GIOVANNI XII

Enciclopedia dei Papi (2000)

Giovanni XII

Roland Pauler

Nacque verso il 937 dal prefetto romano Alberico II e da Alda, figlia del re Ugo d'Italia. Discendeva dunque, per parte di padre, dalla famiglia dei duchi di Spoleto: suo nonno era il duca Alberico e sua nonna Marozia, la famigerata figlia del senatore e console romano Teofilatto che aveva sposato in terze nozze il re Ugo, suocero del proprio figlio. Per conservare inalterata la supremazia della famiglia, poco prima di morire (31 agosto 954), Alberico II, che si dichiarava "principe e senatore di tutti i Romani", impegnò il popolo a eleggere papa, dopo Agapito II, Ottaviano, suo figlio e successore nella signoria della città. Il 16 dicembre 955 Ottaviano, pur non avendo raggiunto l'età canonica, salì al soglio pontificio (aveva, infatti, al massimo diciotto anni), assumendo il nome di Giovanni XII.

La sua elezione era in contrasto con il famoso decreto di papa Simmaco che proibiva qualsiasi forma di accordo circa la successione di un pontefice, mentre questi era ancora in vita. Raterio di Verona (Die Briefe, nr. 16, p. 80) sosteneva addirittura che Ottaviano non faceva parte del clero romano e che non aveva ricevuto alcuna istruzione religiosa. Tutti gli storici, che si sono occupati di lui, concordano che G. condusse una vita dissoluta; persino nel Liber pontificalis si legge che trascorse la sua esistenza nella lussuria e nella vanità ("totam vitam suam in adulterio et vanitate duxit", p. 246). Ciò nonostante la sua autorità spirituale fu riconosciuta da tutta la Chiesa e da diverse parti d'Europa gli giunsero domande e richieste di pareri o consigli in materia religiosa. Tuttavia i postulanti non provenienti dalla Germania o dall'Italia furono sostanzialmente meno numerosi di quelli che si rivolsero al suo successore Giovanni XIII: un particolare che potrebbe dipendere dalla lacunosità della documentazione, ma che solleva anche la questione se il papato non avesse perso credibilità a causa della cattiva fama di G., del suo fin troppo evidente coinvolgimento nelle lotte di potere interne a Roma e delle sue spedizioni militari.

Dal punto di vista politico, G. continuò a perseguire gli obiettivi del padre, cercando di salvaguardare l'autonomia di Roma e del "Patrimonium Petri" - compito per il quale, tuttavia, gli mancava la necessaria prudenza. Avviò dunque pericolose imprese tanto a nord, quanto a sud. Da una parte, entrò in conflitto con il re Berengario II e con suo figlio Adalberto per l'Esarcato di Ravenna; dall'altra, con l'appoggio dei duchi di Spoleto e dei marchesi di Toscana, cercò di far valere le rivendicazioni papali sull'Italia meridionale e intraprese una sfortunata campagna militare contro Capua e Benevento. Nel 960, quando il re Berengario, che allora combatteva il duca di Spoleto, occupò e saccheggiò alcuni territori pontifici, mettendo in pericolo l'esistenza della giurisdizione della Chiesa, G. chiamò in aiuto Ottone I. Contava probabilmente che il re tedesco sconfiggesse i re d'Italia - i quali avevano nemici anche nel nord della penisola - per poi ritirarsi discretamente, come gli imperatori carolingi. Inviò dunque alla corte tedesca il cardinale diacono Giovanni e uno scriniario di nome Azzone per rammentare a Ottone gli obblighi del "Patricius Romanorum" nei confronti della Chiesa e, presumibilmente, per offrirgli la dignità imperiale. Gli ambasciatori del papa erano accompagnati dal marchese Oberto I, dall'arcivescovo di Milano, dal vescovo di Como e da altri Lombardi che erano insoddisfatti del governo di Berengario. La notizia di Benedetto del Soratte (Benedetto, Chronicon, pp. 174 s.), errata anche cronologicamente, secondo la quale tale ambasceria fu inviata dagli oppositori romani del papa, potrebbe essere un'indicazione del successivo comportamento di Ottone I nei confronti di Giovanni XII.

