Giovenale

Enciclopedia Dantesca (1970)

Giovenale (Iuvenale)

Ettore Paratore

Sulla base di quanto molti ritengono per Persio (cioè una conoscenza indiretta attraverso citazioni del poeta satirico esistenti in testi molto più tardi e sicuramente noti a D.), uguale sospetto si potrebbe avanzare per G., anche lui poeta satirico e non molto posteriore a Persio, a lui collegato per numerose peculiarità stilistiche e numerosi spunti tematici, e - cosa che d'altro canto rende perplessi di fronte alla tesi di una conoscenza solo indiretta da parte di D. - come lui assiduamente letto nel Medioevo, non foss'altro che per il rigoroso contenuto morale dell'opera sua. In realtà il carattere dei riscontri facilmente documentabili impone di ritenere che G. fosse direttamente noto anche a Dante.

Cominciamo da Cv IV XII 8, dove G. è citato accanto a Cicerone, a Boezio, a Seneca e a Orazio fra gli autori classici che hanno tuonato contro la cupidigia delle ricchezze. Mentre dei due primi si trascrivono due passi, rispettivamente dei Paradoxa (citato da D. come quello De Paradoxo) e del De Consolatione, degli altri non si ricordano specifici luoghi (anche se il commento al luogo di Boezio attribuito a s. Tommaso cita proprio Seneca). E. Proto, come ricorda il commento di G. Busnelli e G. Vandelli, adduce (in " Giorn. stor. " LXXXV [1908] 57 ss.) Giov. I 87 ss. (" quando / maior avaritiae patuit sinus? "), III 143 ss. (" Quantum quisque sua nummorum servat in arca / tantum habet et fidei "), VI 294-300 (" Nullum crimen abest facinusque libidinis, ex quo / paupertas Romana perit... / Prima peregrinos obscaena pecunia mores / intulit, et turpi fregerunt saecula luxu / divitiae molles "), X 12 ss. (" Sed plures nimia congesta pecunia cura / strangulat et cuncta exuperans patrimonia census "), XIV 135 ss. (" Sed quo divitias haec per tormenta coactas, / cum furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis, / ut locuples moriaris, egentis vivere fato? / interea, pleno cum turget sacculus ore, / crescit amor nummi, quantum ipsa pecunia crescit, / et minus hanc optat, qui non habet "). Di questi passi il secondo, quello di III 143-144, era evidentemente noto forse anche in florilegi, come testimoniano citazioni anche in secoli posteriori, per es. in un sermone in latino (Quae multi, cod. Bibl. Nazionale di Parigi, lat. 3546, f. 90r) e in un sermone in francese (Gloria et, Parigi, Bibl. Naz. lat. 3546, f. 79r) di Jean Courtecuisse. Se ne può dedurre che fosse proprio questo il luogo giovenaliano consultato anche da D. e si può sospettare che anch'egli ne fosse venuto a conoscenza attraverso florilegi; e uguale ipotesi si può fare per XIV 135 ss., anch'esso riecheggiato in numerosi testi medievali. Infatti se quelli ora ricordati di G. sono evidentemente passi che giustificano ad abundantiam il ricordo di D., poco più giù, nel medesimo capitolo, là dove si legge onde Seneca dice: ‛ Se l'uno de li piedi avesse nel sepulcro, apprendere vorrei ', si deve constatare in D. un'arbitraria citazione, perché il passo latino corrispondente, come ha visto il Proto (op. cit., p. 227), è negli Ammaestramenti degli antichi di fra Bartolomeo da S. Concordio, che cita un luogo del Digesto ove la sentenza riferita da D. è anonima: sì che si è pensato a un errore del poeta, che, citando a memoria, ha attribuito arbitrariamente il testo a Seneca, anche perché in Ep. LXXVI si legge qualcosa di analogo. Pertanto si potrebbe pensare che anche qui la citazione di G., mancando un riscontro preciso, dipenda da conoscenza indiretta, forse attraverso florilegi, tanto più che, postulando una lettura di Giovenale da parte di D., dovremmo stupirci di non veder mai ricordati i nomi che nel poeta satirico sono i più significativi, come il Nevolo della satira nona, o Messalina (VI 115-132), che avrebbe potuto trovare così facilmente posto nel cerchio dei lussuriosi. Quanto a Domiziano, egli è, sì, ricordato in Pg XXII 83, ma a proposito della sua persecuzione anticristiana (quando Domizian li perseguette), cioè non certo per un particolare che avrebbe potuto essere suggerito da G. (anche se il fatto che di G. e delle sue espressioni relative a Stazio si parla proprio in quel cantopotrebbe far supporre che il ricordo di Domiziano come malvagio persecutore sia stato ispirato anche dal duro giudizio che di lui danno le satire giovenaliane, benché la dipendenza più precisa sia dal Chronicon ieronimiano). Del resto quanto a Messalina bisogna tener presente che nel celebre brano della sesta satira non se ne fa mai il nome, mentre questo è ricordato in X 333 (" rapitur miser extinguendus / Messalinae oculis "), dove l'allusione alla lussuria dell'imperatrice è ricavabile più faticosamente da un contesto più oscuro. Al più si potrebbe pensare che dell'episodio di Messalina sia da sorprendere un'eco in un canto attiguo a quello in cui G. è nominato, in Pg XXIII 101-102 a le sfacciate donne fiorentine / l'andar mostrando con le poppe il petto, che potrebbe essere ritenuto derivante da VI 122-123 " tunc nuda papillis / prostitit ".

