TARASCHI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TARASCHI, Giovanni (Zohane Tarasco)

Luca Silingardi

Pittore e plasticatore attivo a Modena nella prima metà del XVI secolo.

Come è stato recentemente ipotizzato, l’esistenza di più fratelli Taraschi dediti alla pittura – addirittura tre o anche quattro – pare essere «un abbaglio storico […] protratto e aggrovigliato nel tempo» (Dugoni, 2006, p. 107). Fu probabilmente un refuso riportato da Francesco Forciroli nei suoi Antiqua et recentia illustrium virorum Mutinensium monumenta, manoscritto redatto tra il 1586 e i primi del XVII secolo, in cui si nomina un solo Taraschi di nome Giulio (Forciroli, 2007), a far sì che al nome di Giovanni – al momento l’unico attestato dalle fonti (Dugoni, 2006, p. 121 nota 114) – fosse affiancato quello di Giulio, dando così avvio a una storiografia moderna che, da Ludovico Vedriani in poi (1662), ripreso da Gian Filippo Pagani (1770) e da altri (Lanzi, 1795-1796, p. 262; Zani, 1824, pp. 121 s.; Venturi, 1882, p. 137), diede per scontata l’esistenza di «tre fratelli molto eccellenti nel dipingere particolarmente a fresco» (Vedriani, 1662, p. 85). Solo gli storiografi più attenti, come Mauro Lazarelli, che all’epoca aveva diretto accesso a fonti archivistiche del monastero benedettino di S. Pietro in Modena poi disperse, e Girolamo Tiraboschi, avevano preferito menzionare un solo Taraschi: Lazarelli il solo Giovanni (Lazarelli, 1710-1711, cc. 87v-88r; Id., 1712, c. 57r; Id., 1714, pp. 104, 111), e Tiraboschi, sulla scorta di Forciroli, il solo Giulio (Tiraboschi, 1786, p. 549), pur menzionando la citazione di Giovanni da parte di Lazarelli (ibid., p. 550). Gusmano Soli, nel suo manoscritto sulle Chiese di Modena pubblicato postumo nel 1974, in alcuni brani scrive dei “fratelli Taraschi” (Soli, III, 1974, pp. 123, 183, 187, 191), in altri di un singolo e generico “Taraschi” (ivi, pp. 149, 167, 225, 230), e in altri ancora ne cita addirittura quattro: Giovanni (ivi, pp. 113 s., 123, 194, 222), Giulio (ivi, p. 194), Giacomo (Soli, II, 1974, p. 162) e Gian Antonio (Soli, III, 1974, p. 116), da intendersi forse come estensione del nome Giovanni. Si ritiene plausibile, invece, vista anche l’omogeneità stilistica delle opere a lui attribuite, l’esistenza del solo Giovanni Taraschi, l’unico – come poc’anzi ricordato – citato dalle fonti: di lui, tuttavia, al momento si ignorano la data e il luogo di nascita, che si presume però modenese, vista la sua attività nella città emiliana.

I documenti finora rintracciati riferiscono della collaborazione di Giovanni con Gian Gherardo dalle Catene, Cesare Cesi e Geminiano Falloppi all’allestimento, nel 1529, di un arco trionfale per celebrare l’ingresso a Modena dell’imperatore Carlo V, commissionato da Giacomo Castelvetro (Spinelli, 1897, p. 195; Manicardi, 1984, p. 123); delle decorazioni, registrate nei repertori di spesa della Camera di Giberto II Pio, signore di Sassuolo, da lui eseguite per alcune stanze della Rocca di Sassuolo, in occasione della venuta di papa Paolo III Farnese nel 1543, di cui si menziona in particolare la spesa di 228 lire e soldi 13 «per frissi [fregi] fatti a figure della sala et camera dell’Invidia» (Cionini, 1902); di quattro opere destinate agli archi trionfali per accogliere Paolo III a Ferrara nell’aprile del medesimo anno (Cittadella, 1868); della stima fatta assieme ad Alberto Fontana, su incarico dei conservatori della città, in quanto considerati entrambi “insigni pittori modenesi”, di un perduto dipinto di Dosso Dossi per la cappella già di San Michele, poi di San Giovanni Battista, oggi del Crocifisso – ottava a sinistra – nella chiesa abbaziale di S. Pietro in Modena (Campori, 1855); e, nel 1557-58, dell’ancona del primo altare a destra nel duomo di Modena, che racchiudeva la pala della Concezione dello stesso Dosso (Mancini, 1998, pp. 38 s.).

