VERGA, Giovanni

Enciclopedia Italiana (1937)

VERGA, Giovanni

Attilio Momigliano

Novelliere e romanziere, nato il 31 agosto 1840 a Catania, ivi morto il 27 gennaio 1922. A Catania ebbe come maestro un verseggiatore byroniano e montiano, Antonino Abate. Risentì di questa educazione nel suo primo romanzo edito, I Carbonari della montagna (Catania 1861-62), racconto storico del periodo murattiano. Nel '63 pubblicò nel giornale fiorentino La nuova Europa un romanzo d'argomento contemporaneo e prevalentemente amoroso, Sulle lagune. Nel '66, con Una peccatrice (Torino), cominciò la serie dei romanzi passionali, che comprende Storia di una capinera (Milano 1871), Eva (ivi 1873), Tigre reale (ivi 1873), Eros (ivi 1875). Se si prescinde dai primi due romanzi, insignificanti e rimasti quasi ignoti, è questa la prima maniera del V., languidamente sentimentale nella famosissima Storia di una capinera, morbidamente ed enfaticamente romantica negli altri racconti.

Nel '69 il Verga era andato a Firenze, poi a Milano, dove visse a lungo e da cui si assentò qualche volta, tra il '76 e l'80, per lutti domestici. L'allontanamento dalla città nativa, provinciale e isolata dal movimento letterario, influì sulla sua operosità anteriore all'80. Alle reminiscenze della letteratura sentimentale e romantica - italiana e francese - si aggiunsero le suggestioni degli ambienti mondani e della scapigliatura milanese. Di qui il fondo letterario e falso della sua prima maniera, e quell'infatuazione cupa e passionale che è insieme reminiscenza libresca e autobiografia torbida. Maggiore serietà c'è nella Storia di una capinera, dove è evidente il proposito di dimostrare come la sensibilità sentimentale di Maria metta capo naturalmente al suo sventurato amore; preannunzî del Verga maggiore, poeta della vita normale, della realtà aspra che si deve affrontare con forza e con buon senso, ci sono nell'Erminia di Tigre reale, e soprattutto nella protagonista di Eva. Era questa la nota che il Verga, scoprendo faticosamente il fondo del proprio animo, approfondendo la malinconia della letteratura borghese, ritornando alle sane impressioni dei giorni passati da fanciullo nella campagna siciliana, era destinato a portare nel verismo, il quale rimaneva in lui una concezione triste, ma era frenato dalla ripugnanza per la patologia fisica e morale.

Questa concezione si venne formando lentamente. La novella Nedda (Milano 1874), con cui, per ragioni contenutistiche più che poetiche, la tradizione critica fa incominciare il suo verismo, ha gia una protagonista verghiana (una povera contadina di Sicilia): ma ha, per lo più, l'intonazione di una "pietosa istoria", raccontata da un borghese di buon cuore; ha, troppo spesso, il taglio e il tono d'un racconto edificante o educativo, e uno stile che, a poche battute d'una severa e costernata oggettività, mescola con un ibridismo continuo l'osservazione puramente documentaria della realtà, la gentilezza manierata della Storia di una capinera e la compostezza ricalcata sul Manzoni.

Il mutamento d'intonazione è più visibile nell'Eva del romanzo omonimo, una piccola e graziosa creatura che ha però un senso positivo della vita ed è la prima chiara voce di quella considerazione quadrata e tenace della fatica dell'esistenza che riempirà di sé l'opera del V. In questo romanzo prepondera ancora lo scrittore mondano e falso. Ma la storia logica, malinconica e senza falsi fascini, dell'amore di quella ballerina, forzata da Enrico ad abbandonare gli splendori del palcoscenico e ridottasi a vivere con lui nella sua casa squallida, ha già in molte pagine una solida motivazione artistica.