Ben diversa situazione ci è offerta da Cv IV XXIX 4-5. Ivi, ponendosi il quesito se si possa parlare in genere di trasmissione della nobiltà da un illustre padre alla discendenza (dato che l'anima è forma dell'individuo e non di una collettività), si cita per primo G., specificando esattamente la satira e il luogo (l'inizio) in cui si trova il brano parafrasato: A la prima questione risponde Giovenale ne l'ottava satira, quando comincia quasi esclamando: " Che fanno queste onoranze che rimangono da li antichi, se per colui che di quelle si vuole ammantare male si vive? se per colui che de li suoi antichi ragiona e mostra le grandi e mirabili opere, s'intende a misere e vili operazioni? Avvegna [che, " chi dicerà "], dice esso poeta satiro, " nobile per la buona generazione quelli che de la buona generazione degno non è? Questo non è altro che chiamare lo nano gigante! ". Poi appresso, a questo cotale dice: " Da te a la statua fatta in memoria del tuo antico non ha dissimilitudine altra, se non che la sua testa è di marmo, e la tua vive ". Dopo di che D. entra in polemica con G. aggiungendo: E in questo, con reverenza lo dico, mi discordo dal Poeta, ché la statua di marmo, di legno o di metallo, rimasa per memoria d'alcuno valente uomo, si dissimiglia ne lo effetto molto dal malvagio discendente. Però che la statua sempre afferma la buona oppinione in quelli che hanno udito la buona fama di colui cui è la statua, e ne li altri genera: lo ma[l]estr[u]o figlio o nepote fa tutto lo contrario, ché l'oppinione di coloro che hanno udito bene de li suoi maggiori, fa più debile; ché dice alcuno loro pensiero: ‛ Non può essere che de li maggiori di costui sia tanto quanto si dice, poi che de la loro semenza sl fatta pianta si vede '. Per che non onore, ma disonore dee ricevere quelli che a li buoni mala testimonianza porta. Qui sono parafrasati i vv. 1-24, 30-34, 54-55 dell'ottava satira giovenaliana: D. ha riassunto per sommi capi il testo latino. La ragione di questo procedimento può ravvisarsi nel fatto che D. ha forse voluto omettere una lunga serie di nomi illustri. Ma questa è una ragione che tuttavia ci si stupisce non abbia avuto alcun valore per lui in Cv IV V, dove è invece il lungo elenco di nobili romani famosi per atti di virtù (Fabrizio, Curio, Muzio Scevola, Torquato, Bruto il vecchio, i Deci, i Drusi, Attilio Regolo, Cincinnato, Camillo, Catone Uticense) - e quasi lo stesso è in Mn II V ss. -, per il quale egli ha scomodato varie fonti: in primo luogo il De Civitate Dei di s. Agostino (V 18); il De Senectute di Cicerone per Curio; Livio, Floro e Aurelio Vittore per Scevola; Livio per Torquato; Floro e Aurelio Vittore per Cincinnato; Floro, ma frainteso, per Camillo; il vir libro dell'Eneide (vv. 824-825) per la sostanza dell'elenco. Parimenti Cicerone, Livio, Virgilio e Floro sono alla base del passo della Monarchia, e i primi tre vi sono espressamente citati. Tuttavia, specie per Cv IV V, si potrebbe supporre un influsso complementare anche del luogo di G., quasi a compenso del fatto che qui i viri illustres non sono citati, in quanto anche in esso sono ricordati alcuni eroi presenti in quell'elenco: Curio (v. 4), Druso (vv. 21 e 41); e di Scevola si parla al v. 264, e dei Decii ai vv. 254 e 258, se non vogliamo poi ricordare che in II 153-154 si legge " Curius quid sentit et ambo / Scipiadae, quid Fabricius manesque Camilli ".

