Benivieni, Girolamo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Benivieni, Girolamo

Giancarlo Mazzacurati

Al B., giunto ormai in età piuttosto avanzata (era nato nel 1453 e morirà solo nel 1542) toccò il destino di fungere da tramite tra due distanti e solo apparentemente indipendenti stagioni della cultura accademica fiorentina, quella che si esaurisce nel decennio 1490-1500, e quella che riprende, sotto gli auspici di Cosimo, nel 1540. Si era formato all'ombra dell'Accademia Platonica, tra le suggestioni ficiniane e landiniane (che l'avevano tra l'altro ricondotto ai classici volgari del Trecento): ma per lui (che non fu tra gl'intimi del Ficino) il rapporto più determinante fu quello con Giovanni Pico della Mirandola, col quale collaborò intensamente, rimanendo per sempre segnato dalla sua personalità irrequieta e vivacemente problematica. L'interesse per D. (autore già presente alla sua giovinezza di poeta in volgare) si fa particolarmente vivo negli anni che seguirono la tragica conclusione dell'avventura savonaroliana, alla quale egli aveva partecipato fin dall'inizio con un sincero desiderio di rigenerazione morale, di pacificazione politica, di palingenesi religiosa. Anche per questo la Commedia divenne presto per lui (e per molti suoi contemporanei) un testo per più versi esemplare: lo rivendicherà alla sua città, alla sua cultura e alla sua storia angosciosa, premettendo all'edizione giuntina del 1506 (della quale non deve sfuggire il carattere antagonistico nei confronti di quella aldina del 1502) un capitolo in terza rima intitolato Cantico di Jeronimo B. fiorentino in laude dell'eccellentissimo poeta D.A., che rientrerà nelle successive edizioni delle sue opere, da quella giuntina del 1519 a quella veneziana del De Gregori (1524).

Nel colloquio con l'antico poeta che conclude la sua visione, il B. ricorda che quella stessa patria che gli fu ostile ora ha fatto della sua opera un simbolo: " La patria ch'a me madre, a te noverca / fu et non è, con sì benigno stile / or le sue condition travaglia e merca, / ch'el suo fero Leon, ch'ogni altro a vile / aver solea, e che sì crudo et acro / fu in te, or come agnel s'è fatto umìle. / Ch'el dolce suon del tuo poema sacro / al quale ha posto mano e ciel e terra / e che molt'anni già ti fece macro, / vinta ha la crudeltà che allor ti serra / fuor dell'ovile, ove dormivi agnello / nimico a' lupi che gli facien guerra. / Ond'or non pur sotto il suo grato vello / t'accoglie e nel suo sen; ma del tuo pregio / della tua gloria ogn'or si fa più bello ".

A questa edizione il B. aggiunse in appendice il Dialogo di A. Manetti circa al sito, forma et misura dello Inferno, da lui redatto sulla base di documenti e abbozzi rimasti inutilizzati dopo la morte del noto matematico (1497), del quale fu intimo. Il Dialogo (ne esistono stampe a parte, forse dello stesso anno) segna l'avvio di una nuova e secolare quaestio dantesca, i cui elementi erano stati però sparsamente anticipati dai commentatori antichi e in particolare dal Landino, che del resto riconosce proprio al Manetti la paternità dei fondamentali elementi della sua indagine cosmografica. L'attività letteraria del B. va diradandosi, nei decenni successivi: ma gli scarsi documenti che ce ne restano rivelano in lui la crescita di un vero e proprio mito dantesco, condiviso del resto (anche se si lamenta una carenza di indagini in tal senso) da tutti coloro che erano rimasti in qualche modo segnati dall'esperienza savonaroliana. Quando fu ristabilita (sotto gli auspici della Sacra Accademia Medicea) una parvenza di vita culturale collettiva e ufficiale, il B. si fece promotore (tra il 1515 e il '19) di nuovi tentativi (dopo quello già effettuato quando Bernardo Bembo era ambasciatore a Firenze) per ottenere il trasferimento dei resti di D. a Firenze: in una lettera del 1519, inviata a questo fine a Leone X, figura la sua firma insieme a quella di Michelangelo. In un tempo imprecisabile (secondo alcuni dopo la pubblicazione delle Prose del Bembo) il B. teneva colloqui di argomento dantesco: ce ne resta memoria (forse per merito del nipote Antonio) in alcune anonime e sommarie redazioni di una sua vita. I frammentari giudizi del B. (a volte, vere e proprie confessioni da autobiografia intellettuale) restano il documento più vivace e criticamente significativo della funzione che l'opera dantesca ha assolto nella cultura e nella società fiorentina, nel quarantennio che s'apre come uno iato tra i due momenti più vivi della sua storia rinascimentale, tra l'Accademia Platonica e l'Accademia Fiorentina del 1541.