Prima del suo ingresso nella Città Eterna, all'inizio del dicembre 961, il re tedesco giurò al papa per mezzo di delegati che "se, a Dio piacendo, fosse giunto a Roma", si sarebbe impegnato a esaltare la Chiesa di Roma con tutte le sue forze e a proteggere la persona, la vita e l'onore del papa. A Roma non avrebbe preso alcun provvedimento su cose che riguardassero i Romani o il papa stesso senza il consiglio di quest'ultimo. Dichiarò inoltre che intendeva restituire quanto appartenesse al Patrimonio di S. Pietro che fosse venuto in sua potestà e che avrebbe fatto giurare a colui al quale avrebbe trasmesso il "Regnum Italicum" di proteggere i beni della Chiesa. È possibile che questo giuramento determinasse la disponibilità del pontefice a incoronare imperatore il re di Germania (M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones, I, nr. 23) ed è probabile che Ottone dovette impegnarsi in tal senso all'inizio della campagna d'Italia, perché il papa fosse disposto a incoronarlo in S. Pietro. Da parte sua, G. dichiarò sotto giuramento, a nome proprio e del popolo romano, che sarebbe sempre rimasto fedele a Ottone e che mai avrebbe sostenuto Berengario e Adalberto. I rapporti tra il pontefice e il futuro imperatore dovettero essere comunque improntati a reciproca diffidenza, dal momento che G. temette minacce alla propria autorità sulla città.

Domenica 2 febbraio 962, giorno della Candelora, Ottone entrò a Roma e, insieme alla moglie Adelaide, fu unto e incoronato dal pontefice (J.F. Böhmer, Regesta Imperii, II, 5, nr. 294). Dopo l'incoronazione, G. inaugurò nella basilica di S. Pietro un sinodo, durante il quale si discusse, tra le altre cose, del progetto di Ottone di fondare a Magdeburgo un arcivescovato per l'evangelizzazione dei popoli slavi. Come i successivi sinodi in occasione d'incoronazioni, anche questo era stato programmaticamente convocato a beneficio dell'intera cristianità; dalle fonti non è, però, chiaro quali altri argomenti furono dibattuti. Non è possibile determinarne con precisione neppure la data di apertura e la durata; l'unica fonte di cui disponiamo, l'atto pontificio che, in vista dell'evangelizzazione degli Slavi, promuove ad arcivescovato il convento di Magdeburgo fondato dall'imperatore, risale al 12 febbraio del 962 (Papsturkunden, nr. 281). Il giorno seguente, l'imperatore emanò il cosiddetto Privilegium Ottonianum, per mezzo del quale confermava tutto quanto era stato concesso al papa dai re e dagli imperatori precedenti, soprattutto da Pipino il Breve e Carlo Magno (M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones, I, nr. 23; J.F. Böhmer, Regesta Imperii, II, 5, nr. 305); probabilmente anche il contenuto di questo privilegio era