza da eseguire, sugli adempimenti necessari per l’esecuzione, ecc. Il giudice amministrativo, nelle sue prime pronunce in argomento, ha comunque espresso l’esigenza che il rimedio non sia utilizzato per ritardare l’esecuzione della sentenza ed ha censurato l’amministrazione che aveva cercato in questo modo di porre in discussione gli effetti della sentenza di annullamento (cfr. Cons. St., sez. VI, 25.10.2012, n. 5469, in www.giustizia-amministrativa.it), o di sollevare questioni estranee al contenuto del giudicato (Cons. St., sez. VI, 19.6.2012, n. 3569, in Foro it., 2012, III, 612).

Il giudizio di ottemperanza concerne essenzialmente l’esecuzione della pronuncia giurisdizionale: di conseguenza non sono ammesse domande estranee ai doveri di esecuzione derivanti dalla sentenza. Tuttavia, in sede di ottemperanza possono essere richiesti anche gli interessi (ed eventualmente la rivalutazione monetaria) maturati dopo la sentenza. Inoltre può essere richiesto il risarcimento dei danni cagionati dall’inadempimento o dalla impossibilità di ottenere una tutela specifica (art. 112, co. 3, c.p.a., come modificato dal d.lgs. 195/2011). La possibilità di proporre anche queste domande si giustifica per la loro stretta inerenza all’esecuzione della sentenza.

L’esecuzione della sentenza può esigere valutazioni nuove rispetto a quelle rappresentate nella sentenza da eseguire. Si pensi alla sentenza che abbia annullato un provvedimento di diniego: l’esecuzione della sentenza richiede che venga verificata la fondatezza della pretesa del cittadino a conseguire l’autorizzazione richiesta. In questi casi, quindi, l’esecuzione non può esaurirsi nella mera applicazione delle regole enunciate nella sentenza: per provvedere può risultare necessario che il giudice estenda l’accertamento a circostanze e a regole ulteriori.

Secondo una concezione dottrinale, il giudizio di ottemperanza presenterebbe profili compositi, perché nel giudizio confluirebbero profili tipici di cognizione oltre a quelli di esecuzione. In particolare, l’attività di cognizione emergerebbe per gli elementi dell’azione amministrativa non predeterminati nella sentenza da eseguire. A questa concezione può essere obiettato, più semplicemente, che ogni giudizio di esecuzione presuppone semplicemente una sentenza che sia rimasta ineseguita.

La pronuncia

Il codice del processo amministrativo ha confermato che il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita una giurisdizione estesa al merito (art. 134, co. 1, lett. a), c.p.a.). Pur nel complessivo ridimensionamento della giurisdizione di merito, questo carattere non è mai stato posto in discussione nel caso del giudizio di ottemperanza.

Questa previsione consente al giudice di sostituirsi, direttamente o attraverso un commissario da esso eventualmente nominato, all’amministrazione inadempiente (art. 114, co. 4, lett. a), c.p.a.). Almeno in linea teorica, il potere di sostituzione è di ampiezza generale: l’amministrazione non può opporre al giudice alcuna sua riserva di potere (cfr. Albé, A., Istanza per l’adozione di una nuova disciplina urbanistica e silenzio dell’amministrazione, in Urb. app., 2012, 1322 ss.). La necessità di dare esecuzione alla sentenza prevale anche su ogni altro valore ordinamentale.

Il codice assegna al giudice amministrativo, in sede di ottemperanza, una gamma molto ampia di poteri, tutti riconducibili all’esigenza di dare esecuzione alla sentenza. Si tratta di misure ordinatorie, quali la fissazione di termini per provvedere, la precisazione di modalità esecutive, ecc. (art. 114, co. 4, lett. a, c.p.a.). Inoltre, il codice attribuisce al giudice dell’ottemperanza anche il potere di disporre misure di esecuzione indiretta: infatti, può ingiungere alla parte inadempiente il versamento al ricorrente di somme di denaro, che maturano periodicamente in seguito al ritardo nell’adempimento (art. 114, co. 4, lett. e, c.p.a.).

Il codice riconosce espressamente che il giudice dell’ottemperanza può anche dichiarare la nullità degli atti adottati in violazione o in elusione del giudicato (art. 114, co. 4, lett. b, c.p.a.; questa ipotesi di nullità era già stata sancita dall’art. 21septies della l. n. 241/1990, novellata dalla l. 11.2.2005, n. 15). La nullità può essere dichiarata d’ufficio, secondo le regole generali, e non è soggetta ai termini previsti dall’art. 31, co. 4, c.p.a., per altre ipotesi di nullità. La nullità è comminata sia per gli atti adottati in violazione della sentenza, sia per gli atti adottati «in elusione» della sentenza stessa.

