Giove

Enciclopedia Dantesca (1970)

Giove (Iove)

Giorgio Padoan
Emmanuel Poulle
Marcello Aurigemma

Il dio Zeus (che i Latini identificarono con il loro G.), figlio di Crono (identificato dai Latini con Saturno) e di Rea, è la somma divinità dell'Olimpo greco.

Crono, avendo saputo che egli sarebbe stato un giorno detronizzato da un suo figlio, soleva ingoiare vivi tutti gli eredi che Rea gli procreava; ma avvenne che questa, avendo avuto un parto gemellare, gli nascose uno dei due figli, Zeus appunto. Rea lo affidò ai sacerdoti Cureti affinché lo allevassero nascostamente nelle selve del cretese monte Ida nutrendolo del latte della capra Amaltea; e perché Crono non udisse i vagiti del bambino, ogniqualvolta egli piangeva i Cureti procuravano di fare strepito battendo i propri scudi con le lance. Divenuto adulto, Zeus cacciò il padre dopo averlo costretto a vomitare i figli ingoiati (Ade, Poseidone, Era, Estia, Demetra). Il dominio di Zeus su dei e mortali conobbe momenti di difficoltà: minacciato un giorno da una congiura degli dei, Zeus chiamò presso di sé il centimano Briareo, la cui sola presenza valse a dissuadere i congiurati dal loro proposito; più grave fu il pericolo quando i titani mossero guerra all'Olimpo: tuttavia Zeus debellò la ribellione scagliando micidiali folgori. Intorno alla figura del più potente degli dei fiorirono numerosi miti. Zeus ebbe molti amori, con dee e con semplici mortali; e per soddisfare le sue passioni ricorse non di rado anche a metamorfosi (si mutò in sosia di Anfitrione con Alcmena, in cigno con Leda, in toro con Europa, in pioggia d'oro con Danae, ecc.; e sarebbe stato lo stesso G., dopo avere assunto forma di aquila, a rapire il bel Ganimede, che era stato prescelto a essere il coppiere degli dei). Contro le rivali infuriò l'ira della sua gelosa consorte Era (la latina Giunone). I Latini narrarono più volentieri queste storie amorose, senza insistere sulla lotta di G. contro il padre Saturno né sulla ribellione degli dei (frequenti invece gli accenni alla guerra dei titani e dei giganti nei poeti latini: il salvatore di G., Briareo [v.], diviene anzi alleato dei giganti contro l'Olimpo); e laddove lo Zeus greco sottostà anch'egli al fato, i Latini accentuarono in G. soprattutto l'autorità, mossa da severo senso di giustizia. La volontà di G. è legge, il simbolo del suo potere l'aquila, la sua arma il fulmine: con il quale egli puniva chiunque avesse osato ribellarsi al suo decreto o dispregiare il nome divino.

Nel Convivio D. dichiara falsa la favola della presunta discendenza di Dardano da G. (IV XIV 15; cfr. Ovidio Fasti IV 2: ma è notizia diffusissima nei mitografi); nella Commedia nomina il dio, seguendo il " modus tractandi poeticus " (cfr. Ep XIII 27), come figlio di Saturno e padre di Marte (Pd XXII 145-146), ne ricorda l'infanzia presso i Cureti nell'isola di Creta (I f XIV 100-102; cfr. Aen. III 104-112) e la punizione di Fetonte (Pg XXIX 120; cfr. Met. II 304-313); G. è anche implicitamente chiamato in causa nelle allusioni alle persecuzioni della gelosa Giunone contro Latona (Pg XX 130-132; cfr. Met. VI 188-191) e contro Semele e i Cadmei (If XXX 1-3 e Pd XXI 6; cfr. Met. III 256-309 e Theb., passim), e nell'accenno all'assunzione al cielo di Ganimede (Pg IX 22-24; cfr. Aen. V 252-257; Met. X 155-161). Più complessa è invece la ricezione del mito del tentativo di scalata al cielo dei giganti e della battaglia di Flegra: infatti vi si poté ravvisare un fondo di verità per ciò che la Bibbia a sua volta racconta dei giganti (v.) e della torre di Babele; e quindi, pur in termini poetici che si rifanno sostanzialmente al racconto pagano, il mito è assunto ad esempio di superbia punita nel Purgatorio cristiano: L'edea Timbreo, vedea Pallade e Marte, / armati ancora, intorno al padre loro, / mirar le membra d'i Giganti sparte (Pg XII 31-33; cfr. Theb. II 595-600), dove perciò Apollo, Pallade e Marte sono da intendersi come personificazioni di attributi di Dio.