Le novelle Vita dei campi (Milano 1880) segnano l'inizio della seconda maniera: un verismo secco, alieno per lo più dalle lente accumulazioni tipo Zola, e, come notò L. Russo, spirituale, paesano e affettuoso, mentre il realismo e il naturalismo francese erano meccanici, metropolitani e aspri. Qualche cosa di sistematico c'è anche nel V., non solo nella soverchia accentuazione della sicilianità dello stile, ma anche nella linea generale, se non di Mastro-don Gesualdo, dei Malavoglia, i quali, se evitano la descrizione metodica e tendenziosa e sono, nelle singole pagine, sintetici, sembrano poi, nel complesso, scarsi d'impeto, come mortificati da un programma - sia pure vivificato da un cuore profondo e da una fantasia coerente - e, infine, non veramente sintetici. Caratteristiche che dànno qualche ragione anche alla tepidezza del lettore comune.

Una scarna poetica verista si può spigolare nell'opera del V. nelle pagine intitolate Fantasticheria (in Vita dei campi), dove egli fissa il tema della sua seconda maniera in polemica con il sé stesso della prima e preannunzia l'argomento dei Malavoglia; nel preludio all'Amante di Gramigna (Vita dei campi), in cui però, a parte l'ubbia naturalistica, l'arte è concepita con una purezza flaubertiana; nella prefazione ai Malavoglia, nella quale il tema di esso e dell'intero ciclo dei Vinti, che doveva comprendere anche Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso e rappresentare le sfortunate ambizioni degli uomini in una scala ascendente dal giovane pescatore 'Ntoni al protagonista dell'ultimo volume, è descritto con una terminologia naturalistica. Si aggiungano le affermazioni testimoniate dall'Ojetti (Alla scoperta dei letterati, Torino 1895) - notevolissima questa: che a scrivere s'impara "ascoltando" -, e l'aneddoto del giornale di bordo che svela al V. lo stile che gli occorre (Riccardo Artuffo, in La Tribuna, 2 febbraio 1911).

Il carattere principale del verismo del V. è l'illusione che lo stile sia non l'uomo, ma la cosa. Di qui la sua semplicità, spesso espressiva, talora ricalcata faticosamente sui discorsi "ascoltati"; di qui la sua secchezza, spesso potente, talora fredda, e l'impressione che, in complesso, al V., troppo studioso dell'impersonalità, manchi la facilità superiore dei grandissimi.

Il motivo di Vita dei campi è la rappresentazione d'una umanità primitiva e istintiva: troppo ischeletrita in Cavalleria rusticana, e talora abbassata a osservazione caratteristica e folcloristica; meglio riuscita nella Lupa, anche meglio in Jeli il pastore e soprattutto in Rosso Malpelo, dove la linea un po' oscillante fra il ritratto e il racconto non turba però troppo l'impressione lirica fondamentale di "leggenda popolare" (Capuana) e s'incomincia a vedere che sotto la superficie compressa del verismo verghiano scorre una forte corrente di sentimento. Qualche volta le pagine di queste novelle, come poi quelle culminanti dei due maggiori romanzi, si alzano a un canto desolato, che è come l'interpretazione lirica che il V. fa del pathos dei derelitti, ed è la sublimazione lirica del verismo.

Con I Malavoglia (Milano 1881) il V. ritorna alla sfera della vita sociale. D'ora innanzi il tema della sua arte sarà, si può dire sempre, la rappresentazione delle classi più umili della società. I Malavoglia ritraggono, nelle persone della famiglia protagonista, le "tenaci affezioni dei deboli", "l'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alla tempesta della vita", e la triste sorte di uno di essi che, per brama di meglio, si stacca dal gruppo, e soccombe. Il motivo lirico è il sentimento della famiglia, dell'onestà tradizionale, gli umili e santi affetti e bisogni che tengono legati fra loro i protagonisti: rappresentati con maggiore solidità e solennità in nonno 'Ntoni, e riflessi con tenera malinconia in tutti gli altri, e nello stesso giovane che si ribella agl'ideali familiari e degenera, e tuttavia li riconosce quando, tornato al paese dopo la vana esperienza del nuovo e dell'ignoto, si sente indegno della casa che ha abbandonato.