Il commissario ad acta

La possibilità per il giudice amministrativo di sostituirsi all’amministrazione, nel giudizio di ottemperanza, non significa che tale sostituzione debba attuarsi in forma diretta. In genere, soprattutto quando siano richiesti adempimenti di una certa complessità, o quando l’esecuzione richieda valutazioni tipicamente discrezionali, il giudice dell’ottemperanza non provvede direttamente, ma garantisce l’esecuzione della sentenza attraverso un commissario ‘ad acta’. Il commissario si sostituisce agli organi amministrativi inadempienti.

La figura del commissario ‘ad acta’ oggi è riconosciuta anche dal codice del processo amministrativo (artt. 21 e 114, co. 3, lett. d, c.p.a.). In passato della figura erano state proposte diverse letture, condizionate soprattutto dall’esigenza di individuare modalità coerenti di tutela nei confronti degli atti dei commissari. Il codice del processo amministrativo non ha preso posizione sul tema generale, ma ha chiarito alcuni profili nodali. In particolare:

il commissario è considerato fra gli ausiliari del giudice (art. 31) e, pertanto, è soggetto ai canoni di autonomia e terzietà rispetto alle parti che valgono per tutti gli ausiliari del giudice;

sono state disciplinate le contestazioni insorte fra le parti sugli atti del commissario (art. 114, co. 6, come sostituito dal d.lgs. n. 195/2011). In particolare, le contestazioni delle parti vanno proposte, entro sessanta giorni, con un reclamo da notificare alle altre parti e da depositare al giudice dell’ottemperanza. Invece le contestazioni dei terzi vanno proposte con l’azione ordinaria d’annullamento, davanti al giudice competente secondo le regole generali previste per l’impugnazione di provvedimenti amministrativi.

In questo modo molti problemi che avevano suscitato il dibattito sulla figura del commissario risultano superati. Nel codice il commissario è essenzialmente un ausiliare del giudice. I suoi atti sfuggono al regime generale di impugnazione dei provvedimenti amministrativi, ma se siano contestati dalle parti. In ogni altro caso i provvedimenti del commissario sono sottoposti ad impugnazione secondo le regole generali.

I rimedi

Nei confronti delle sentenze dei Tar pronunciate su ricorsi d’ottemperanza sono ammessi l’appello al Consiglio di Stato e gli altri rimedi previsti dall’art. 91 cod.proc.amm. (in base all’art. 114, co. 9, c.p.a. i termini processuali sono quelli ordinari). Prima del codice, il Consiglio di Stato in genere escludeva l’appello rispetto alle sentenze che fossero meramente attuative del giudicato, mentre lo ammetteva per le sentenze che affrontassero le condizioni per il giudizio di ottemperanza, per le questioni inerenti alla regolarità del giudizio, e con riguardo alle statuizioni su profili non disciplinati puntualmente nella sentenza passata in giudicato (Cons. St., A.P., 29.1.1980, n. 2, in Foro it., 1980, III, 161). Il codice non dispone espressamente in proposito (art. 114, co. 8) e si limita ad estendere all’impugnazione delle pronunce del giudice dell’ottemperanza la stessa disciplina prevista per il giudizio di ottemperanza.

La sentenza del Consiglio di Stato pronunciata in sede di ottemperanza (o di appello sull’ottemperanza di un Tar), è impugnabile avanti alla Corte di cassazione, per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa. Il tema dei limiti esterni va valutato, però, alla luce della sussistenza di una giurisdizione di merito; pertanto, il giudice amministrativo, in questo caso, non incontra limiti neppure nella discrezionalità amministrativa (cfr. Cass., S.U., 19.7.2006, n. 16469, in Foro it., Mass., 2006, 1416).

La Cassazione, di recente, ha annullato, per motivi di giurisdizione, una sentenza del Consiglio di Stato pronunciata in sede di ottemperanza. La Cassazione ha sostenuto che, in quel caso, non vi sarebbero state le condizioni per un giudizio di ottemperanza e il Consiglio di Stato, intervenendo in sede di ottemperanza, avrebbe esercitato i poteri specifici della giurisdizione di merito in una situazione diversa (Cass., S.U., 9.11.2011, n. 23302, in Dir. proc. amm, 2012, 127).

L’ottemperanza nei confronti dei soggetti privati

Inserendosi in un ampio dibattito precedente, il codice del processo amministrativo riconosce che il dovere di esecuzione delle sentenze grava, oltre che sull’amministrazione, anche sulle «altre parti» (art. 112, co. 1, c.p.a.). La disposizione del codice intende colmare una lacuna che, con l’ampliamento della giurisdizione esclusiva, risultava sempre più ampia e chiarisce che la circostanza che parte soccombente sia un soggetto privato non toglie nulla alla cogenza degli obblighi che derivano dalla sentenza amministrativa.