Infatti D. partecipa della profonda convinzione, che fu peculiare della cultura medievale, che i miti pagani non fossero del tutto esclusivo frutto d'invenzione poetica, e che celassero al nocciolo verità interpretabili cristianamente: Dio e Satana, la lotta del Bene e del Male, miracoli e interventi demoniaci preesistettero alla venuta del Cristo: e i pagani nella loro ignoranza diedero di fatti veri spiegazioni false, solo in parte riconducibili alla sentenza biblica e patristica " dii gentium daemonia ". Essi in primo luogo personificarono il reale influsso dei cieli (in cui anche D. crede fermamente) attribuendolo a divinità cui diedero il nome dei vari pianeti (cfr. Pd IV 61-63 Questo principio, male inteso, torse / già tutto il mondo quasi, si che Giove, / Mercurio e Marte a nominar trascorse; e cfr. Pd XXII 145-146): e il cielo di G. naturalmente (una delle spiegazioni etimologiche correnti del nome ‛ Iuppiter ' era " Ius pater ") predispone alla giustizia (cfr. Pd XVIII 115-117 o dolce stella, quali e quante gemme / mi dimostraro che nostra giustizia / effetto sia del ciel che tu ingemmel). In secondo luogo, indicando in G. il re degli dei (dove in " deus " e " divus " poteva ravvisarsi il concetto cristiano di " beato "), i pagani avrebbero intuito, per quanto approssimativamente e nebulosamente, l'onnipotente, il vero creatore; anzi, questo tentativo di accostare al massimo la cultura classica al cristianesimo si spinse fino all'affermazione, divenuta corrente, che i poeti e i filosofi antichi, pur rimanendo avvolti nell'ignoranza della vera fede, non sarebbero stati alieni dal monoteismo (cfr. anche Ep XIII 63 Quod etiam scriptura paganorum contestatur; onde Lucanus in nono: " Iuppiter est quodcunque vides, quocunque moveris ": cfr. Phars. ne 580). Questo è il motivo profondo per cui D., cristiano, può accogliere l'identificazione spogliandola definitivamente dell'errore e dell'incertezza pagane, e chiamare con l'appellativo di ‛ Giove ' il vero Dio in quanto vindice di giustizia: o sommo Giove / che fosti in terra per noi crucifisso, / son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? (Pg VI 118-120); perciò l'aquila, l'uccel di Giove (Pg XXXII 112; v. anche Eg I 26), simbolo di autorità e di giustizia, segno. dell'Impero romano, è l'uccel di Dio (Pd VI 4): perché quel G., di cui parla Virgilio (cfr. Mn II VI 10) e che consentì e guidò e sorresse l'Impero romano, è Dio.

In Cv II IV 6 l'edizione Simonelli reca Giove, lo quale dissono deo di potenza, mentre in Busnelli-Vandelli si legge Giuno, la quale dissero dea di potenza; analogamente nella '21.

Il Pianeta. - Sesto pianeta del sistema tolemaico. Il suo moto si svolge in una fetta sferica contigua, all'interno, a quella del quinto pianeta Marte e, verso l'esterno, a quella dell'ultimo pianeta Saturno (cfr. Cv II III 7). In Cv II XIV 16, D. valuta a quasi sei anni il tempo durante il quale il pianeta resterebbe invisibile, qualora non esistesse il moto diurno della volta celeste; tale è infatti la durata della semirivoluzionedel centro dell'epiciclo di G. sul deferente (l'esatta durata della rivoluzione, nel Medioevo, è di 11 anni, 10 mesi e 10 giorni; la durata della rivoluzione del pianeta sul proprio epiciclo è di 1 anno, 1 mese e 3 giorni).