stato all'ordine del giorno del sinodo. Gli studiosi hanno ipotizzato che si discusse pure della condotta del giovane pontefice, ma su questo argomento le fonti non si pronunciano. Fino alla seconda metà del 962, G. si mostrò accondiscendente verso l'imperatore, cui, durante il soggiorno romano, aveva donato alcune reliquie (J.F. Böhmer, Regesta Imperii, II, 5, nr. 297), e gli venne incontro nella vicenda del vescovo Raterio di Verona - che era stato cacciato dalla sua Chiesa e che riebbe la sua diocesi - e nella questione dell'occupazione della sede arcivescovile di Reims. H. Wolter (pp. 71-4) ipotizza che entrambe le faccende furono dibattute e definite secondo i desideri dell'imperatore in un sinodo convocato da G. a Pavia nell'autunno del 962. Questa è l'ultima volta che i desideri dell'imperatore incontrarono l'approvazione del papa. In seguito, G. allacciò rapporti con il figlio di Berengario, Adalberto, il quale si era alleato ai Saraceni per difendere la propria eredità (J.F. Böhmer, Regesta Imperii, II, 5, nr. 312). Notizia di tale alleanza giunse a Ottone nell'Italia settentrionale ed egli inviò a Roma messaggeri che al loro ritorno, secondo la testimonianza di Liutprando da Cremona (Liber de rebus gestis Ottonis 4, pp. 160-61), non soltanto confermarono ogni cosa, ma riportarono anche dicerie incredibili su presunti delitti, immoralità e cattiva amministrazione del papa, dichiarando che a Roma erano fatti di pubblico dominio. A questo si aggiunse che i legati pontifici che avrebbero dovuto perorare la causa del papa contro Ottone a Costantinopoli, il vescovo Leone da Velletri e il cardinal diacono Giovanni, vennero fatti prigionieri a Capua. Con loro viaggiavano il bulgaro Salecco e Zacheo, che il papa aveva appena consacrato vescovo della missione d'Ungheria. Come si può leggere in alcune lettere loro affidate, essi avrebbero dovuto mobilitare l'Ungheria contro il Regno tedesco (J.F. Böhmer, Regesta Imperii, II, 5, nr. 314): il papa era diventato il centro di un sistema di alleanze antimperiali che poteva compromettere l'autorità di Ottone tanto in Italia, quanto in Germania. G. smentì, però, ogni accusa per mezzo di un'ambasceria e dichiarò che i presunti inviati a Costantinopoli erano degli impostori e le lettere in loro possesso delle falsificazioni, realizzate allo scopo di screditarlo di fronte a Ottone. Inoltre egli accusò l'imperatore di non aver mantenuto la promessa di restituire tutti i territori del "Patrimonium Petri": non lui, ma Ottone era lo spergiuro. I messaggeri dovevano anche mitigare le critiche alla condotta del pontefice ricordandone l'età: non si trattava di delitti, ma di intemperanze giovanili, che egli prometteva di emendare (ibid., nr. 316).