A ogni modo, quale che sia il corollario che noi vogliamo dedurre dall'omissione dei nomi illustri, nel luogo del Convivio sono espressamente trascritte le frasi più incisive che G. aveva dedicato all'aspetto morale del problema: Che fanno queste onoranze riproduce l'iniziale " Stemmata quid faciunt "; male si vive traduce " male vivitur " del v. 9; nobile per la buona generazione quelli che de la buona generazione degno non è richiama " quis fructus generis " del v. 6 e più ancora " generosum... qui indignus genere " dei vv. 30-31; Questo non è altro che chiamare lo nano gigante rende " Nanum cuiusdam Atlanta vocamus " del v. 32; e finalmente Da te a la statua fatta in memoria del tuo antico non ha dissimilitudine altra, se non che la sua testa è di marmo, e la tua vive - che è il punto fondamentale su cui verte la citazione, tanto da provocare anche lo spunto di discussione che abbiamo già riferito - è un'esatta versione dei vv. 54-55 " Nullo quippe allo vincis discrimine quam quod / illi marmoreum caput est, tua vivit imago ". A confermare che questi versi erano ben familiari a D. soccorre il fatto che in un altro luogo di Cv IV (XIV 9) si può sorprendere l'eco dei versi immediatamente successivi a quelli che abbiam visto ora tradotti in IV XXIX 5, cioè dei vv. 56-58 della satira ottava. Lì infatti D. dice: in ciascuna spezie di cose veggiamo l'imagine di nobilitade e di viltade: onde spesse volte diciamo uno nobile cavallo e uno vile (cfr. Giov. VIII 56-58 " Dic mihi, Teucrorum proles: animalia muta / quis generosa putet nisi fortia? nempe volucrem / sic laudamus equum "). Qui l'influsso di G. è innegabile, mentre non altrettanto certo è il contatto diretto in un passo che precede la citazione dell'episodio di Cesare e Amiclate nel V di Lucano (ove, a differenza di Pd XI 68, si adotta la forma " Amiclas " e non " Amiclate "), cioè in Cv IV XIII 12 (E però dice lo Savio: " Se voto camminatore entrasse ne lo cammino, dinanzi a li ladroni canterebbe "), col v. 22 della decima satira " cantabit vacuus coram latrone viator ", perché nel De Consolatione di Boezio (II V 22) si legge: " Si vitae huius callem vacuus viator intrasses, coram latrone cantares ". Ed è molto più naturale che D. tributi l'appellativo Savio a Boezio, piuttosto che a G., che altrove abbiam visto denominato più ovviamente Poeta (benché per D. anche i poeti siano saggi), sì che solo M. Scherillo (Alcuni capitoli della biografia di D., Torino 1896, 420) sostiene la dipendenza di D. da G., mentre quella da Boezio è affermata da R. Murari (D. e Boezio, Bologna 1905, 249), da E. Moore (Studies in D., I, Oxford 1906, 257), da P. Toynbee (Dictionary, voci Boezio e G.), da P. Mazzucchelli (Luoghi degli autori citati da D. nel Convivio, Padova 1827, 420) e da A.A. Fortescue nel suo commento al De Consolatione (Londra 1925, 46): cfr. Busnelli-Vandelli (ad l.), che sono anch'essi per la derivazione da Boezio, anche perché D. adopera come Boezio il periodo ipotetico, e non, come G., il futuro.

Questo esempio, insieme con le singolari omissioni della parafrasi in IV XXIX, potrebbe rafforzare l'ipotesi che anche del luogo della satira ottava D. possa avere avuto conoscenza attraverso un autore intermedio, che dei versi giovenaliani abbia stralciato solo le frasi direttamente riecheggiate da D.; per questo l'edizione Busnelli-Vandelli, mentre accetta e loda l'integrazione malestruo invece di maestro o mostro o nostro dei manoscritti (che pure potrebbe corrispondere a " Si cupidus, si / vanus " dei vv. 14-15 di G.), rifiuta l'integrazione che, " chi dicerà ", in quanto la considera escogitata proprio per creare un'altra esatta corrispondenza con " quis... dixerit " del v. 30 dell'ottava satira. A quest'atteggiamento dubitativo gl'illustri editori sono stati indotti anchedallo spunto polemico di D. contro G., che a loro è sembrato sorprendente, perché il poeta aquinate nei successivi vv. 68-70 e 74-77 dell'ottava satira dice espressamente quasi le stesse cose che osserva D. per ribattere il contenuto dei vv. 54-55. A noi non sembra tuttavia che questo possa essere indizio del fatto che D. leggesse versi staccati dell'ottava satira grazie a una citazione di scolii o di florilegi o di testi recenziori rimontanti al Medioevo: l'avere egli espressamente sottolineato che quei versi appartengono all'ottava satira e si trovano proprio all'inizio ci pare prova sufficiente del fatto che egli, almeno in questo caso, leggesse direttamente il testo di Giovenale. E tutti sanno quale sia spesso il comportamento singolare di D. di fronte ai testi classici, che egli si prende il gusto o di torcere a un senso che non è quello originario, o di commentare unilateralmente, o di limitare - come in questo caso - alla considerazione quasi tendenziosa di un solo particolare.