L'astrologia medievale fa di G. un pianeta bianco e temperato: D. a più riprese fa allusione al suo colore (specialmente in Pd XVIII 68 e 95, XXVII 14) e al suo nome (IV 62). In Cv II XIII 25-27, il color bianco è uno dei due argomenti avanzati per giustificare l'analogia tra G., sesto pianeta, e la Geometria, sesta arte liberale. L'altro argomento è la qualità temperata di G., a mezza strada tra la freddezza di Saturno e il calore di Marte, i due pianeti vicini (cfr. Pd XXII 145): non si tratta altro che della traduzione della spiegazione data da Tolomeo della qualità di G.: " locus namque sui motus medius est inter Saturni frigiditatem Martisque fervorem " (Quadripartitum I IV).

Cielo di Giove. - D. colloca il cielo in cui ruota il pianeta di G. come sesto nel Paradiso (dopo Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte). Appunto da Marte D. ascende al pianeta di G., avvedendosi di ciò in quanto, dopo che Cacciaguida ha ripreso il suo posto nei bracci della croce luminosa, voltosi a conoscere dal cenno di Beatrice che cosa debba fare, vede i suoi occhi più luminosi e giocondi; e come l'uomo per il fatto di sentire maggior diletto nell'operar bene si accorge di aver progredito nella virtù, così D. si avvede che l'arco del suo girare insieme col cielo si è accresciuto, cioè di esser salito a un cielo di maggior circonferenza, G. appunto. A questo segno generico dell'arrivo in un nuovo astro altri specifici se ne aggiungono: il candore argenteo del nuovo pianeta, colore che risalta a confronto di quello rosso di Marte, con un cambiamento paragonato al trasmutamento di colore in donna per sua natura bianca quando il volto depone il carico di vergogna che l'aveva resa rossa; la temperata complessione della stella (v. sopra). Tale indicazione sarà nuovamente sottolineata in Pd XXII 145-146 (Quindi m'apparve il temperar di Giove / tra 'l padre e 'l figlio), forse non senza motivo, segnalando il ‛ temperare ' la necessità di equilibrio come virtù suprema, in coloro che governano e giudicano, tra forza di sentimento e di azione, e capacità di meditazione. La giocondità degl'influssi emananti da questo pianeta secondo i principi astrologici è poi segnalata dalla successiva espressione giovial facella, nella quale è probabile che il ‛ gioviale ' segnali contemporaneamente l'attribuzione della luminosità a G., e il carattere ‛ gioioso ' proprio del pianeta: qualità ancora segnalata in XVIII 115, dove si parla di dolce stella.