A questo punto l'imperatore inviò a Roma i vescovi Landward di Minden e Liutprando da Cremona perché lo difendessero e, in caso di necessità, proponessero il giudizio di Dio sotto forma di un duello tra cavalieri dell'imperatore e del papa. G. li accolse con ostilità e mandò a Ottone un'altra ambasceria. Prima che quest'ultima facesse ritorno, giunse nei pressi di Roma il re Adalberto, invitato dallo stesso G.: fu conclusa un'alleanza fra i due e il sovrano italiano fu accolto in città con tutti gli onori. G. aveva apertamente infranto il giuramento fatto a Ottone, offrendogli così l'occasione di intervenire in maniera decisa. Poiché questi avvenimenti possono essere ricostruiti esclusivamente attraverso fonti antipapali, si possono formulare soltanto ipotesi circa gli obiettivi che G. voleva raggiungere con la sua sorprendente politica.

Nell'autunno del 963 Ottone avanzò contro Roma. Il papa abbandonò le vesti sacerdotali per l'armatura e, secondo Liutprando da Cremona, assunse personalmente il comando degli assediati (Liber de rebus gestis Ottonis 11, p. 168; 15, p. 171). Tuttavia la resistenza non durò a lungo, poiché una parte dei Romani - presumibilmente già dall'ingresso in città di Adalberto - si era schierata contro il papa. Ogni difesa fu vana e G. fuggì dalla città insieme ad Adalberto, portando con sé beni della Chiesa e riparando a Tivoli. Il partito imperiale romano aprì le porte della città a Ottone, mediante la consegna di alcuni ostaggi s'impegnò ad essergli sempre fedele e, con solenne giuramento, gli assicurò dunque il diritto di controllare l'elezione dei futuri pontefici. Il 6 novembre, su richiesta del popolo romano e dei vescovi presenti a Roma, si riunì in S. Pietro un sinodo, presieduto dall'imperatore, per investigare le colpe del papa. Sull'andamento del concilio abbiamo la testimonianza, invero tendenziosa, di Liutprando da Cremona (ibid. 9-15, pp. 164-71). Tra i partecipanti egli ricorda, oltre ad alcuni vescovi tedeschi e italiani che viaggiavano al seguito del re, i presuli degli immediati dintor-ni di Roma, diciassette cardinali, i funzionari della Curia, gran parte della nobiltà romana e i rappresentanti del popolo e della milizia. Tra i Romani si trovava un folto gruppo di uomini ai quali G. aveva in precedenza accordato la propria fiducia. Durante la prima seduta, alla domanda dell'imperatore su dove si trovasse il papa, il cardinal presbitero Pietro, il vescovo Giovanni da Narni e il cardinal diacono Giovanni presentarono diverse accuse contro G.; il cardinal diacono Benedetto lesse una citazione il cui contenuto, su rinnovata domanda dell'imperatore, fu confermato dai presenti. Al papa si rivolgevano le seguenti accuse: aver celebrato la messa senza comunicarsi, aver ordinato un diacono in una stalla e in un orario inusitato, aver consacrato vescovo di Todi un bambino di dieci anni, aver nominato vescovi in cambio di denaro, aver compiuto sacrilegi e numerosi adulteri, aver portato armi, la passione per la caccia, l'accecamento del padrino Benedetto, l'evirazione e l'uccisione del cardinal suddiacono Giovanni, filtri d'amore diabolici, l'invocazione di idoli durante il gioco dei dadi, il mancato rispetto degli orari delle preghiere canoniche e l'aver trascurato di farsi il segno della croce. Non è possibile stabilire quanto queste accuse corrispondessero alla realtà e quanto, invece, siano state inventate dagli accusatori o dallo stesso Liutprando (ibid. 10, pp. 166 s.); in ogni caso, l'assemblea decise di convocare Giovanni XII.

Il sinodo citò tre volte in giudizio il papa, concedendogli la possibilità di un giuramento purgatorio; esso si sforzava dunque di seguire un procedimento corretto dal punto di vista del diritto ecclesiastico. G. respinse questi inviti e proibì ai partecipanti, pena la scomunica, di eleggere un nuovo papa al suo posto. Il 4 dicembre, infine, il concilio si riunì per pronunciare il giudizio, e a quel punto lo stesso Ottone accusò G. di spergiuro e ribellione e si appellò al giudizio dell'assemblea. I membri del sinodo chiesero la deposizione di G. più per la condotta immorale che per gli errori politici ed egli fu formalmente considerato apostata. Al suo posto venne eletto per triplice acclamazione il protoscriniario Leone, un laico, che fu intronizzato in Laterano e consacrato in S. Pietro il 6 dicembre (J.F. Böhmer, Regesta Imperii, II, 5, nrr. 318-31; H. Zimmermann, Papstabsetzungen, pp. 83-8; H. Wolter, pp. 74-80).

