GIROLAMO da Treviso, il Vecchio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIROLAMO da Treviso, il Vecchio

Alessandro Serafini

L'identificazione dell'artista, attivo nel Trevigiano negli ultimi tre decenni del Quattrocento, al quale vanno attribuiti i dipinti accomunati dall'identica firma "Hieronimus Tarvisio" rimane una questione tuttora aperta. Sono stati proposti i nomi di due pittori entrambi presenti a Treviso in quel periodo: Girolamo Pennacchi, fratello maggiore del più noto Pier Maria, e Girolamo Strazzaroli da Aviano.

Girolamo Pennacchi nacque a Treviso nel 1455, figlio del mercante Giovanni di Daniele da Murano e della sua seconda moglie Maria Bona. Nel 1488, insieme con Giovanni Matteo di Giorgio da Treviso, prese in affitto una casa di Alvise Barisan, probabilmente per esercitarvi la sua professione di pittore. Dal 1490 al 1493 risulta essere presente, sempre come cittadino e abitante di Treviso, in una serie di atti notarili riguardanti questioni famigliari. Del gennaio 1493 è una ricevuta per alcuni lavori, perduti, per l'altare di S. Giovanni Elemosinario in S. Giovanni in Bragora a Venezia, dove nello stesso periodo era attivo Alvise Vivarini. Nel luglio del 1493 era già tornato a Treviso, visto che vi compare come testimone. Il 17 luglio 1496 redasse il testamento. Il 15 maggio 1497 risulta essere morto (Nepi Scirè, pp. 37-39).

Girolamo della famiglia Strazzaroli, originaria di Aviano, fu battezzato nella cattedrale di Treviso il 16 marzo 1451 (Fossaluzza, Treviso, 1990, p. 561 n. 31). Figlio di Bartolomeo di Benvenuto e di Clara, ebbe come fratelli il poeta Alvise, meglio conosciuto con il soprannome umanistico di Ludovico Pontico, e Giacomo Donato, notaio. In data imprecisata si sposò con Maria, da cui ebbe tre figli. Nel 1476 compare come testimone al contratto dotale di Lucia, moglie del pittore Paolo da Colonia. Nel 1482, nel 1487 e nel 1492 svolse la funzione di arbitro in una serie di questioni artistiche. Nel 1488 e nel 1495 soggiornò nell'abbazia di S. Bona di Vidor, la prima volta insieme con il pittore Vincenzo Dai Destri. Il 12 sett. 1496 era presente nella cittadina di Paese, presso Treviso, dove fece da testimone in un rogito stipulato nella chiesa parrocchiale; qualche giorno dopo, il 19 settembre, ottenne da certo Berto de Villa un caratello di vino, salvo regresso a favore del massaro della chiesa di Paese e l'esattore della Scuola di S. Martino. Morì a Treviso tra il 29 maggio e il 26 ott. 1497 (Nepi Scirè, pp. 35-37).

L'ipotesi di identificare G. con Girolamo Pennacchi nacque verso la fine dell'Ottocento, sulla scorta delle ricerche archivistiche di Biscaro e di Paoletti - Ludwig. Nel 1931 veniva riconsiderata, ma con molte cautele, da Zocca, che preferiva mantenere il nome di comodo di Girolamo da Treviso. Questa identificazione si fonda sul suo testamento, nel quale Girolamo Pennacchi ricordava di aver fatto dei lavori a Padova per certo "misser Lucha Arian da Venezia" (Nepi Scirè, p. 39). La notizia troverebbe riscontro nella prima opera firmata da G., il S. Girolamo nel deserto un tempo nella raccolta di Giuseppe Piccinelli a Seriate presso Bergamo e attualmente di ubicazione sconosciuta: la tavola recava sul retro una scritta secondo la quale l'opera era stata eseguita nel 1475 a Padova, nel convento degli eremitani (Crowe - Cavalcaselle, p. 59 n. 4). A ciò Zocca (p. 389) aggiungeva che l'evidente influsso dello stile di Alvise Vivarini sulle opere firmate "Hieronimus Tarvisio" poteva trovare una giustificazione nel fatto che Girolamo Pennacchi nel 1493 aveva lavorato al fianco di Alvise a Venezia.