Intorno ai Malavoglia è raccolta tutta la vita del paese, con un'ispirazione unitaria più continua che in Mastro-don Gesualdo: basti citare come esempio il capitolo III, magistralmente orchestrato intorno al motivo della burrasca che farà naufragare la barca con i lupini. I compaesani dei protagonisti costituiscono l'ambiente in cui questi vivono, la causa e il contraccolpo delle loro vicende: di qui il colore uguale con cui sono rappresentati, quella tinta di miseria e di malinconia, che non solo risponde alla verità della loro vita, ma anche al tono delle peripezie dei Malavoglia, e avvolge tutto il romanzo d'un'atmosfera grigia e dolente. La vita di Aci Trezza non ci si presenta pettegola e piccina, come quella degli ambienti paesani in scrittori borghesi, ma seria, come è per quei pescatori, sui quali il V. non s'innalza con l'arguzia dell'uomo che si ritiene superiore. (Invece il tono di Mastro-don Gesualdo sarà quello dello scrittore staccato, assai meno verista, isolato dall'ambiente umile e paesano: il V. di questo secondo romanzo farà causa comune, s'immedesimerà quasi soltanto con i personaggi socialmente o sentimentalmente più elevati: il protagonista, Bianca e i due fratelli, Diodata).

Quest'unità fra personaggi di sfondo e protagonisti è mirabile: ma, se di rado nei singoli capitoli, in complesso questa pittura di piccoli interessi, rancori, intrighi, cinismi, passioni frammezzo alle vicende dei Malavoglia, pesa un po' e fa desiderare un procedimento più sintetico.

All'unità del tono dei Malavoglia contribuisce anche il paesaggio, non lirico, non largo, ma domestico, colorito delle preoccupazioni, delle abitudini, dei sentimenti dei paesani, non disgiungibili né da questi né dal paese. Però il paesaggio, pur conservandosi aderente all'umiltà, alla miseria, al dramma dei personaggi, pur avendo la loro fisionomia povera e dolente, ha un ufficio suo: è un po' il conforto di quell'esistenza, un po' il gran tutto in cui quelle pene si confondono e annegano. Per questa via il paesaggio diventa il soffio che solleva il romanzo, il motivo melodico che, nei momenti culminanti, fa di quelle pene minute e insistenti un canto desolato e tranquillo. Si veda, per questo, la chiusa del libro; e si noti che un'intonazione e un ufficio simili avrà ancora il paesaggio in Mastro-don Gesualdo, nella notte di ricordi che il protagonista passa accanto a Diodata, nelle pagine in cui la vista dei campi conquistati e fertili fa dimenticare a Gesualdo la pena incessante della sua vita. Ma nei Malavoglia il senso del paesaggio è più costante, più unitario e più profondo: più che di paesaggio è perciò da parlare di "patria", cioè del motivo che, abbracciando il cielo di Aci Trezza, il mare, il suolo, la casa, il paese, costituisce il centro affettivo del romanzo. Per esso, nei Malavoglia circola un soffio religioso, d'una religiosità domestica e semplice, che colorisce d'un'affettuosità intima tutta la scena fra cui si svolge quell'umile vita. Per esso si scopre che il motivo ispiratore di tutte le pagine del libro è quello indicato dalle parole dal V.: "il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere" (Fantasticheria), questa interpretazione - prima e unica nella letteratura italiana - del lirismo dei poveri. Per questo riguardo il V. è andato al di là del Manzoni, in virtù di quel suo sforzo d'immedesimazione, tanto da darci della patria, della natura e del cielo una concezione ancora ignota alla poesia italiana, adeguando, con perfetta verità di tono, il mare, il cielo, il paesaggio di Aci Trezza ai cuori semplici di quei pescatori.