In quegli stessi anni – 1556, 1557 e 1561 – Giovanni partecipò alla realizzazione di alcuni apparati effimeri in occasione di particolari feste pubbliche (Mazza, 1996, p. 185). Nel 1556 realizzò la parte pittorica del carro allegorico della Confraternita di S. Pietro Martire, di cui era confratello, per la processione del Corpus Domini il 4 giugno; era il carro di re Nabucodonosor, che rappresentava il sovrano che erige il “colosso dorato” proponendolo all’adorazione dei sudditi: «caro belissimo adornato con li soi teloni dipinto a figure grande de colori fini» (Baracchi, 1988, p. 289), su cui si ergeva una statua dorata che reggeva uno scettro, opera di Antonio Begarelli (Veratti, 1868, p. 424; Baracchi, 1988). Il carro era stato costruito da tale Camillo Panizzi, detto Bolognese, molto esperto, e nella sua parte bassa era riprodotta una fornace, in cui erano nascosti artificieri con fuochi d’artificio (Calore, 1983, p. 81). Nel 1557 Taraschi dipinse un «carro de la Regina di Saba […] molto misteriosamente fabbricato» (Mazza, 1996, p. 185), e nel 1561 lavorò al terzo arco dell’ingresso trionfale in Modena del duca Alfonso II, destinato a celebrare, secondo il piano iconografico stilato da Gian Maria Barbieri, cancelliere della Comunità modenese, le virtù del duca ereditate dagli avi materni e paterni. In esso, come «encomio al principe in materia di fortezza» (Manicardi, 1984, p. 125), furono rappresentate le più celebri battaglie combattute e vinte dagli Estensi – quella di Rantino, di Albinea, di Ravenna e del Po – affiancate da allegorie e motti esplicativi. Sono queste le ultime opere note di Taraschi, che realizzò anche «il tritone che suona la buccina e l’impresa estense sotto il vòlto dell’arco» (ibid.).

Taraschi morì a Modena, il 7 agosto 1563, sotto la parrocchia di S. Bartolomeo e fu sepolto nell’antica chiesa di S. Matteo, detta di S. Domenico (Modena, Archivio storico comunale, Registro dei morti degli anni 1554-1568, n. 1, c. 164r, n. 211, reso noto da Dugoni, 2006, p. 121 nota 114). Assunto, dunque, che sia esistito un solo pittore detto “Tarasco” o “Tarasca” o ancora “Taraschi”, appunto Giovanni, l’unico indicato nelle fonti documentarie poc’anzi citate, vanno dunque a lui restituite le opere, già riferite ai cosiddetti “fratelli Taraschi” o al solo Giulio, che Forciroli dice «discepolo di Pellegrino Munari […] in Roma, dove, mentre era giovane, stette molti anni», appuntando a margine: «Costui nel disegno et buona maniera del dipingere non fu niente inferiore a Nicolò dell’Abate, che viveva et fioriva nell’istesso tempo» (Forciroli, 2007, p. 163). Rientrato a Modena, Giovanni eseguì i fregi delle facciate del palazzo di Giovanni Battista Molza, “in capo al Castellaro”, e di casa Fogliani in Canal Chiaro (ibid., ripreso da Tiraboschi, 1786, p. 549), costituendosi come iniziatore della tipologia decorativa del fregio dipinto in città. Vedriani, nel 1662, gli attribuì le medesime opere, citando gli stessi edifici, nel frattempo rispettivamente abitati dal marchese Silvio Molza e da Annibale Bellincini, anche se entrambe le decorazioni non erano più esistenti a quell’epoca, per via del rifacimento dei prospetti, riferendo che oramai erano visibili solo le pitture, sempre in Canal Chiaro, di una casa «dirimpetto della Specieria de’ signori Candrini», dove «si conserva un poco di fragmento, e molte figurine ne’ contorni delle finestre», come pure «quell’altro fragmento misterioso, che si vede a chiaro scuro», della facciata di una casa «posta all’incontro delle Putte del Canalino» (Vedriani, 1662, p. 85), oltre al fregio con «figure […] belle anch’esse» di casa Fiordibelli (ibid., p. 69); quest’ultima da riconoscere non nel celebre palazzo Casotti, poi Fiordibelli, in Reggio Emilia, il cui fregio staccato, in collezione Corbelli, è ora pressoché unanimemente attribuito a Nicolò dell’Abate, ma, sempre stando a Vedriani, nella casa, purtroppo riconfigurata nei secoli successivi, che segue il palazzo Castelvetro, poi Ingoni, nell’attuale rua Muro 74 in Modena, procedendo verso via Emilia. Forciroli menziona anche «una Cena del Signore con le figure grandi più del naturale», già perduta quando ne scriveva, affrescata all’interno della poi completamente distrutta chiesa di S. Pietro Martire, «nella faccia dentro alla scola all’entrarvi, che poi fu guasta con un palco fattovi, che oggi si vede» (Forciroli, 2007, pp. 163 s.), e Vedriani ricorda che nella medesima chiesa della confraternita di S. Pietro martire «sono a fresco molte sue operationi, che ci fanno vedere l’ationi principali, e il martirio di detto santo, figure molto buone e molto ben condotte, le quali, più pretiose degl’arazzi e spalliere di seta, accrescono gli ornamenti a quel bellissimo oratorio» (Vedriani, 1662, p. 85); dipinti probabilmente già perduti con la riedificazione della chiesa nel 1667-68 (Soli, III, 1974, pp. 228-230).