La debolezza di queste prove ha favorito il recupero dell'ipotesi a favore di Girolamo Strazzaroli, il cui nome era stato avanzato già nel 1803 da Federici, ed è stato poi ripreso dagli studi di Coletti, Nepi Scirè e Fossaluzza. L'argomentazione si basa sulla coincidenza tra la presenza dello Strazzaroli nel settembre del 1496 a Paese e la collocazione nella parrocchiale di quella stessa cittadina di una pala firmata da G., il S. Martino e il povero; secondo questa ipotesi il caratello di vino che lo Strazzaroli ottenne in quella stessa occasione non poteva essere altro che un acconto del pagamento per la suddetta pala (Coletti, 1953, p. LXXXIII n. 73). Si è inoltre provato che anche lo Strazzaroli fosse in stretti rapporti con Alvise Vivarini, visto che quest'ultimo il 1° dic. 1489 compare tra i padrini di battesimo del figlio di G. (Nepi Scirè, p. 36). Più recentemente, la precisazione della data di nascita dello Strazzaroli al 1451 - segnalata da Fossaluzza (Treviso, 1990, p. 561 n. 31), ma già nota a Serena (p. 343) - ha portato ad attribuire al pittore di Aviano gli affreschi e la pala raffigurante la Madonna col Bambino e i ss. Giovanni Battista, Gregorio Papa, Antonio Abate e Giacomo Apostolo un tempo nella cappella di S. Giovanni Battista di patronato Spineda in S. Nicolò a Treviso, entrambi scomparsi, ma testimoniati da Federici (p. 215), secondo il quale la tavola recava la solita firma e l'anno 1470. La datazione precoce esclude, infatti, la paternità di Girolamo Pennacchi, allora solo quindicenne, e induce a credere che il pittore che aveva usato quella firma nel 1470 possa essere lo stesso che la utilizzò poi nelle altre opere. Quella di Girolamo Strazzaroli è dunque un'ipotesi maggiormente articolata e basata su riferimenti documentari più attendibili, per quanto ancora non del tutto esaustivi: anche, infatti, a voler dar credito alla testimonianza di Federici sulle opere del 1470, è quantomeno curioso che a un pittore esordiente e ancora giovanissimo venissero affidate la pala d'altare e l'intera decorazione di una cappella gentilizia, quando poi occorre aspettare il 1487 (la Madonna del Fiore nel duomo di Treviso) per ritrovare una commissione di analoga importanza.

A dire il vero, è stata avanzata anche una terza possibilità, quella cioè di una divisione del corpus delle opere firmate in due gruppi: l'ipotesi, accennata per primo da Fiocco, è stata ripresa, ma in termini diversi, da Longhi e poi argomentata compiutamente da Lucco (I, pp. 156 s.). Alla base di tale supposizione c'è il riscontro di una dicotomia stilistica delle opere in questione. Pur su una base culturale pressoché identica, esse mostrerebbero infatti due approcci formali distinti: il primo, caratterizzato dall'appartenenza all'ambito mantegnesco e padovano, dovrebbe spettare a Girolamo Pennacchi; il secondo, legato maggiormente alle tendenze muranesi e vivariniane, dovrebbe competere a Girolamo Strazzaroli. L'ipotesi si scontra, però, con il fatto che tutte queste opere hanno una firma pressoché identica ed è difficile credere che due pittori omonimi e attivi negli stessi anni, oltretutto nella stessa città, usassero anche la stessa sottoscrizione. Inoltre, le analisi di Zocca e di Fossaluzza hanno confermato l'esistenza di indiscutibili analogie, sia formali sia compositive, tra le opere dei due gruppi, ribadendo dunque l'unitarietà del percorso stilistico di G., chiunque esso sia. Per altro verso l'indicazione di Lucco ha avuto il merito di ricordare che, anche qualora la questione si risolvesse decisamente a vantaggio di uno dei due pittori, essa non si potrebbe dire completamente risolta, perché l'altro artista sarebbe destinato a rimanere un pittore ben documentato ma senza opere. Messe a confronto le diverse posizioni e considerati i dati a disposizione, allo stato attuale degli studi l'ipotesi che riconosce in G. la figura storica di Girolamo Strazzaroli sembra essere la più ragionevole. A dispetto di ciò, la scomparsa di un capitolo fondamentale come gli affreschi e la pala di S. Nicolò, la dispersione del S. Girolamo già Piccinelli, con l'annesso riferimento ai lavori padovani, e infine lo status precario e non conclusivo della documentazione a favore del pittore di Aviano, suggeriscono di trattare ancora sotto il nome convenzionale di G. il gruppo dei dipinti firmati "Hieronimus Tarvisio".