Resta da capire, però, quali strumenti possano essere utilizzati per eseguire la sentenza nei confronti di un soggetto privato. Se il giudice amministrativo ha pronunciato una condanna al pagamento di somme di denaro, il privato può essere sottoposto ad esecuzione forzata nelle forme previste dal codice di procedura civile (art. 115, co. 2, c.p.a.) Se invece il giudice amministrativo ha pronunciato altre statuizioni, l’esecuzione civile appare esclusa. In particolare, un intervento sostitutivo può ammettersi di regola soltanto nei confronti di un’amministrazione ed è per lo meno dubbio che un intervento del genere potesse ammettersi anche nei confronti di un privato (escluse ipotesi particolari, come quella del concessionario di un pubblico servizio o del privato che eserciti un’attività pubblica).

Come si è già ricordato, il codice del processo amministrativo ha attribuito al giudice dell’ottemperanza anche il potere di intimare, alla parte inadempiente, il versamento al ricorrente di una somma di denaro (art. 114, co. 4, lett. e, c.p.a.); la relativa statuizione costituisce titolo esecutivo). E’ una modalità di ‘esecuzione indiretta’, analoga a quello prevista dall’art. 614 bis c.p.c. per l’esecuzione di obblighi di fare infungibili o di non fare ed è certamente applicabile anche nei confronti di soggetti privati. La giurisprudenza amministrativa ha precisato che questo istituto è ammesso in via generale nel processo amministrativo e non è limitato agli obblighi di fare infungibili o di non fare.

L’ottemperanza rispetto alle decisioni del ricorso straordinario

Le decisioni dei ricorsi straordinari non sono atti giurisdizionali e una loro assimilazione alle sentenze non appare corretta, nonostante le tesi recentemente sostenute dalla Cassazione (cfr. Cass., S.U., 19.12.2012, n. 23464) e dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., A.P., 6.5.2013, n. 9).

Per l’esecuzione delle decisioni dei ricorsi straordinari si ammetteva tradizionalmente, come unico strumento giurisdizionale, il giudizio sul silenzio. Come reazione a questa soluzione, che comportava la necessità di avviare un giudizio di cognizione per l’esecuzione di un provvedimento decisorio assunto con l’intervento determinante del Consiglio di Stato, prima del codice vi erano stati vari tentativi dottrinali e giurisprudenziali di ammettere il ricorso per l’ottemperanza anche per l’adempimento della decisione di un ricorso straordinario. Questi tentativi si erano intensificati dopo che il legislatore aveva affermato il carattere vincolante del parere del Consiglio di Stato sul ricorso straordinario (art. 69, l. 18.6.2009, n. 69) e si era così ridotta la distanza rispetto ai rimedi giurisdizionali.

Dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la Cassazione e il Consiglio di Stato hanno ammesso l’esperibilità del giudizio d’ottemperanza per l’esecuzione delle decisioni del ricorso straordinario (Cass., S.U., 28.1.2011, n. 2065, in Foro it., 2011, I, 742; Cons. St., sez. VI, 1.6.2011, n. 3513, in Foro it., 2011, III, 530), nonostante le vivaci critiche di una parte della dottrina (D’Angelo, G., Ricorso straordinario e giudizio d’ottemperanza, il «revirement» della Cassazione dopo il codice del processo amministrativo, in Foro it., 2011, I, 742; Marchetti, B., Il giudicato amministrativo e il giudizio di ottemperanza, in Caranta, R., a cura di, Il nuovo processo amministrativo, Bologna, 2011, 850). In riferimento all’art. 112, co. 2, c.p.a., l’esperibilità del ricorso per l’ottemperanza è stata fondata variamente sulla lett. b) (che richiama, oltre alle sentenze esecutive, «gli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo») o sulla lett. d) (che richiama, oltre alle sentenze passate in giudicato, anche «gli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione»). La distinzione fra le due soluzioni ha riflessi sulla competenza del giudice amministrativo: infatti, nell’ipotesi contemplata dalla lett. b), il ricorso per l’ottemperanza dovrebbe essere proposto al Consiglio di Stato (così Cons. St., sez. VI, 1.6.2011, n. 3513, in Foro it., 2011, III, 530), mentre nell’ipotesi contemplata dalla lett. d) il ricorso dovrebbe essere proposto al Tar (così Cons. St., sez. III, ord. 4.8.2011, n. 4666, in Foro it., 2011, III, 633).

Il dissidio è stato risolto dall'adunanza plenaria con adesione al primo indirizzo, sulla base però di una concenzione giurisdizionale della decisione del ricorso (Cons. St., A.P., 6.5.2013, n. 9).

Fonti normative

Artt. 112, 113, 114 e 115 c.p.a.

Bibliografia essenziale

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