GIOVANNI

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI

Tommaso di Carpegna Falconieri

Di questo cardinale vescovo sono sconosciute la data di nascita e la nazionalità. G. compare già insignito della dignità cardinalizia, come vescovo della diocesi suburbicaria di Porto, allorché sottoscrisse una bolla pontificia del 18 ott. 1057. È certo, tuttavia, che la sua elevazione all'episcopato portuense risalisse solamente a poco tempo prima, poiché è conosciuta la data di morte del suo predecessore Rolando, avvenuta il 10 luglio 1057.

La ricostruzione della vita di G. è rimasta a lungo incerta, a causa della presenza più o meno contemporanea di tre cardinali vescovi di Porto che portarono il nome di Giovanni. G. fu confuso con la persona di Giovanni (I), morto nel 1050 circa, essendosi perduto il ricordo del già citato vescovo Rolando. Poiché G. passò tardivamente (1084) dalla parte dell'arcivescovo di Ravenna Wiberto, eletto nel 1080 antipapa con il nome di Clemente III, il partito gregoriano gli si oppose con la creazione di un altro cardinale, anch'egli di nome Giovanni, che gli contese la dignità di vescovo di Porto per alcuni anni e che morì nel 1095. Alcuni storici, non avendo compreso che il vescovo di Porto attestato come fedele a Clemente III fosse lo stesso G., supposero l'esistenza di un ulteriore Giovanni, semplice creatura dell'antipapa.

G. fu elevato al cardinalato da Stefano IX (lorenese e abate di Montecassino): il che, per confronto con le altre creazioni cardinalizie del tempo, fa ritenere verosimile una sua origine non romana e una sua appartenenza all'Ordine benedettino. La lunga adesione al Papato riformatore e la stessa dignità di vescovo di Porto testimoniano del fatto che G. dovette essere un personaggio influente. La sua carica episcopale e cardinalizia costituiva già in quel tempo uno dei vertici della gerarchia della Chiesa, di grande rilievo politico anche perché la diocesi portuense comprendeva una vasta parte di Roma: il Trastevere, le acque del Tevere e l'Isola Tiberina.

Come si è visto, G. era già insignito del suo ufficio quando, nel novembre 1057, il vescovo di Ostia, Pier Damiani, scrisse una lettera ai cardinali nella quale sviluppava la teoria primaziale sull'importanza teologica dei cardinali vescovi. G. fu uno dei sottoscrittori del Decretum in nomine Domini del 1059, con il quale il diritto di elezione pontificia fu riservato ai soli cardinali, e in primis ai cardinali vescovi, escludendo la partecipazione dei laici romani e relegando a un ruolo subordinato le funzioni dei cardinali degli altri due ordini, presbiterale e diaconale. Anche se non conosciamo la misura del suo apporto personale alla stesura del documento, rimane certa la diretta partecipazione di G., allora e in seguito, alle più alte decisioni prese dalla Chiesa romana riformatrice.

La documentazione di cui disponiamo, fornita principalmente dalle sottoscrizioni alle bolle pontificie, consente di stabilire che G. fu presente a numerosi avvenimenti degli anni Sessanta e Settanta del secolo XI. Nel gennaio 1060 accompagnò Niccolò II a Firenze; nell'ottobre 1071 presenziò alla consacrazione della nuova chiesa di Montecassino; nel 1071 e nel 1072 consacrò degli altari a S. Cecilia in Trastevere; nell'ottobre 1072 fu tra i giudici delegati a dirimere una controversia tra il monastero di Farfa e quello dei Ss. Cosma e Damiano in Mica Aurea. Nell'agosto 1073 si recò a Benevento con Gregorio VII e fu il primo sottoscrittore dell'accordo tra il papa e il principe Landolfo. Nel 1076 fu presente al giuramento di rinuncia di Roberto, vescovo di Chartres, e nel novembre 1078 partecipò al sinodo romano in cui, tra l'altro, Wiberto fu sospeso dall'ufficio episcopale di Ravenna e fu condannata l'eresia di Berengario di Tours sull'eucarestia. Benone, cardinale favorevole all'antipapa, colloca a quella data un severo rimprovero volto da G. a Gregorio VII che, per ottenere un segno divino contro l'imperatore, avrebbe gettato un'ostia nel fuoco. Due fonti autonome, una di parte wibertista (Benone), l'altra gregoriana (Ugo di Verdun), lo presentano come familiare e intimo dei segreti di Gregorio VII.