La prima opera nota di G. è dunque il S. Girolamo nel deserto, un tempo nella collezione Piccinelli.

Secondo la testimonianza di Crowe e Cavalcaselle (p. 59 n. 4), si trattava di un dipinto a tempera su seta, firmato e datato 1475. Le fotografie (Zocca, p. 389 fig. I) tramandano una figura irsuta, dall'anatomia tormentata e dal modellato metallico, inserita in un paesaggio di rocce sovrapposte e scheggiate, confrontabile col S. Girolamo di Marco Zoppo alla Pinacoteca nazionale di Bologna (1471) e comunque indizio di una formazione dell'artista circoscrivibile all'ambito padovano-squarcionesco.

La firma e la data 1478, oggi abrase ma ricordate da Federici (p. 217), segnavano la tavola a tempera con la Dormitio Virginis, conservata presso la Cassa di risparmio della Marca Trevigiana a Treviso. Qui il dato mantegnesco appare mitigato dalla trasparenza del colore e dalla luminosità più diffusa, che rivelano un G. attento al corso della pittura veneziana, da Giovanni Bellini al giovane Alvise Vivarini.

Appartiene a una fase di poco più avanzata il Cristo morto sorretto da due angeli, una tempera su tavola, pure firmata, conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano.

Esemplato sul rilievo di Donatello (Donato Bardi) all'altare del Santo (1446-50), il Cristo morto conserva gli elementi della tradizione squarcionesca che lo avvicinano alla Pietà di Marco Zoppo al Museo civico di Pesaro (1471) o alle opere d'ispirazione mantegnesca di Bartolomeo Vivarini, accomunate anche dalla stessa drammatica espressività, come il polittico per la Scuola dei tagliapietre del 1477 (Venezia, Gallerie dell'Accademia) o il trittico di S. Giovanni in Bragora a Venezia del 1478. Tuttavia lo studio aggiornato della luce, che conferisce un efficace risalto plastico, consiglia di collocare il Cristo morto di Brera subito dopo il momento più padano del S. Girolamo e della Dormitio.

Contemporaneo doveva essere un affresco di identico soggetto segnalato da Zocca (p. 390) su uno dei pilastri della chiesa degli eremitani a Padova, andato distrutto nel 1944.

Intorno ai primi anni Ottanta deve datarsi anche la Pietà dell'Accademia Tadini di Lovere, una tempera su tavola firmata, dove all'iconografia centrale del Cristo sorretto nel grembo della Madre, che richiama i tragici Vesperbilder della scultura lignea tedesca e a cui ben si accordano la definizione secca dei volumi e le forme angolose delle membra, fa riscontro il piacevole paesaggio castellano dello sfondo, di chiara matrice belliniana.