Il medesimo passo della satira vizi di G. torna a essere citato in Mn II III 4 Est enim nobilitas virtus et divitiae antiquae, iuxta Phylosophum in Politicis; et iuxta luvenalem: " nobilitas animi sola est atque unica virtus ". Quae duae sententiae ad duas nobilitates dantur: propriam scilicet et maiorum. Il v. 20 non era tra quelli che nel passo del Convivio erano stati più direttamente parafrasati da D.; quindi questa nuova citazione conferma che D. aveva effettivamente familiare almeno la satira vizi; anzi il fatto che egli trascriva il verso in una forma arbitraria (perché la sua autentica lezione è " atria, nobilitas, sola est atque unica virtus ") può far pensare che egli citasse addirittura a memoria. D'altro canto, il fatto che l'inesatta citazione sia tuttavia impeccabile sotto l'aspetto metrico può far sospettare che D. abbia desunto la citazione stessa da un testo in cui il verso di G. era già stato adeguatamente ritoccato.

Nella Commedia esiste il terzo luogo che autorizza a parlare di una precisa conoscenza di G. da parte di Dante. Nei canti XXI-XXII del Purgatorio, uno dei luoghi fondamentali del poema per stabilire i rapporti fra la Commedia e il mondo classico, la figura di Stazio comincia a profilarsi proprio sulla base del giudizio che G. ne ha dato nella satira VII, naturalmente preso alla lettera in senso positivo; e poi il colloquio fra Stazio e Virgilio è introdotto dalla menzione di Giovenale. Ai vv. 88-89 del canto XXI il poeta dice di sé (col famoso scambio fra il napoletano Papinio Stazio e il retore tolosano Stazio Ursulo, di cui s. Girolamo e Fulgenzio sono responsabili di fronte a D.): Tanto fu dolce mio vocale spirto, / che, tolosano, a sé mi traesse Roma. Qui è evidente il riferimento ai vv. 82-86 della VII satira giovenaliana: " Curritur ad vocem iucundam et carmen amicae / Thebaidos, laetam cum fecit Statius urbem / promisitque diem: tanta dulcedine captos / adficit ille animos tantaque libidine volgi / auditur ". Nessun migliore commento a questo riscontro di quello espresso da A. Ronconi (L'incontro di Stazio e Virgilio, in D. nella critica d'oggi, in " Cultura e Scuola " 13-14 [1965] 568-569): " Giovenale è qui richiamato in causa come quegli che ha citato Stazio nella Satira 7ª: e lo echeggia quasi compiaciuto lo Stazio dar, esco: ‛ Tanto fu dolce mio vocale spirto ' (XXI, 88) sarà ispirato appunto a Giovenale: curritur ad vocem iucundam et carmen amicae Thebaidos (7, 82 sg.). Stazio è ‛ lo dolce poeta ' anche in Conv. IV, XXV, 6 e alla sua ‛ dolcezza ' già alludeva lo stesso Giovenale: tanta dulcedine captos affidi ille animos (ivi, 84 sg.). Null'altro che questo ci spiega perché Dante abbia associato Giovenale a Stazio; e ancora i critici si sono affaticati intorno a questioni oziose, e si sono chiesti come mai Dante abbia fatto di Stazio un prodigo quando Giovenale lo dipinge povero, e se per caso codesta povertà non sia effetto appunto della prodigalità, il che col pensiero di Giovenale, inteso a mostrare come la poesia non produca ricchezze, non ha nulla a che vedere ". Ed effettivamente, quando si pensi che D. si è ispirato a Stazio per episodi o chiassosamente magniloquenti come quello di Capaneo o atroci come quello di Tideo e Menalippo, suggeritore di quello del conte Ugolino, la sua definizione di Stazio come ‛ dolce poeta ' non può non apparire come vincolata esclusivamente al giudizio di Giovenale. V. Tandoi (Il ricordo di Stazio " dolce poeta " nella sat. VII di G., in " Maia " XXI [1969] 122), che ci si meraviglia non citi lo studio del Ronconi, giudica che l'interpretazione in senso positivo che D. presenta delle espressioni di G. relative a Stazio - e che del resto è anche oggi l'interpretazione corrente - " non fu episodio a sé, nel XIII-XIV sec. ", bensì il prodotto di un'esegesi fiorita nell'autorevole centro culturale di Padova, sì che essa può essere giunta a D. da Albertino Mussato, attraverso il tramite di Giovanni del Virgilio.