Emettendo canti, e volando al ritmo di questi fino a quando hanno raggiunto la loro collocazione, le sante creature si dispongono in lettere che formano la sentenza Diligite iustitiam qui iudicatis terram (vv. 91-95), primo versetto del libro della Sapienza, sostando un momento e tacendo a ogni lettera formata, prima di disfarla e di crearne un'altra: in un gioco di mutazioni che soltanto una tecnica espressiva di altissima qualità poteva realizzare, sì che appare giustificato il particolare appello alla diva Pegasea, s'intenda per essa una musa non specificata, ovvero, come si è pensato da questo o da quel critico, Calliope o Urania. I lumi si fermano nell'ultima lettera che è una M (in scrittura gotica), altri lumi scendono sulla parte superiore della M, si muovono velocemente dapprima ‛ ingigliandosi ', cioè passando attraverso la figura di un giglio (circostanza che ha fatto da qualcuno - Parodi - proporre l'ipotesi, confortata da solo parziali adesioni, di un momento intermedio nel quale D. abbia alluso simbolicamente, attraverso il segno araldico del giglio, alla monarchia francese e al conato che questa compì per sostituirsi all'Impero, mentre altri pensa ad altra manifestazione di preziosismo), e assumendo infine la figura di un'aquila, segno dell'Impero, e quindi, secondo la concezione dantesca (iustitia potissima est solum sub Monarcha, Mn I XI 2), della giustizia terrena a quello affidata da Dio, oltreché ricordo dell'aquila parlante nel giorno del giudizio, dall'Apocalisse 8, 13: visione che induce D. a invocare sia G. dal benevolo influsso sia la milizia del cielo apparsagli in quel pianeta, perché intercedano presso Dio, affinché punisca coloro che offendono la giustizia correndo dietro alle ricchezze, o usando le scomuniche come arma politica, in particolare alludendo probabilmente al pontefice Giovanni XXII, e alla scomunica da lui lanciata contro Cangrande della Scala nel 1317, a un papa cioè sulla cui bocca vien posta la dichiarazione di non conoscer più s. Pietro e s. Paolo, ma soltanto il Battista dei fiorini. L'aquila (c. XIX), pur essendo composta di molti spiriti, parla come se fosse una sola persona (simbolo del fatto che la giustizia è una, anche se molti sono coloro che l'amministrano, così com'è una la volontà da cui essa emana), e deplora la fine delle opere di pietà e di giustizia sulla terra: e su di una grande questione di giustizia - la giustificazione per fede - D. l'interroga, chiedendole se sia equo che siano dannati molti uomini per il solo fatto di esser vissuti in luoghi nei quali Cristo non è conosciuto. Quesito al quale l'aquila risponde che il giudizio è riservato a Dio, il cui intendimento infallibile è e fu sempre superiore a quello di chiunque, onde la punita ribellione di Lucifero, e l'impossibilità per l'uomo, che deve star contento alla fede, di comprender cose che gli sembrano incredibili. Del resto non vi è salvezza se non per chi ha, oltre la fede, opere buone, sicché gli Etiopi stessi condanneranno persone che han sempre il nome di Cristo sulle labbra (ricordo di Matt. 7, 21-22 e Luc. 12, 42-48) nel giorno del giudizio, quando i Persiani conosceranno le perversità di molti principi cristiani, da Alberto imperatore a Filippo il Bello, a Edoardo I d'Inghilterra, a Roberto di Scozia (forse), a Ferdinando di Castiglia, a Carlo II di Napoli, a Federico II di Sicilia, a Giacomo di Maiorca, a Giacomo II d'Aragona, a Dionisio l'Agricola di Portogallo, ad Acone VII di Norvegia, a Stefano Urosio II Milutin, ad Andrea II, a Enrico II di Lusignano. Dopo un canto dei beati, l'aquila dice a D. di guardare nel suo occhio, ove sono sei spiriti: Davide, che forma la pupilla, Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo e Rifeo, che formano il ciglio. Alla meraviglia di D. di fronte al fatto di aver trovato in Paradiso dei pagani, l'aquila risponde che il regno dei cieli patisce violenza da caldo amore e da viva speranza (Matt. 11, 12), e così si spiega come Traiano, alle preghiere di s. Gregario, ravvivate appunto dalla speranza, resuscitò, accesamente credette in Cristo, e quando di nuovo morì passò in Paradiso (è fatto commentato in Tomm. Sum. theol. III Suppl. 71 5). Rifeo volse tutto il suo animo a giustizia, e perciò Dio gli aperse l'occhio alla redenzione, e valsero a lui per battesimo Fede, Speranza e Carità (teorie che D. poteva trovare in Agost. Bapt. cont. Don. IV 22 e in Tomm. Sum. theol. III 66 11, 68 2 e 3). L'aquila termina affermando che la ragione della predestinazione è remota e inaccessibile agli uomini, onde occorre essere cauti nel giudicare il destino delle anime. Gli occhi di D. si fissano nuovamente, quindi, su Beatrice, la quale gli annunzia che essi si son levati al cielo di Saturno.