Della prima metà del nono decennio sono due tavole firmate raffiguranti entrambe la Madonna col Bambino, una della collezione Kress all'Art Museum di Portland nell'Oregon, l'altra del Museo di belle arti di Budapest. L'accostamento stilistico verso Alvise si avverte più direttamente nella Madonna di Portland, dove la firma è scomparsa con la pulitura del 1957 (Shapley): qui il contorno fermo e nitido di origine padovana è messo al servizio di una sintesi volumetrica che ricorda Antonello da Messina, avvertibile nella tornitura e nella levigatezza delle forme e nella forte direzionalità della luce. Identica formulazione si riscontra nel S. Sebastiano dell'Accademia Tadini di Lovere, una tavola non firmata, ma il cui stile è prossimo a quello delle opere di G. dei primi anni Ottanta.

La Madonna di Budapest presenta, invece, un impianto più complicato, forse arricchito sulla base di esempi belliniani; e per questo secondo Fossaluzza (Treviso, 1990, p. 563 n. 41) è databile a qualche anno più tardi.

Intorno al 1485 deve collocarsi il frammento di tavola con la testa di S. Antonio Abate, ora al Museo civico di Treviso, dove si ritrova l'insistenza calligrafica nei lineamenti e il trattamento filiforme della barba e dei capelli, arricchiti di riflessi luminosi: un aspetto che induce a considerare i possibili rapporti di G., oltre che con Bartolomeo Vivarini, anche con Andrea da Murano, la cui attività si svolse in gran parte nel Trevigiano.

Attraverso l'imitazione diligente ma non passiva dei grandi modelli dell'arte sacra dell'area veneta, cioè Andrea Mantegna e Giovanni Bellini, G. era riuscito nel corso del nono decennio del Quattrocento a raggiungere una discreta posizione nell'ambito del mercato artistico, seppure limitato al circuito trevigiano. Lo dimostra la commissione da parte del canonico Pietro Dalle Laste della pala d'altare per la cappella della Madonna degli Angeli del duomo di Treviso, raffigurante la Madonna col Bambino in trono, i ss. Sebastiano e Rocco e due angeli musicanti. La grande tavola a olio, meglio nota come la Madonna del Fiore, presenta un cartiglio sul trono con la firma e la data 1487.

Costruita secondo lo schema belliniano della perduta pala nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia (1470 circa), l'opera è sicuramente riuscita nella disposizione pausata delle figure statuarie e nell'ariosa spazialità dell'architettura, aperta quasi a padiglione sotto una leggera volta a vela, simile a quella creata da Bartolomeo Cincani, detto il Montagna, nella pala per la chiesa di S. Bartolomeo a Vicenza e ora nel locale Museo civico (1484 circa). Non scompare però il retaggio della cultura padovana, visibile negli ornati di vasi, foglie e frutti dei pilastri e della base del trono, oppure negli alati putti tubicini che cavalcano delfini alla sommità del baldacchino; esempio, per certi versi precoce, di quella cultura antiquaria che a Treviso trovò fertile terreno di diffusione nell'ambito delle arti figurative, dalle miniature del Maestro dei Putti ai bassorilievi di Pietro e Tullio Lombardo nella tomba Zanetto nel duomo (1485-88), fino alle decorazioni esterne dei palazzi nobili prodotte dalla bottega dei Pennacchi (Gentili, p. 33). Insieme con la pala di Bartolomeo Montagna, la Madonna del Fiore costituiva dunque quanto di più aggiornato si trovasse nell'entroterra veneto in fatto di tipologia compositiva della pala d'altare, confermando indirettamente la vivacità culturale dell'ambiente trevigiano di fine Quattrocento, dominato dalla figura di Nicolò Franco, vescovo di Treviso dal 1485 al 1499.

Ispirata al prototipo di Giovanni Bellini, ora al Museo nazionale di Capodimonte a Napoli (1480-85), è la Trasfigurazione delle Gallerie dell'Accademia di Venezia.

