GIOVANNI

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI

Paolo Chiesa

Non si conoscono dati biografici su G., alto dignitario della Chiesa romana vissuto nella seconda metà del VII secolo, precedenti al 678 quando fu incaricato da papa Agatone di svolgere opera di istruzione liturgica e di controllo dottrinale in Britannia, nel quadro degli stretti legami che, fin dai tempi di Gregorio Magno, il pontificato intratteneva con la Chiesa d'Inghilterra e che si erano concretizzati nell'invio di missionari nell'isola e in un'intensa attività di pellegrinaggio verso Roma da parte di nobili ed ecclesiastici anglosassoni.

Le notizie che abbiamo su G. risalgono a quanto scritto da Beda il Venerabile, più diffusamente nella Historia ecclesiastica gentis Anglorum (IV, 16), ma anche nella Vitabeatorum abbatum riguardo a Benedict Biscop. Beda afferma che G. era "archicantator" (o "archicantor") della chiesa di S. Pietro Apostolo e abate del monastero di S. Martino a Roma. Questa fondazione si trovava, a quanto sembra, nei pressi di S. Pietro, e vi è notizia che i suoi monaci fossero effettivamente adibiti al servizio del coro della basilica (Liber pontificalis, I, 417); è pero solo un'ipotesi che vi si seguisse la regola benedettina.

Il titolo di "archicantator" non è altrimenti attestato nella Roma di quel tempo, ma non c'è ragione di dubitare della sua esattezza; la qualifica doveva essere analoga a quella che in seguito sarà attribuita al "primicerius scholae cantorum". C. Silva Tarouca ha proposto di identificare G. con il "prior cantorum" al quale il futuro papa Sergio I sarebbe stato affidato in gioventù per essere istruito, durante il pontificato di Adeodato II.

Nel 678 venne a Roma dalla Britannia Benedict Biscop, un monaco di nobili origini, fondatore del monastero di Wearmouth, in Northumbria, del quale era abate. Il suo viaggio, oltre a motivazioni strettamente religiose, aveva lo scopo di ricevere il riconoscimento e l'appoggio papale per il suo monastero, che ottenne nella forma di una lettera di privilegio; nel contempo, esso veniva a rafforzare le buone relazioni fra Roma e i sovrani angli, in particolare con Egfrido re di Northumbria, amico e sostenitore di Benedict. Quando rientrò in Britannia, l'abate conduceva con sé l'"archicantor" Giovanni. Ufficialmente, egli era stato incaricato da papa Agatone di insegnare a Wearmouth il "cursum canendi annuum", ovvero le pratiche rituali e liturgiche dell'intero anno, che si esprimevano soprattutto nell'innodia e in altre forme cantate; a questo compito, già di per sé importante, se ne affiancava un altro che doveva apparire più delicato, quello di controllare l'ortodossia della Chiesa d'Inghilterra rispetto alla controversia monotelita.

Lo sviluppo del cristianesimo in Inghilterra era stato fino a quel momento caratterizzato da una continua dialettica fra l'adozione delle pratiche liturgiche romane e la sopravvivenza di diverse forme cultuali di tradizione irlandese, alla cui radice vi era un diverso modo di concepire la stessa organizzazione ecclesiastica. Il contrasto fra i due sistemi si esprimeva in particolare nella controversia sulla data della Pasqua, che gli Irlandesi computavano in modo diverso dai Romani, e sulla forma della tonsura monastica; ma si trattava di manifestazioni esteriori di un contrasto ben più profondo, che fu sanato soltanto nel sec. VIII. In questa situazione, la Chiesa romana aveva avuto buon gioco ad appoggiare gli Angli e i Sassoni, popoli germanici la cui evangelizzazione era recente ed era stata promossa da Roma, contro i Britanni, l'antico popolo celtico che abitava l'isola, che erano stati evangelizzati dagli Irlandesi e ne avevano assunto i costumi. Alla prima missione inviata da Gregorio Magno nel 596, guidata dal monaco romano Agostino, che divenne primo arcivescovo di Canterbury, ne era seguita una seconda inviata da papa Vitaliano nel 668, a capo della quale erano il teologo greco Teodoro di Tarso, cui fu affidato l'arcivescovato di Canterbury, e il monaco africano Adriano di Cartagine, che divenne abate del monastero di S. Pietro della stessa città. Ma la distanza e la precarietà della situazione politica dell'Inghilterra, suddivisa in una miriade di piccoli regni a base etnica, consigliava evidentemente il Papato di mantenere il controllo sulla situazione. Sul piano liturgico, la missione di G. era motivata dunque dall'esigenza di uniformare il rituale alla pratica romana, in vista di una liquidazione dei riti di origine celtica o di quelli che si erano sviluppati in linea autonoma nella Chiesa d'Inghilterra; il monastero di Wearmouth poteva diventare il centro di irradiazione delle consuetudini ortodosse, e in questa linea si può spiegare l'incoraggiamento dato dal pontefice a Benedict Biscop. Sul piano teologico, Beda collega la missione di G. non tanto alle posizioni eterodosse delle chiese irlandesi quanto alla controversia monotelita, che costituiva un motivo di forte contrasto fra Roma e Costantinopoli; è possibile che inviando un alto ecclesiastico di formazione latina il Papato volesse controllare l'operato dello stesso Teodoro, che era pur sempre un greco e, in quanto tale, sospettato di connivenze con i monoteliti.