Ai nostri fini non interessa assodare se l'interpretazione dantesca corrisponda ai reali intenti di G.; sia però concesso osservare per incidens che la tesi del Tandoi, sostenente che G. ha voluto profilare con acre ironia la poesia di Stazio come cortigianescamente vuota e tendente ad allettare gl'istinti peggiori del pubblico grosso con i vezzi della più sfacciata retorica, sembra troppo palesemente preconcetta e tendenziosa: lo studioso punta su vocaboli ed espressioni come " amicae ", " promisit... diem ", " dulcedine ", " libidine ", " fregit subsellia ", " intactam... vendit ", per concludere che G. ha giocato sulle parole per presentare Stazio sotto l'aspetto di un lenone, allo scopo di screditare il poeta più rappresentativo, nei suoi specifici gusti, dell'età dell'odiato Domiziano. Ma quest'interpretazione è fondata sulla troppo tenue base di due note di Nicola Rigault nell'edizione giovenaliana di Roberto II Estienne (Parigi 1613), che sono proprio il pedantesco abbaglio di un puro filologo prigioniero del senso letterariamente più tipico di certe parole, sì che R. Pichon (De Sermone amatorio apud Latinos elegiarum scriptores, Parigi 1902, 6), A. Weidner (ediz. delle Satire, Lipsia 1889², 149) e G. Highet (Juvenal the Satirist, Oxford 1954, 270-271) hanno più giustamente visto nel passo un innocente intento lusivo. Attribuire a G. un preciso intento antidomizianeo nella presunta stroncatura di Stazio ci sembra un voler caricare eccessivamente di motivi politici la poesia di un autore che nella satira settima sembra effettivamente animato da profondo spirito di corpo in favore dei suoi colleghi. Per giunta lo stesso Tandoi è costretto ad ammettere (p. 108) che " la vox iucunda generalmente indica senza dubbio un pregio ", che (p. 109) la dulcedo è stata idealizzata da Cicerone (De Orat. III XI 42 e XL 161) e ritenuta provvista di funzione psicagogica da Orazio (Ars poet. 99-100), e che (p. 120) l'esegesi di intacta negli scolii, cioè nondum recitata, è ineccepibile, sì da coinvolgere l'interpretazione letterale di vendit, che è confermata da Terenzio Hecyra 7 e 57. Non s'intende da ultimo come la lambiccata interpretazione del passo giovenaliano proposta dal Tandoi possa recare (p. 121) " nuova luce... al problema dell'unità e del significato della sat. VII ", quando l'unità, almeno per la parte relativa ai poeti, si salva solo rispettando la perfetta concordanza di tutte le argomentazioni e le osservazioni disseminate dal v. 36 al v. 97. Sin dall'inizio già ricorrono i vocaboli " dulcedine " (v. 39), " voces " (v. 44), " subsellia " (v. 45), che poi torneranno a proposito di Stazio (ed è strano che il Tandoi non lo noti); e all'inizio quelle parole illustrano gli sforzi che compie per farsi applaudire il ricco inuzzolito della fama di poeta, sì che, quando le medesime espressioni sono riadoperate per Stazio, ben si comprende come G. voglia contrapporre alla ridicola smania del riccone in fregola di poesia la triste sorte di veri poeti come Stazio. E si sottolinea che anche il " vates egregius " del v. 53, colui " cui non sit publica vena ", e che il Tandoi (p. 117) vorrebbe ritener contrapposto a Stazio, ha bisogno di sostentamento e soffre vedendosene privo (vv. 59-61 " neque enim cantare sub antro / Pierio thyrsumque potest contingere maesta / paupertas atque aeris inops, quo nocte dieque / corpus eget "), come d'altro canto persino per Orazio (v. 62) e per Virgilio (vv. 69-71 " Nam si Vergilio puer et tolerabile desset / hospitium, caderent omnes a crinibus hydri, / surda nihil gemeret grave bucina ") e per Lucano (vv. 79-80) si batte sul chiodo dell'agiatezza che ha permesso loro di poetare senza raggelanti preoccupazioni. R. Marache (La revendication sociale chez Martial et Juvénal, in " Rivista cult. classica e mediev. " III [1961] 32-38) - altro studio ignoto al Tandoi - ha ben visto che il motivo dominante nella settima satira di G. è la " misère du poète " e ha messo giustamente in rilievo (p. 57) che nessun vero movente politico ispira il poeta. E già prima M.A. Levi (Aspetti sociali della poesia di G., in Studi... Funaioli, Roma 1955, 175-176), anch'esso ignorato dal Tandoi, ha visto uguale motivazione nella satira settima (cfr. anche E. Flores, Origine e ceto di G., ecc., in " Annali Facoltà Lettere e Filosofia Napoli " XI [1962-63]). Dal vates egregius a Stazio la posizione del problema e la reazione morale non subiscono mutamenti. E al Tandoi è sfuggito ciò che i commentatori e il Ronconi (art. cit., p. 568) hanno notato per Pg XXII 10 ss., che cioè " come Francesca ha ricambiato l'amore di Paolo tosto che ha conosciuto i dubbiosi desiri, così Virgilio ha ricambiato quest'altro amore, acceso di virtù, quando gli è stato fatto palese da Giovenale, quasi Galeotto tra i due poeti: amore intellettuale (o amor virtuoso) e amor sensuale sono figurazione uno dell'altro: e l'immagine della fiamma dell'ispirazione poetica si trasferisce in un rapporto etico, diventa ‛ affezione ' e ‛ benevolenza ' che ‛ strinse ' Virgilio e Stazio (XXII, 17) sì come amore ‛ strinse ' Lancialotto (Inf., V 128) ". Sembra cioè che D. abbia acutamente avvertito il sottile gioco d'immagini erotiche tramato da G. nel luogo della VII satira per trasformarlo in omaggio alla suasiva temperie espressiva di Stazio (il contrario, cioè, di quello che ritiene il Tandoi), e si sia voluto comportare in maniera analoga piegando il linguaggio dell'amore cortese all'espressione di un ancor più elevato amore puramente intellettuale.