La tavola a forma di lunetta, non firmata, era in origine la cimasa di un complesso collocato sull'altare fatto erigere da Vittore da Norcia in S. Margherita a Treviso. Nell'incorniciatura marmorea dell'altare, oggi perduto, si trovava iscritto l'anno di edificazione, 1488, e perciò anche il dipinto non dovrebbe allontanarsi molto da questa data (Nepi Scirè, p. 30). I curiosi effetti di cangiantismo nelle vesti di Mosè e di Elia e la vivace articolazione delle pieghe sconvolte dal vento costituiscono una soluzione inedita, almeno rispetto alle opere più venezianeggianti di G., tanto da suggerire a Fiocco (p. 100) l'ipotesi di trovarsi di fronte a un pittore diverso. In realtà la nitidezza "glittica" del modellato, la dura incisione del segno, la cromia limpida e squillante, che confermano la citazione di Girolamo da Cremona (ibid.), sono ancora parte dell'eredità della formazione padana. Oltretutto, come acutamente segnalava Zocca (p. 395), vi sono stringenti somiglianze con la Madonna del Fiore: la testa del profeta Elia sulla destra è identica a quella di s. Rocco, la posizione della gamba di Mosè è uguale a quella di s. Sebastiano, simili ancora sono le forme delle mani e delle nuvole. Le due tavole sono evidentemente opera dello stesso pittore, che proprio negli anni tra il 1485 e il 1490 portava a completa maturazione i diversi suggerimenti che gli venivano da una formazione ricca ed eclettica, in cui i due poli, Padova (con Mantegna) e Venezia (con Giovanni Bellini), finivano per integrarsi grazie anche alla mediazione delle opere trevigiane di Alvise Vivarini.

La rimanente attività di G. si mantenne però al di sotto di questa felice congiuntura, attestandosi su posizioni tradizionali e arcaizzanti, non più al passo con i moderni sviluppi della cultura figurativa lagunare e allineata piuttosto su un'infiacchita interpretazione dello stile di Alvise.

Firmata e datata 1494 è la Madonna col Bambino in trono tra s. Francesco, s. Prosdocimo, un santo vescovo francescano e s. Antonio da Padova, ora alle Gallerie dell'Accademia di Venezia.

La tavola era originariamente collocata nel castello di S. Salvatore di Collalto, presso Susegana, forse nella cappella di S. Giovanni, oppure in quella della S. Croce (Nepi Scirè, p. 32 n. 16). I santi, disposti secondo lo schema compositivo del trittico di Giovanni Bellini ai Frari di Venezia (1488), sono costruiti con una sapienza volumetrica di sapore antonelliano, ma sono costretti in uno spazio più ridotto rispetto alla Madonna del Fiore e si stagliano contro un fondale anomalo, costituito da una fuga prospettica di edifici che sembra ricordare gli scenari teatrali. In quest'opera G. avvia la tendenza a stingere i colori, prima sempre brillanti, e a far emergere le terre brune, cosicché l'effetto finale risulta pallido e dimesso, più delicato, ma anche meno vivace.

Alla fase estrema dell'attività del trevigiano dovrebbe appartenere il S. Martino e il povero, della parrocchiale di Paese. La tavola è firmata e, se fosse giusta l'identificazione di G. con Girolamo Strazzaroli, sarebbe databile esattamente al settembre 1496, quando questi è documentato a Paese (Nepi Scirè, p. 37).

La bella figura del santo a cavallo, di una compostezza ancora memore del magistero belliniano, è però contratta in uno spazio angusto, dove sembra non esserci distanza tra i due protagonisti in primo piano e la chiesa posta sullo sfondo.

Di difficile datazione, ma probabilmente degli anni Novanta, è la Madonna col Bambino in trono e i ss. Vigilio, Antonio Abate, Maria Maddalena e Lucia, eseguita per la cappella di San Vigilio di Guarda, presso Montebelluna, oggi conservata nella sacrestia dei canonici della cattedrale di Treviso (parte del Museo diocesano d'arte sacra).