Dunque, di tutte le opere riferite dai documenti e dalla storiografia artistica ai presunti Taraschi, le uniche rimaste, e ora riconducibili al solo Giovanni, sono due. Una è il dipinto con l’Orazione nell’orto della chiesa abbaziale di S. Pietro in Modena, assegnato ai «fratelli Taraschi» da Pagani (1770, p. 56), e «testimone di una cultura esemplata su un tardo raffaellismo di maniera che ha in Giulio Romano il suo referente più prossimo, con lievi accenni però, nell’eleganza delle forme e nello smalto dei colori, anche al puro e ricercato linguaggio di Parmigianino» (Dugoni, 2006, p. 108). L’altra è la decorazione della cantoria e delle portelle dell’organo del medesimo tempio, già citate da Vedriani (1662, p. 85), commissionate dall’abate Pellegrino degli Erri nel 1546, come si desume dalle date riportate nelle due ante dello strumento musicale, sia esternamente, con il “1546” che si ricomponeva, ad ante chiuse, sotto la raffigurazione dell’Esercito del faraone sommerso nel Mar Rosso – tele cucite assieme e trasferite nel 1779 nella cappella del Sacramento (Dugoni, 2006, p. 102) – sia internamente, con le iscrizioni “ADI.29.DE MAZO” nel pannello di sinistra con S. Pietro guarisce uno storpio a Gerusalemme e il monocromo con S. Benedetto smaschera il servo di Totila, e “M.DXXXXVI” nel pannello di destra con S. Paolo guarisce un paralitico a Listra e il monocromo con S. Benedetto implorato da un parente di un monaco defunto. Venne già assegnata al solo Giovanni Taraschi dal monaco benedettino Lazarelli, che, come ricordato, aveva accesso a documenti poi dispersi dell’abbazia modenese, anche la decorazione ad affresco della cantoria: «Fu dipinto nel poggiolo, o sia orchestra da Giovanni Tarasco modenese» (Lazarelli, 1712, c. 57r, cit. in Giovannini - Tollari, 1991, p. 293). Lì Giovanni dipinse sul fronte il Trasporto dell’arca dell’alleanza dalla casa di Obed-Edom tra Profeti con cartigli e nei sottarchi le Storie di David: in quello di destra Samuele riconosce in Davide il predestinato dal Signore – lacunoso – accanto all’Unzione di Davide da parte di Samuele, in quello di sinistra Davide uccide Golia con i filistei che si danno alla fuga accanto a Davide presentato a Saul dal capo delle milizie israelite (Cavicchioli, 2006, pp. 181-186; Ead., 2014, pp. 157-160; Ead., 2015, pp. 301-310). Sui parapetti esterni del passaggio pensile che permette di raggiungere la cantoria, oltre che a colori su una tavoletta lignea già parte della chiusura della cassa dell’organo – Modena, collezione privata (ripr. in Ead., 2006, p. 185) – Giovanni rappresentò a monocromo Concerti di uomini e satiri (Ead., 2015, pp. 310-314). Stilisticamente legata all’ambiente romano, la decorazione per la cantoria e le ante dell’organo abbaziale di S. Pietro apparve già ad Adolfo Venturi da porre in relazione con la conoscenza dei cartoni per gli arazzi della Cappella Sistina di Raffaello (Venturi, 1933, p. 613; Guandalini, 1979, p. 129 nota 29), mentre Daniele Benati vi intravvedeva «un decorativismo che sembra preludere – ma forse ne è un riflesso – a Nicolò dell’Abate» (Benati, 1984, p. 126 nota 54).