Può dirsi che il duplice carattere di G., stella dagl'influssi felici e insieme segno solenne della giustizia affidata all'autorità, conformi a sé i canti (XVIII 58-136, XIX, XX) a lui da D. dedicati. Questo cielo è infatti ingemmato e impreziosito dall'immagine dell'aquila color d'oro spiccante nel suo argento, immagine per di più descritta nel suo formarsi con la consueta abilità tecnica: mentre una serie di paragoni tutti in chiave di dolcezza illumina i tre canti. Tuttavia nello stesso tempo D. esprime attraverso la medesima aquila, con solennità tesa fino all'asprezza, il tema della giustizia, per lui, vittima d'iniquo giudizio, importante in sé e nell'istituzione che lo realizza, l'Impero, sì che la particolare invocazione alla musa può esser messa anche in relazione con l'altezza e l'impegno particolare degli argomenti che il poeta si accinge a trattare. Appaiono evidenti, non evitati ma voluti ad animare i canti (con situazione del resto non peculiare di questo cielo ma qui comunque ben evidente), i contrasti e confronti tra le visioni bellissime del cielo e le meschinità e gli errori degli uomini, anzi di quelli proprio ai quali la guida degli uomini è affidata, con espressioni che divengono particolarmente sarcastiche e violente quando si rivolgono contro coloro che hanno in terra la guida spirituale, cioè contro la curia. Così come successivamente con la bellezza di G. si confrontano le parole egualmente tese, solenni, perché adeguate alla grandezza degli argomenti, e rinvianti a insondabili, misteriosi voleri di Dio, a proposito della giustificazione per fede e della predestinazione, animate tuttavia anch'esse da spunti polemici, concretate come sono in problemi umani, su coloro che si reputano giusti perché formalmente cristiani, anche se non sian fedeli a una profonda giustizia, con costante ricerca d'incisiva efficacia da parte di D., realizzata sia con l'evocazione solenne e dura del giudizio del vero potente, sia con la singolare chiamata, come testimoni a quel giudizio, per scorno dei potenti cristiani, dell'Etiope e dei Persi, mentre efficacia attraverso la sorpresa danno le presenze di Rifeo e di Traiano. La parte finale del discorso dell'aquila e della permanenza su G., contrassegnata dalla dichiarazione di accettazione, anche da parte dei santi, dei decreti della Provvidenza che giustificano tutta la storia umana pur quando appaia iniqua, e dei limiti imposti al conoscere, è tuttavia ‛ soave medicina ' anche per D., ansiosamente proteso, qui come altrove, a conoscere le ragioni profonde delle cose, chiudendosi in tal modo in chiave di serenità, secondo l'altro carattere dell'astro, i canti consacrati al cielo di Giove.

Bibl. - L. Pietrobono, Il c. XIX del Paradiso, Firenze 1901; V. Capetti, Il c. XVIII del Paradiso, ibid. 1912; G. Albini, Il c. XX del Paradiso, ibid. 1913; M. Casella, La figurazione dell'Aquila nel Paradiso, in " Studi d. " XXXII (1954) 5-28; S.A. Chimenz, Il c. XIX del Paradiso, Roma 1956; I. Chierici, L'aquila d'oro nel cielo di G., ibid. 1962; A. Accame Bobbio, 11C. XVIII del Paradiso, in Lett. Scaligera III 629-658; G. Bàrberi Squarotti, Il c. XVIII del Paradiso, in Lett. dant. 1703-1723; V. Rossi, Il c. XX del Paradiso, ibid. 1755-1769; G. Marcovaldi, Il c. XVIII del Paradiso, Torino 1964; E. Mazzali, Il c. XIX del Paradiso, in Lect. Scaligera III 665-679; E. Paratore, Il c. XX del Paradiso, ibid. 687-728 (rist. in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 281-314); F. Croce, I canti del cielo di G., in Miscellanea di studi danteschi, Genova 1966.

TAG

Edoardo i d'inghilterra

Federico ii di sicilia

Cangrande della scala

Giacomo ii d'aragona

Libro della sapienza