La tavola, firmata sul gradino del trono ma non datata, fu commissionata secondo Federici (p. 217) dal vescovo Nicolò Franco e andrebbe quindi datata a dopo il 1485: concordano su questa notizia Coletti (1926, p. 94), Nepi Scirè (p. 32) e Fossaluzza (Treviso, 1990, pp. 563 s. n. 52) che, sia pur con qualche differenza, propendono per una datazione posteriore alla pala di Collalto del 1494. Diversamente Lucco (p. 166 n. 33), riscontrando somiglianze più strette con la pala che Alvise Vivarini aveva spedito nel 1480 a S. Francesco a Treviso, ora alle Gallerie dell'Accademia di Venezia, e con il trittico eseguito da Bartolomeo Vivarini per i Frari di Venezia (1482), è indotto a sconfessare la notizia di Federici e a sostenere una datazione alla prima metà degli anni Ottanta, accanto al S. Sebastiano di Lovere o alla Madonna di Portland. La soluzione anticipata, se permette di giustificare la vicinanza con lo stile pungente e fortemente espressivo di Andrea di Giovanni da Murano (Fossaluzza, 2000), non dà però conto della scelta cromatica più acida e smorzata, con un prevalere dei bruni e delle terre opache, che trova un possibile riscontro solo nelle opere di Collalto e di Paese.

Fonti e Bibl.: D.M. Federici, Memorie trevigiane sulle opere di disegno, I, Venezia 1803, pp. 215-218, 236 s.; J.A. Crowe - G.B. Cavalcaselle, A history of painting in North Italy (1871), a cura di T. Borenius, II, London 1912, pp. 58-61; G. Biscaro, Note e documenti per servire alla storia delle arti trevigiane, II, La facciata della casa Barisan in piazza del duomo e gli affreschi del monumento Onigo a S. Nicolò, Treviso 1897, pp. 33 s., 48-51; P. Paoletti - G. Ludwig, Neue archivalische Beiträge zur Geschichte der venezianischen Malerei, in Repertorium für Kunstwissenschaft, XXII (1899), p. 271; A. Serena, La cultura umanistica a Treviso nel secolo decimoquinto, Venezia 1912, pp. 117, 119-122, 310 s., 343; L. Coletti, Treviso, Bergamo 1926, pp. 92-95; G. Fiocco, Pier Maria Pennacchi, in Rivista dell'Istituto di archeologia e storia dell'arte, I (1929), pp. 99-102; E. Zocca, G. da T. il Vecchio, in Bollettino d'arte, XXV (1931), pp. 388-397; L. Coletti, Catalogo delle cose d'arte e di antichità d'Italia, VII, Treviso, Roma 1935, pp. 42, 84, 116, 170-172; R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946), Firenze 1985, pp. 14, 227; L. Coletti, Pittura veneta del Quattrocento, Novara 1953, pp. LV, LXXXIII; B. Berenson, Italian paintings of the Renaissance, I, London 1957, p. 89; F. Heinemann, Giovanni Bellini e i belliniani, I, Venezia 1962, pp. 237 s.; F.R. Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress collection. Italian schools XV-XVI century, London 1968, p. 50; G. Nepi Scirè, Appunti e chiarimenti su G. da T. il Vecchio (Gerolamo Aviano o Gerolamo Pennacchi?), in Notizie da Palazzo Albani, II (1973), 3, pp. 27-39; A. Gentili, I giardini di contemplazione. Lorenzo Lotto, 1503/1512, con la collaborazione di M. Lattanzi e F. Polignano, Roma 1985, pp. 18-20, 33, 68-70; M. Lucco, Pittura del secondo Quattrocento nel Veneto occidentale. Treviso, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, Milano 1987, I, pp. 156 s., 162, 166; II, p. 649; G. Fossaluzza, Treviso, in La pittura nel Veneto. Il Quattrocento, II, Milano 1990, pp. 544, 546-549, 551, 553 s., 556, 560-564, 568, 571 (con bibl.); Id., in Pinacoteca di Brera. Scuola veneta, Milano 1990, pp. 464 s.; Id., in Da Paolo Veneziano a Canova. Capolavori dei musei veneti restaurati dalla Regione del Veneto 1984-2000 (catal.), a cura di G. Fossaluzza, Venezia 2000, p. 92; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXVI, p. 381 (s.v. Pennacchi Gerolamo da Treviso); The Dictionary of art, XII, p. 735.

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