Il 4 maggio 1082 si riunì un conventus del clero romano per prendere posizione riguardo all'intenzione di Gregorio VII di impiegare i beni ecclesiastici per combattere la guerra contro Clemente III ed Enrico IV. In quell'occasione, undici cardinali e sei chierici di Roma negarono decisamente tale possibilità. È questo il momento al quale alcuni storici datano l'abbandono di Gregorio VII da parte di G., che sottoscrisse per primo il documento. In realtà, più che di rottura è lecito parlare di un segnale di allontanamento: una bolla più tarda, del 1083, attesta il permanere della lealtà di G. a Gregorio VII.

G. dovette passare nelle file avversarie solo nel corso del 1084. Probabilmente ciò accadde dopo la consacrazione papale di Clemente III, avvenuta in Laterano il 24 marzo 1084. Infatti, il vescovo di Porto avrebbe dovuto svolgere un ruolo importante nell'ambito di quelle cerimonie, ma nessuna fonte ricorda la sua presenza, mentre è noto che Clemente III fu ordinato da vescovi estranei al patriarchio romano. G. sottoscrisse per la prima volta una bolla di Clemente III il 4 nov. 1084. A causa del sopraggiungere a Roma di Roberto il Guiscardo e dell'esercito normanno, G. dovette partire per la Germania, al seguito di Enrico IV, con cui - così attesta Ugo di Verdun - si era pacificato. In una lettera di Matilde di Canossa riportata dallo stesso autore è detto che Enrico, allontanandosi da Roma nel 1084, aveva rubato il sigillo di Gregorio VII e conduceva con sé G. poiché ("quoniam") era stato amico ("familiaris") di Gregorio VII. La lettera continua diffidando i destinatari da un possibile impiego strumentale del cardinale, che viene presentato come un potenziale falso testimone. Il 20 apr. 1085 G. fu scomunicato, insieme con Ugo Candido e col cancelliere Pietro, durante il sinodo di Quedlinburg presieduto da Oddone d'Ostia. In quell'occasione, G. fu chiamato "apostata S. Petri", lasciando così pochi dubbi riguardo al fatto che si trattava dello stesso cardinale, e non di una nuova creazione di Clemente III. Poche settimane più tardi G. fu presente al sinodo di Magonza, di parte imperiale, in qualità di legato di Clemente III e in compagnia degli stessi due cardinali scismatici. Nel 1089 era ancora definito antiepiscopus da Urbano II.

Dopo tale anno non si hanno altre notizie di G. e se ne ignora la data di morte.

Restano ignoti i motivi per i quali G. abbracciò, e così tardi, il partito di Clemente III. La sua posizione era molto delicata poiché, oltre a essere noto per la sua amicizia con Gregorio VII, G. fu l'unico cardinale vescovo ad abbandonarlo: gli altri cardinali scismatici appartenevano infatti tutti agli ordini presbiterale e diaconale. L'autorità di cui godeva un cardinale vescovo, oltretutto anziano, avrebbe potuto favorire molto la parte in cui si schierava. Invece, la sua posizione appare defilata: G. non è ricordato per qualche sua azione particolare, né fu attaccato dalla libellistica avversaria, né, e ciò è ancora più strano, fu esaltato negli scritti prodotti in ambito wibertista e imperiale. Nell'esordio dei Gesta Romanae Ecclesiae contra Hildebrandum di Benone sono ricordati in toni apologetici e trionfalistici i cardinali che deposero e abbandonarono Gregorio VII. Tra di essi compare, come quarto, un Giovanni, che fu a lungo ritenuto G., ma erroneamente: l'elenco dei cardinali è in ordine strettamente gerarchico, discendendo dal cardinale arciprete, ai cardinali presbiteri, all'arcidiacono, ai cardinali diaconi. Non vi è nominato alcun cardinale vescovo e G., per la posizione che occupava, doveva essere certamente un cardinale dell'ordine dei preti, non il vescovo di Porto. Benone ricorda effettivamente G. per un suo rimprovero rivolto a Gregorio VII, ma lo coinvolge direttamente nell'accusa, sostenendo che lo stesso G. si riteneva responsabile, insieme con Gregorio VII, di un'azione punibile con il rogo.

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