Si ritiene, invece, che siano da espungere dal catalogo di Giovanni Taraschi sia il S. Pellegrino, affresco staccato – forse proveniente dalla distrutta chiesa di S. Pietro Martire in Modena – in deposito presso la Galleria Estense dagli Istituti ospedalieri di Modena (Ghidiglia Quintavalle, 1962, pp. 86 s.), che presenta i caratteri di un manierismo più avanzato e una migliore qualità esecutiva, del tutto analoga a quella che si riscontra nel, pure frammentario, Giovane che prega, appartenente al medesimo istituto e pure in deposito presso la Galleria Estense, riferito da Augusta Ghidiglia Quintavalle alla cerchia di Nicolò dell’Abate (ibid., pp. 85 s.); sia la tavola con l’Incontro dei ss. Gioacchino e Anna alla Porta d’Oro della chiesa di S. Martino in Bologna, attribuita a Giulio Taraschi dalla storiografia sulla scorta di un cartiglio recante l’iscrizione «MDLVIII / TAR» (Gualandi, 1865, p. 40), ma di cui Marinella Pigozzi, riprendendo un’ipotesi di Carlo Cesare Malvasia (1686; Id., 1782), ha scritto che «sembra poter essere davvero la prima prova del giovane “Lorencino” Sabatini, piuttosto che un prodotto tardo di Giulio Taraschi, come si è pensato in passato», poiché «la lettura stilistica sembra perfettamente coerente con un pittore formatosi nella Bologna della metà del ’500, ricca di umori tosco-romani vasariani ma anche del plasticismo michelangiolesco di Tibaldi» (Pigozzi, 1999, p. 65).

Va infine segnalato che la lettura della Cronaca di Tommasino de’ Bianchi, detto de’ Lancellotti, aveva spinto Armando Ottaviano Quintavalle, estensore della voce Abbati, Giovanni per il primo volume di questo Dizionario, a formulare l’ipotesi, non raccolta dalla critica successiva, di identificare Giovanni Taraschi con Giovanni o Zohane dell’Abate o Abbati, padre del celebre pittore Nicolò (Quintavalle, 1960). Lancellotti, infatti, riferendosi alle decorazioni pittoriche che Nicolò dell’Abate avrebbe cominciato a dipingere nella sala dei Conservatori, all’interno del Palazzo Comunale, in un punto della sua Cronaca, sotto il mese di agosto del 1546, annota: «Maestro Nicolò de maestro Zohane Tarasco la comenzerà a dipingere a’ dì 5 presente» (De’ Bianchi [1506-1554], 1871, p. 275), e in altro punto scrive: «Zobia [giovedì] a dì 5 ditto. Maestro Nicolò de maestro Zohano del’Abbato ha comenciato questo dì a depinzere el muro della residentia delli signori conservatori» (p. 277); lavori citati anche nelle pagine seguenti: «Maestro Nicolò de Maestro Zohane del’Abbato dipintore degnissimo et cittadino modeneso» (ibid., p. 332; altra citazione analoga a p. 336). Nicolò, dunque, prima è detto figlio di Giovanni Taraschi, e poi, per più volte, figlio di Giovanni dell’Abate. La discrepanza, recentemente segnalata nuovamente dalla critica (Dugoni, 2006, p. 121 nota 114), potrebbe però essere dovuta a una banale svista del cronista. Infatti, dato che è altamente improbabile che nella sala dei Conservatori fosse attivo un altro Nicolò pittore, presunto figlio di Giovanni Taraschi, oltre al più volte documentato Nicolò dell’Abate (Mancini, 2005, p. 512), e poiché – nonostante la diffusa consuetudine locale di distinguere con un soprannome un determinato ceppo famigliare, che aveva riguardato lo stesso Tommasino de’ Bianchi, detto appunto anche de’ Lancillotti – non è possibile identificare Giovanni Taraschi, morto nel 1563, con «Zohano di Abbà depintor» (Giovanni dell’Abate), padre di Nicolò, che, come reso noto da Walter Bombe (1931, p. 530), morì, invece, sotto la parrocchia di S. Agata domenica 1° gennaio 1559 e fu sepolto nell’antica chiesa di S. Matteo, detta di S. Domenico (Modena, Archivio storico comunale, Registro dei morti degli anni 1554-1568, n. 1, c. 125r, n. 1), è ipotizzabile che la citazione di Giovanni Taraschi come padre di Nicolò da parte di Lancillotti sia un semplice refuso.

Fonti e bibliografia

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