Mastro-don Gesualdo (Milano 1889) è la biografia d'un muratore siciliano, Gesualdo Motta, arricchito in mezzo ad avversità d'ogni sorta, circondato dalla malignità e dall'invidia dei rivali e dei beneficati, amareggiato anche dalla lontananza spirituale della moglie, di nascita troppo superiore alla sua, e infine dall'indifferenza della figlia, che tiene della finezza aristocratica della madre. La sua vita è una continua lotta che si risolve in una sconfitta: egli muore dopo lunghe sofferenze, quasi abbandonato, nel palazzo dove la figlia e il genero scialacquano le ricchezze che egli ha guadagnato. Gesualdo è della stessa tempra di nonno 'Ntoni, ma ha fatto esperienze più varie, e vive in mezzo a un mondo più vario: perciò il suo romanzo ha un aspetto più multiforme. Forse, anche, in talune pagine il V. si dimostra artista più potente: forse in tutta la sua opera non c'è nulla di uguale alla morbidezza delle tinte e al respiro riposato della notte che Gesualdo passa con Diodata alla Canziria: e certo soltanto nella descrizione della morte di Gesualdo il V. ha raggiunto l'evidenza gigantesca dei realisti immortali. Questi due passi mostrano chiaramente le due qualità che il V. ha acquistato negli anni che corrono fra il 1881 e il 1889. Anzitutto una tecnica più dispersa e più potente, un fare più aerato, più complesso, più sensibile, che si manifesta nella preparazione discreta e pietosa del matrimonio di Bianca, nelle figure di Diodata e dei Trao, nella costruzione dei capitoli - pittoresehi, mobili, corsi da folate di vita, eppure quasi sempre equilibratissimi e convergenti verso il motivo fondamentale (v. per es., nel I come spicca, tra la confusione dell'incendio e la selvatichezza spaurita dei Trao, la figura gagliarda di Gesualdo) -; un atteggiamento meno sorvegliato e più spontaneo, che fa apparire la dura disciplina antilirica dei Malavoglia come la via necessaria perché il V. potesse abbandonarsi alla lirica, al romanticismo e ad un linguaggio meno idiotistico senza aver paura del lirismo, dell'emozione torbida e della letteratura. Poi, una pittura di una sicurezza e potenza caratteristica del tutto nuove, che si rivela nei ritratti (il sensale nel cap. II, donna Agrippina nel cap. III, le acqueforti di Diego e Ferdinando, la Rubiera inchiodata dall'apoplessia), nei quadri (la morte di Nunzio), negli ambienti (il palazzo del duca), nel gusto spicciolo del colore e della linea, in una capacità classica e violenta di cogliere la vitalità delle cose, del paesaggio e delle persone.

Il linguaggio del V. è diventato a volte più sfumato, a volte più massiccio, più energico che nei Malavoglia. In complesso il V. è ora più multiforme, tutto motivi, senza insistenze. Ma a questa maggiore ricchezza di attitudini è venuta meno l'armonia che teneva insieme i Malavoglia, libro più povero e più coerente. L'intonazione di Mastro-don Gesualdo oscilla fra il caratteristico e l'epico-tragico: un tono caratteristico che sta di mezzo fra la serietà dei Malavoglia e la frivolezza degli scrittori borghesi, e sale spesso verso il pittoresco di alto stile; un tono epico-tragico, che si sfibra in certi capitoli per culminare negli ultimi, dove l'umanità del protagonista si rivela in tutta la sua ricchezza, e la melodia triste dei momenti più ispirati del V. si fonde con un realismo maschio. L'oscillazione fra i due toni e la leggera preponderanza del primo corrispondono alla preponderanza dell'ambiente sul protagonista, o almeno all'oscillazione dell'intonazione artistica fra i due elementi, che qui non sono più fusi come nei Malavoglia. Ma è grande in Mastro-don Gesualdo, pur continuando anche in questo romanzo l'abuso della parte dialogata, la vivacità degli affreschi drammatici; grande la spontaneità, che talora sembra quasi foga sorvegliata. Mastro-don Gesualdo è un libro pieno d'impeto: c'è in esso un senso della vita non più mortificato, ma largo e pronto. Si direbbe che il V. si senta più sicuro e più forte: e quindi è meno sistematico e meno verista.