G. pare avere avuto pieno successo nella sua attività di insegnamento liturgico, mentre sul piano teologico l'allarme sulle possibili infiltrazioni eterodosse si rivelò infondato. A Wearmouth egli insegnò "viva voce" la sequenza delle letture liturgiche e dei canti sacri, secondo l'uso romano; la sua scuola era frequentata anche dai cantori degli altri monasteri della regione, ed egli si recò a sua volta a insegnare in località diverse. Le pratiche liturgiche romane vennero altresì da lui trascritte in un volume, il cui originale era conservato a Wearmouth e dal quale vennero tratte, secondo Beda, numerose copie. Per verificare l'ortodossia della Chiesa d'Inghilterra, G. si fece promotore di un sinodo, che si riunì a Hatfield, nello Hertfordshire, sotto la presidenza dell'arcivescovo Teodoro; la dichiarazione finale del sinodo, riportata da Beda, condannava il monotelismo e accoglieva i canoni dei concili ecumenici di Nicea (325), di Efeso (431), di Calcedonia (451), dei due Costantinopolitani (381, 553), nonché i decreti del sinodo Lateranense del 649.

Conclusa la sua missione, G. ripartì per Roma in una data non nota; mentre attraversava la Gallia, cadde ammalato e morì. Nel corso del viaggio verso la Britannia aveva trovato ospitalità a Tours, la città di s. Martino, in omaggio al fatto che egli era stato a suo tempo abate di un monastero dedicato al santo; e appunto a Tours il suo corpo venne portato e sepolto con tutti gli onori.

C. Silva Tarouca sostenne che l'ordo Romanus, la compilazione liturgica che G. aveva scritto a Wearmouth e che, secondo la testimonianza di Beda, avrebbe avuto grande diffusione in Inghilterra, era conservato come una sezione della raccolta liturgica tramandata dal manoscritto n. 349 della Stiftsbibliothek di San Gallo, risalente alla fine del secolo VIII. Alla base di tale identificazione stava il fatto che la raccolta era stata esemplata, per esplicita ammissione dell'anonimo compilatore, per una terra posta a Occidente, teatro di forti contrasti di natura liturgica, allo scopo di far prevalere la liturgia di stile romano su quella deviante di carattere locale. A favore di tale tesi lo studioso sottolineava il fatto che si ha notizia di un'altra copia di una raccolta dal titolo analogo, conservata in epoca carolingia sempre a San Gallo e ora perduta, che sarebbe stata redatta in scrittura insulare, e dunque riconducibile all'area britannica. La proposta di Silva Tarouca, inizialmente accolta dagli studiosi di storia della liturgia, è stata in seguito smentita da M. Andrieu, autore del più completo studio sugli ordines Romani, il quale ha osservato, fra l'altro, che le terre occidentali di cui si parla nella raccolta sangallense sono da identificare con la Francia e l'Italia settentrionale, perché i santi cui si attribuisce l'evangelizzazione di quelle terre sono Ilario di Poitiers, Martino di Tours, Germano d'Auxerre e Ambrogio di Milano, e che fra le controversie liturgiche, cui la raccolta vuole rispondere, non sono presenti cenni a quelle tipiche della Britannia, che riguardavano soprattutto il computo pasquale e le modalità della tonsura. La prova più sicura contro l'identificazione del manoscritto sangallense con l'ordo di G. era però il fatto che nel codice in questione sono presenti testi redatti all'epoca di papa Sergio I (687-701) e interpolati verso la metà del secolo VIII; date evidentemente incompatibili con quelle dell'"archicantor" romano. La tesi di Andrieu, che propone di assegnare la raccolta di San Gallo all'area alsaziana o borgognona, e identifica l'occasione polemica nel desiderio di riproporre la liturgia di stile romano contro quella gallicana in vigore in quelle zone, è quella comunemente accettata anche oggi, e la possibile attribuzione a G. dell'ordo conservato a San Gallo non gode più di alcun favore.

Fonti e Bibl.: Beda Venerabilis, Vita beatorum abbatum Benedicti, Ceolfridi, Eorsterwini, Sigfridi atque Hwaelberhti, a cura di C. Plummer, Oxonii 1896, p. 369; Id., Historia ecclesiastica gentis Anglorum, a cura di B. Colgrave - R.A.B. Mynors, Oxford 1969, pp. 384-391; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, p. 371; C. Silva Tarouca, G. "archicantor" di S. Pietro a Roma. L'"ordo Romanus" da lui composto, in Atti della Pontificia Accademia romana di archeologia. Memorie, I (1923), 1, pp. 159-219; L.C. Mohlberg, Der älteste "ordo Romanus" und sein Verfasser Iohannes archicantor von S. Peter zu Rom, in Jahrbuch für Liturgiewissenschaft, IV (1924), pp. 178-182; A. Baumstark, Johannes archicantor und der römische Ordo des Sangall. 349, ibid., V (1925), pp. 153-158; M. Andrieu, Les "ordines Romani" du Haut Moyen Âge, III, Louvain 1951, pp. 1-21; C. Vogel, Versus ad Orientem. L'orientation dans les "ordines Romani" du Haut Moyen Âge, in Studi medievali, s. 3, I (1960), p. 452.

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