A ogni modo, sia esatta l'interpretazione che D. offre della VII satira o sia un abbaglio della scuola padovana a lui comunicato, non ci sembra che, sulla base di questa seconda interpretazione, si possa sospettare che anche il brano della VII satira relativo a Stazio sia potuto giungere a D. come un passo staccato fattogli pervenire indirettamente da Albertino Mussato. Anche qui la presenza di G. nello spirito di D. è troppo forte perché si possa escludere che l'Alighieri consultasse direttamente il testo del poeta aquinate. Lo confermano i vv. 13-17 di Pg XXII: da l'ora che tra noi discese / nel limbo de lo 'nferno Giovenale, / che la tua affezion mi fé palese, / mia benvoglienza inverso te fu quale / più strinse mai di non vista persona.

E quando si tenga presente che più giù, al v. 100, Virgilio ricorda, come altro suo compagno nel Limbo, Persio, il poeta satirico così affine a G., vien fatto di concludere che così D. abbia voluto parificare, avvicinandoli al suo maestro, due poeti di uguale carattere che gli erano entrambi familiari. Va anzi tenuta presente, pur senza condividerla, la tesi di P. Renucci (D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 328 ss.), che proprio sulla base del XXII del Purgatorio vuol postulare una detronizzazione di Orazio nello spirito di D. a favore di Stazio e di G., nel senso che il Venosino in Vita Nuova XXV e in If IV 89 è stato posto accanto a Virgilio, Ovidio e Lucano, mentre a partire dal De vulg. Eloq. e dal Convivio avrebbe ceduto il posto agli altri due poeti sopra ricordati. È facile rispondere: 1) che ciò comporterebbe l'insostenibile opinione che almeno i primi quattro canti dell'Inf erno fossero stati composti prima del De vulg. Eloquentia e del Convivio; 2) che Stazio, essendo stato posto da D. fra le anime penitenti, non avrebbe mai potuto occupare il posto di Orazio nel Limbo, sì che sa di espediente la trovata del Renucci di collocargli accanto G., perché espressamente ricordato da D. fra gli abitatori del Limbo, e perché, anche lui poeta satirico, poteva più facilmente esser visto come il sostituto di Orazio (e infatti poeta satiro lo chiama D. in Cv IV XXIX 4, con espressione che richiama Orazio satiro di If IV 89); 3) che Orazio è ancora espressamente ricordato in Cv II XIII 10 (sì come dice Orazio ne/ principio de la Poetria quando dice: ‛ Molti vocabuli rinasceranno che già caddero '), e ancora in IV XII 8, ove, come abbiamo già ricordato, è citato accanto a G. ed esattamente col medesimo giro di parole (quanto Orazio, quanto Iuvenale); in VE II IV 4 con un'espressione che lo pareggia addirittura a Virgilio (Hoc est quod magister noster Oratius praecipit, cum in principio poetriae ‛ Sumite materiam... ' dicit), per non parlare delle citazioni dell'Ars poetica nella discussa epistola a Cangrande.