Il ciclo dei Vinti non fu continuato: e della Duchessa di Leyra il V. scrisse soltanto il primo capitolo.

Fra i due maggiori romanzi stanno Il marito di Elena (Milano 1882), che nasce dalla stessa filosofia della vita dei Malavoglia, ma preannuncia la psicologia più indefinita della moglie e della figlia del Motta e la florida vena pittoresca di Mastro-don GesiMldo; le Novelle rusticane (Torino 1883), dove, in racconti non di rado un po' secchi o slegati, si continuano o si preannunciano motivi dei due romanzi, e soprattutto si presente, nelle pitture grottesche o sintetiche, l'abilità figurativa di Mastro-don Gesualdo, come succede in Per le vie (Milano 1883), novelle dov'è ritratta, con la solita secchezza, la vita dei bassifondi milanesi e nelle quali, come in una raccolta posteriore, Don Candeloro e Ci. (ivi 1894), il V. abbandona il regionalismo nativo per rientrare negli ambienti caratteristici del realismo straniero. Stanno di mezzo fra quel regionalismo e questo realismo le novelle di Vagabondaggio (Firenze 1887).

Delle altre opere del V. meritano una menzione particolare i drammi, soprattutto per il posto che occupano nella storia del teatro verista: vedi in particolare Cavalleria rusticana (1884), derivata dalla novella omonima.

Altre opere: Primavera e altri racconti (Milano 1876); Drammi intimi (Roma 1884), in parte ristampati nei Ricordi del Capitano d'Arce (Milano 1891); Dal tuo al mio (ivi 1906); Teatro di G. V. (ivi 1912). Per indicazioni di opere minori e di lettere, v. il libro fondamentale di L. Russo, Giovanni Verga, nuova redazione, Bari 1934.

Bibl.: Del V. non esiste una biografia. Sulla sua opera: L. Capuana, Studi sulla letteratura contemporanea, I, Milano 1880; II, Catania, 1882; id., Per l'arte, Catania 1885; id., Libri e teatro, ivi 1892; id., Gli "ismi" contemporanei, ivi 1898; id., Cronache letterarie, ivi 1899; F. Torraca, Saggi e rassegne, Livorno 1885; B. Croce, G. V., in La Critica, 1903, poi in Lett. della nuova Italia, 3ª ed., III, Bari 1929, pp. 5-32; L. Russo, G. V., Napoli 1920 (prima edizione del libro già cit.: ediz. da consultarsi per le Curiosità e testimonianze bio-bibliografiche); A. Momigliano, Impressioni di un lettore contemporaneo, Milano 1928 (v. gli articoli Rileggendo V., del 1921-23); id., G. V. narratore, Palermo 1923; F. De Roberto, Il maestro di G. V., Stato civile della "Cavalleria rusticana", Il volo d'Icaro (Domenico Castorina e G. V.), La duchessa di Leyra, Storia della "Storia di una capinera", in La Lettura del settembre 1920, gennaio e ottobre 1921, giugno e ottobre 1922; G. A. Borgese, Tempo di edificare, Milano 1923; A. Navarria, Le due edizioni delle Novelle rusticane, I primi romanzi di G. V., in L'educazione nazionale, 1921, nn. 13-14, 1922, n. 2; id., I Malavoglia, in Lunario siciliano di gennaio-aprile 1928; Studi verghiani (3 fascicoli a cura di L. Perroni), Palermo 1929; G. Marzot, V. e la tradizione, in Pan, agosto 1934. Più minute indicazioni nell'opera citata del Russo.