I provvedimenti presi dal sinodo non avevano deciso il destino di G., tanto più che i partecipanti non erano riusciti a riassumere in un giudizio corretto dal punto di vista del diritto ecclesiastico le accuse mosse contro di lui. Il 3 gennaio del 964 scoppiò a Roma una rivolta, sobillata da G. per far assassinare Ottone e papa Leone. L'imperatore la represse nel sangue e si fece consegnare cento ostaggi, che liberò dopo al più una settimana, poco prima della spedizione contro Adalberto, accampatosi nei dintorni di Spoleto (J.F. Böhmer, Regesta Imperii, II, 5, nrr. 340-43). A Roma, il vento cambiò nuovamente a febbraio. Leone VIII fu scacciato e si rifugiò presso l'imperatore, G. tornò e si vendicò. Fece mutilare i due prelati che, nella veste di inviati pontifici, avevano stretto il patto con Ottone: ad Azzone fu tagliata la mano destra, al cardinal Giovanni il naso, la lingua e due dita (ibid., nrr. 344-46). A questo punto G. riunì un concilio, al quale parteciparono sedici vescovi dei dintorni e dodici cardinali, che per la maggior parte avevano preso parte anche al sinodo della deposizione. L'assemblea si riunì per la prima volta il 26 febbraio 964, dichiarò nullo il sinodo dell'imperatore, che non si era svolto alla presenza del pontefice, e ne invalidò tutte le decisioni. Il papa Leone VIII fu dichiarato illegittimo, privato delle sue dignità ecclesiastiche e scomunicato. A differenza di quello convocato dall'imperatore, questo concilio si attenne strettamente alle consuetudini giuridiche, mantenendosi entro la tradizione sinodale romana. Si riprovò lo spergiuro di Leone, che aveva violato il dovere di fedeltà a G. e inoltre aveva assunto la carica pontificia, quando era in vita il papa legittimo. Si biasimò infine la sua sfrenata ambizione e si condannò che egli, laico e neofita, fosse asceso al soglio pontificio in modo simoniaco e contro il diritto ecclesiastico. La deliberazione nei confronti di Siccone vescovo di Ostia, ordinato da Leone e fuggito con lui, fu rimandata fino alla terza seduta per poter scoprire dove si nascondeva e dargli la possibilità di giustificarsi. I due vescovi che avevano ordinato Leone VIII, Benedetto di Porto e Gregorio di Albano, si sottomisero a G. e resero davanti al sinodo la confessione orale e scritta di aver eletto un laico alla successione del papa legittimo, durante la vita di quest'ultimo e contro gli statuti dei santi padri. Tutti coloro che erano stati ordinati da Leone dovettero riconoscere di aver ricevuto una carica da chi non aveva facoltà di conferirla. Nello spirito della riforma cluniacense, Leone VIII fu addirittura accusato di aver fatto ordinazioni simoniache.

Rifacendosi alle risoluzioni di un concilio Lateranense del 769, tutte le nomine operate da Leone furono dichiarate nulle. Coloro che le avevano ricevute furono non solo riportati al loro stato precedente, ma anche privati della possibilità di salire a cariche più alte. Nella terza seduta del sinodo, il vescovo Siccone di Ostia, che non si era presentato, fu deposto e scomunicato (ibid., nrr. 347-49; H. Zimmermann, Papstabsetzungen, pp. 90-2; H. Wolter, pp. 80-2; E.D. Hehl, Der wohlberatene Papst, pp. 271-75). Sembra che G. tornasse a governare Roma nella pienezza dei suoi poteri, visto che non è documentato alcun tipo di opposizione, sebbene egli avesse punito duramente e crudelmente alcuni sostenitori dell'imperatore e di Leone VIII. Ottone non poté reagire subito ai fatti accaduti a Roma, ma prima dovette armarsi e attendere rinforzi dal di là delle Alpi. G. temeva il suo imminente arrivo, cui non poteva più opporre l'alleanza con Adalberto, che aveva sciolto dopo la fuga da Roma. Probabilmente per riconquistare il favore imperiale, liberò il vescovo Otgaro di Spira, che Ottone aveva lasciato a Roma a garanzia dei suoi diritti imperiali, ma che al suo ritorno G. aveva fatto imprigionare e fustigare. Il papa non poté essere raggiunto dal castigo imperiale, perché morì il 14 maggio del 964. Con l'eccezione di Liutprando, le fonti registrano la sua morte senza commenti; secondo la polemica versione del mordace vescovo di Cremona, G. morì senza penitenza e senza estrema unzione per le conseguenze di un colpo apoplettico, che lo colse, come un giudizio divino, mentre commetteva adulterio (Liber de rebus gestis Ottonis 20, pp. 173 s.). La versione di Liutprando è stata accolta, soprattutto dagli storici più antichi, come la degna cornice della meritata fine di un eroe negativo, punito da Dio per la sua vita dissoluta e per il tradimento della luminosa figura storica del primo imperatore sassone. G. venne sepolto nella basilica lateranense.

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(traduzione di Maria Cristina Coldagelli)

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