I luoghi di cui abbiamo parlato sono, secondo la communis opinio, quelli che documentano la conoscenza di G. da parte di Dante. Ma nella ‛ lectura ' del XIV dell'Inferno (ora in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 241 e 246-247) E. Paratore ha dimostrato che ancora un altro luogo di G. è stato sfruttato nella Commedia. Trattasi del famoso passo del veglio di Creta (If XIV 94-111), la cui statua, d'oro nella testa, d'argento nelle braccia e nel petto, di rame infino a la forcata, di ferro nelle gambe, e di terracotta nel piede destro su cui la statua poggia di più, è evidentemente esemplata sul sogno di Nabuccodonosor nel Libro di Daniele (2, 31-40), in cui si parla della grande statua simboleggiante in quella precisa forma la decadenza dell'impero babilonese. Tuttavia in D. la statua del veglio di Creta adombra invece la decadenza dell'umanità. Quali che siano le interpretazioni che nei tempi si sono succedute (v. VEGLIO DI CRETA), se l'ipotesi del Paratore è vera, è indiscutibile la contaminazione operata da D. fra il Libro di Daniele e l'episodio ovidiano (Met. I 89-150) delle quattro età dell'uomo, nella loro progressiva sostituzione dell'argento all'oro, del rame all'argento e del ferro al rame. Ma Ovidio si ferma alla degradazione costituita dall'avvento del ferro; un altro poeta classico aveva affermato che l'umanità si era degradata anche peggio, scendendo al disotto dei metalli, a un'indicibile forma di natura: " Nonne (‛ non ' o ‛ nona ' o ‛ nunc ' nei codici) aetas agitur peioraque saecula ferri / temporibus, quorum sceleri non invenit ipsa, / nomen et a nullo posuit natura metallo? ". Questo poeta era stato G., ai vv. 28-30 della XIII satira. Quindi il particolare del piede di terracotta, suggerito dal Libro di Daniele, ha trovato possibilità di essere applicato alla visione ovidiana delle età dell'uomo, grazie all'incisivo tratto pessimistico fornito da G.: e che lo spirito di G. sia presente lo dimostra l'insistenza di D. sul fatto che la statua del veglio poggi proprio sul piede di terracotta. Che quest'ipotesi sia fondata lo prova anche il fatto che nel canto D. sceneggia la statua del veglio a Creta, negli anfratti del monte Ida: vv. 94-103 " In mezzo mar siede un paese guasto ", / diss'elli allora, " che s'appella Creta, / sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. / Una montagna v'è che già fu lieta / d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida; / or è diserta come cosa vieta. / Rëa la scelse già per cuna fida / del suo figliuolo, e per celarlo meglio, / quando piangea, vi facea far le grida. / Dentro dal monte sta dritto un gran veglio... ". È veramente sintomatico che il contenuto del v. 96 è ispirato all'inizio della sesta satira di G.: " Credo pudicitiam Saturno rege moratam / in terris "; per giunta - ed è conferma decisiva - proprio nella tredicesima satira si conferma che nell'età di Saturno il mondo s'ispirò a ideali di severa purezza e frugalità e si ricorda il mito del piccolo Giove nascosto nelle grotte dell'Ida: cfr. vv. 38-41 " Quondam hoc indigenae vivebant more, priusquam / sumeret agrestem posito diademate falcem / Saturnus fugiens, tunc cum virguncula Iuno / et privatus adhuc Idaeis Iuppiter antris ". La contaminazione fra il libro biblico e i testi classici e la determinante presenza di G. ai fini di questa contaminazione ci sembrano ormai incontestabilmente provate.