Il B. dà qui ragioni critiche alla fede totale e confidente nel messaggio dantesco, di cui aveva già dato prova nel Cantico del 1506; e anticipa in nuce molti dei temi che saranno al centro del dibattito critico sulla Commedia nel pieno Cinquecento. Insiste sul carattere atipico e nuovo della poesia dantesca, sul valore esemplare che fin dai primi anni ebbe per lui la lettura di questo " Christiano dicitore principale ", sulla distinzione tra D. poeta e D. personaggio, sul significato del suo realismo rappresentativo, sullo stacco repentino e definitivo che l'opera di D. rappresentò (anche attraverso la scelta di Virgilio come guida e modello) nei confronti dei miti ingenui e acritici, del fiabesco edonismo di tutta la letteratura epica medievale: " O veramente nuovo, veramente giovevole concetto di Poeta penetrante dal centro dell'abisso in grembo, in seno a Dio, al quale fu degli umani intelletti solo quello di Dante proporzionato, che lasciato da l'una parte le lancie in nella resta, le fat, gli incanti, lasciando in posa Carlo e que' tanto favoleggiati paladini Lancillotto, Tristano e gli altri erranti, consueti e volgari soggetti di tutti i dettatori in qualsivoglia idioma, come Christiano dicitore principal, così primo trovò a tal nome conforme argomento... et come della Filosofia; che era la miglior maestra a quel tempo, si dicono avere fatto i migliori e più antichi poeti, così sotto piacevole velame, con la vaghezza della Poesia, ne imprime questi in coloro che sono del suo poema vaghi e' più rilevanti misteri della Christiana filosofia ". Sulla scia di un'interpretazione ancora umanistica del " poeta teologo ", il B. ripropone insomma la Commedia come il modello di quella nuova scienza poetica tutta permeata di spiritualità cristiana che sembra implicitamente disegnato nell'Apologeticus del Savonarola.

Bibl. - D.A., Divina Commedia, F. Giunta, Firenze 1506, preceduta dal Cantico di J.B. fiorentino in laude dell'eccellentissimo poeta D.A., e seguita dal Dialogo di A. Manetti circa al sito, forma et misura dello Inferno, scritto dal B. (e se ne veda la riedizione moderna a c. di N. Zingarelli, negli " Opuscoli danteschi ", Città di Castello 1897; il Cantico invece è stato ripubblicato a parte dal Del Balzo, in Poesie di mille autori intorno a D., Roma 1893, IV 341 ss.). Il Discorso sopra la Comedia di D. A., fu pubblicato da L. Greco, in " Giorn. d. " V (1897) 511-518, con tre pagine di introduzione: fu estratto dal cod. Marucelliano A 137 di Firenze (ff. 133v-139), dove è incluso in una più ampia Vita di G.B. (ff. 124-153v). A parte gli accenni reperibili in monografie come quelle di C. Re (G. B. fiorentino, Città di Castello 1906, 119-120, 293-296) o di A. Pellizzari (Un asceta del Rinascimento, in Dal Duecento all'Ottocento, Napoli 1914) rinviamo, per lo specifico tema, a B. Weinberg, A history of literary criticism in the Italian Renaissance, Chicago 1961, I 383-384; C. Dionisotti, D. nel Quattrocento, in Atti del Congresso internazionale di Studi Danteschi, Firenze 1965, I 377-378; E. Bigi, D. e la cultura fiorentina del Quattrocento, in " Giorn. stor. " CXLIII (1966) 239-240; G. Mazzacurati, D. nell'Accademia Fiorentina (1540-60), in " Filologia e Letteratura " XIII (1967) 279-284. Per l'ambiente (in mancanza di un'indagine specifica sulla cultura letteraria dei savonaroliani) si rinvia a E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento ital., Firenze 1961, 127-230. A questo si aggiungano le notizie e i documenti raccolti da P.O. Kristeller, F. da Diacceto and fiorentine platonism in the XVIth century, in Studies in Renaissance thought and letters, Roma 1956, 301-303, 323-330.

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