In conclusione, anche se in taluni punti l'ipotesi che la citazione di G. sia stata fornita da florilegi o da brani contenuti in testi intermedi può essere tuttora sostenuta, la frequenza degli spunti, la disinvoltura con cui D. intreccia luoghi giovenaliani siti in posti diversi, la precisione con cui talvolta egli individua e denuncia la sede da cui deriva il passo giovenaliano sfruttato o attinge ad esso suggestioni di vario genere confermano la maggiore probabilità dell'ipotesi che l'Alighieri conoscesse, integralmente o in buona parte, il testo del poeta aquinate. Del resto i testi del basso Medioevo ci mostrano che spesso i loro autori si comportano in maniera differente coi modelli classici, attingendo ai medesimi scrittori talvolta direttamente e talvolta attraverso florilegi o citazioni intermedie: cfr. per es. G. Di Stefano, L'opera oratoria di Jean Courtecuisse e la letteratura parenetica del sec. XV (in Miscellanea di studi e ricerche sul Quattrocento francese, a c. di F. Simone, Torino 1967, 93 ss.). Sulla base di queste conclusioni si potrebbe forse racimolare ancora qualche altro vago indizio di echi giovenaliani nella Commedia. E. Raimondi (Metafora e storia. Studi su D. e Petrarca, Torino 1970, 48) ha ravvisato un'eco di " avaritiae patuit sinus " nel v. 88 della prima satira (cioè nel medesimo luogo ricordato a proposito di Cv IV XII, in If XVIII 63 il nostro avaro seno, e in Pg XXII 22-23 come poté trovar dentro al tuo seno / loco avarizia, pur non nascondendosi la possibilità che le espressioni derivino da Ovidio (Am. I X 17-24) e da Prudenzio (Psychom. 454 e 458-459). L'ipotesi dell'influsso giovenaliano può essere rafforzata dal fatto che l'eco parte da un luogo della prima satira, di cui vedremo or ora un altro riflesso nella Commedia, e si manifesta proprio in Pg XXII. Sembrerà forse troppo sottile voler trovare una traccia nel poema del " facit indignatio versum " del v. 79 della prima satira. Ma nella Commedia il concetto della funzione fondamentale e benefica dell'indignatio è singolarmente frequente: se possiamo sorvolare sulla lode di Virgilio Alma sdegnosa, ecc., in If VIII 44 ss. (anche se già per essa il Boccaccio annotava che quell'ira " non è peccato ad averla, ma è meritorio a saperla usare "), e anche sulle parole con cui il conte Ugolino dà inizio al suo racconto, giustificando i legittimi effetti delle sue indignate rivelazioni (If XXXIII 7-8 Ma se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch'i' rodo), debbono trattenere la nostra attenzione due luoghi del Paradiso, in cui il dovere e la necessità dell'indignatio come fustigatrice dei torti sono sistematicamente enunciati ed esaltati: in Pd XVII 124-135 Cacciaguida formula a D. il concetto della meritoria utilità delle severe critiche che egli è chiamato a esprimere delle malefatte altrui; nel c. XXVII l'invettiva di s. Pietro contro la Chiesa degenere è sceneggiata nelle sue ripercussioni alteranti il quadro della beatitudine paradisiaca (Di quel color che per lo sole avverso / nube dipigne da sera e da mane, / vid' io allora tutto 'l ciel cosperso / ... così Beatrice trasmutò sembianza; / e tale eclissi credo che 'n ciel fue / quando patì la supprema possanza. / Poi procedetter le parole sue / con voce tanto da sé trasmutata [vv. 28-38]; e prima: Se io mi trascoloro, / non ti maravigliar, ché, dicend'io, / vedrai trascolorar tutti costoro, vv. 19-21), e culmina nell'invito rivolto a D. di farsi eco dello sdegno sperimentato lassù e di agitare la sferza contro i malvagi pervertitori degl'ideali religiosi: e tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch'io non ascondo (vv. 64-66). La maniera con cui G. aveva prospettato e motivato l'origine della sua poesia appare chiaramente elaborata da D. per porre in rilievo la più profonda ragione costitutiva e determinatrice del poema.

Parimenti, quando in Pg VI 125-126 leggiamo e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene, l'accenno alla gloriosa stirpe discendente dal vincitore di Clastidium sembra non debba derivare solo da Lucano I 313, cioè dall'allusione al pompeiano Marcello console nel 50 a.C., allo scoppio della guerra civile (che è inserita per giunta in un discorso di Cesare, ove Marcello è sprezzantemente definito " loquax "), ma possa risalire anche alla II satira di G. (v. 145 " et Capitolinis generosior et Marcellis "), tanto più che, come nel luogo di D. si contrappone ai Marcelli il villano che si arrampica sulla scala sociale partecipando alle contese civili, così in quello di G. si contrappone ai Marcelli, agli Emilii Paoli, ai Fabii il degenere Gracco che si batte nell'arena da gladiatore: qui e lì ugualmente il lamento per una degenerazione dell'ordine politico-sociale, rispetto alla quale il ricordo dei Marcelli esercita la funzione di un nostalgico richiamo alle glorie di un tempo. E non importa che i vv. 143-148 siano atetizzati da quasi tutti i moderni editori e studiosi, da C.F. Hermann, a L. Friedländer, a P. De Labriolle, al nostro N. Vianello.

Bibl. - Oltre ai commentatori e le opere citate nella voce, cfr. almeno: P. Chistoni, La seconda fase del pensiero dantesco: periodo degli studi sui classici e filosofi antichi e sugli espositori medievali, Livorno 1903; J.H. Sacret, Dante's Knowledge of Juvenal: Note on the Identity of the " Savio " of " Convivio ", IV, 13, in " Romanic Review " XXVIII (1937) 307-310; J. Oeschger, Antikes und Mittelalterliches bei D., in " Zeit. Romanische Philol. " LXIV (1944) 12 ss.; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1951; H.G. Gmelin, D. und die römischen Dichter, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXI-XXXII (1953) 42-65; G. Brugnoli, Stazio in D., in " Cultura Neolatina " XXIX (1969) 117-125.

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