Scoto Eriugena, Giovanni

Enciclopedia Dantesca (1970)

Scoto Eriugena, Giovanni

Marta Cristiani

Filosofo del sec. IX, mai citato da D.; si preferiscono attualmente i nomi di Giovanni Eriugena, o di Giovanni Scoto, in quanto nel sec. IX Eriugena e Scotus significavano la stessa cosa, cioè " irlandese ". Nato infatti in Irlanda nel primo quarto del secolo, giunge sul continente fra l'845 e l'847 circa, provvisto di una formazione culturale che la critica più recente - respingendo il mito di una grande, misteriosa cultura irlandese precarolingia - ritiene non superiore a quella di un qualsiasi chierico del regno franco. Stabilitosi alla corte di Carlo il Calvo, deve aver presto raggiunto una certa notorietà, se fra l'850 e l'851 è invitato da Incmaro di Reims a intervenire nella controversia sulla predestinazione, suscitata da Gotescalco di Orbais. Con l'opera scritta per l'occasione, il De Praedestinatione, l'Eriugena risponde ai problemi della cultura del suo tempo con un linguaggio nuovo, un'esigenza, ignota ai contemporanei, di coerenza sistematica nell'interpretazione delle fonti patristiche e dei testi scritturali, con un'abilità nell'uso della dialettica che susciterà ben presto reazioni scandalizzate. Alle arti liberali, insegnate forse alla scuola palatina, è dedicato soprattutto il suo commentario (scritto fra l'859 e l'860) al De Nuptiis Mercuri et Philologiae di Marziano Capella, che contribuirà, unitamente ad altri commenti (celebre quello di Remigio d'Auxerre), ad assicurare la fortuna del De Nuptiis. L'incontro con la cultura bizantina costituisce un momento determinante per lo sviluppo del pensiero eriugeniano, che da essa deriva gli schemi di un rigoroso neoplatonismo, nel cui ambito diverrà possibile riordinare sistematicamente, in una nuova sintesi dottrinale, i dati di una vasta tradizione patristica, le apparenti incongruenze e contraddizioni dello stesso linguaggio scritturale, così vario e spesso così concreto nella creazione dei simboli o nella stretta aderenza a una narrazione storica.

Per ordine di Carlo il Calvo, l'Eriugena, superando gravi difficoltà, traduce (860-862) le opere di Dionigi l'Areopagita (v.), dopo una prima traduzione, tutt'altro che felice, di Ilduino: a uno dei quattro trattati dionisiani, il De Coelesti hierarchia, dedicherà le Expositiones (865-870) che, incluse poi nel complesso apparato esegetico che accompagnerà il corpus dionysianum in tutte le compilazioni medievali, saranno destinate, per questa via, a esercitare un'influenza durevole. Seguono la traduzione, eseguita anch'essa per ordine del sovrano, degli Ambigua (862-864) di Massimo il Confessore (sec. VII) la cui diffusione restò però limitatissima, e la traduzione delle Quaestiones ad Thalassium (864-866) dello stesso autore. La traduzione (862-864) dell'opera a cui s'ispira l'antropologia eriugeniana, il De Hominis opificio di Gregorio di Nissa, completa l'insieme di questo considerevole contributo culturale all'occidente, che tornerà ad arricchirsi solo fra l'XI e il XII sec., con la ripresa delle attività di traduzione.

L'opera eriugeniana fondamentale, il De Divisione naturae, o, secondo il titolo più esatto, Periphyseon (864-866), compone in una visione unitaria e ricca d'intuizioni originali un'esperienza culturale maturata in rapporto oltre che con gli autori ricordati, con Origene (anche se raramente citato), a cui si aggiunge una lettura particolarmente perspicace, orientata in senso neoplatonico, dei grandi autori della tradizione latina, Agostino e Ambrogio soprattutto. Di contro a una cultura ben lontana ancora da preoccupazioni metafisiche, l'Eriugena si pone così come l'iniziatore della tradizione speculativa del Medioevo latino, proponendosi consapevolmente di cogliere il significato della totalità, di attingere le intime strutture del reale, fino al limite invalicabile della trascendenza divina.

Questa trascendenza che, per la sua assoluta infinità, il linguaggio può indicare unicamente come non-essere, identificata con le tenebrae del testo dionisiano, inconoscibile persino a sé stessa per la sua assenza di ogni determinazione, si definisce, si esprime, si rende conoscibile nell'universo creato, con un atto creativo sottratto a qualsiasi dimensione temporale, alla storicità apparente del testo biblico, che fonda l'essere delle cose, semel et simul, nelle loro rationes aeternae, o causae primordiales, secondo l'espressione tipica eriugeniana, cioè negli esemplari immutabili, presenti nella mente del Verbo in una misteriosa, inaccessibile unità.

Il successivo differenziarsi e moltiplicarsi dei modelli eterni nei limiti dello spazio e del tempo, secondo un ordine di successione che non è mai temporale ma indica unicamente una gerarchia ontologica, è conseguenza del decadere delle intelligenze create, della scelta colpevole operata, anch'essa in una dimensione eterna, dall'uomo, che la divinità (cui quella scelta non può non essere presente) ha creato fin dall'inizio sotto il peso della natura corporea, sovrapposta, superaddita, come un aggravio ulteriore (complicato dalla differenziazione dei sessi), alla purezza originaria del modello, della natura autentica qual è concepita dalla mente divina. Questa complessa dottrina della duplice creazione dell'uomo, pur nell'unità dell'atto divino, sostanzialmente estranea alla tradizione latina e ispirata direttamente a Gregorio di Nissa, costituisce uno degli esempi più significativi di trasposizione della storicità del racconto biblico sul piano delle strutture metafisiche.

La suprema trascendenza divina non può offrirsi come oggetto di conoscenza nella sua totalità: conoscere, infatti, significa definire, racchiudere l'oggetto entro le categorie della conoscenza, mentre soltanto qualcosa che trascende la totalità stessa potrebbe per assurdo comprenderla in sé. Tale trascendenza, pertanto, si rende conoscibile, anche alla più perfetta delle intelligenze angeliche, solo attraverso le sue theophaniae, quelle manifestazioni cioè in cui il non-essere dell'infinità divina s'incarna e si definisce nei limiti dell'essere. Di fronte a un'intelligenza decaduta, gravata dei limiti ulteriori imposti dalla natura corporea, essa adotta un linguaggio sempre più elementare, sempre più lontano dalle theophaniae luminose che si offrono alle pure intelligenze, il linguaggio cioè dell'universo terreno, nella sua frammentarietà dispersiva, ma anche nella sua bellezza, nella sua armonica, sempre rinnovata varietà. Fino a quando l'intelligenza umana resterà nella sua condizione decaduta, non potrà se non intravvedere imperfettamente, per un dono particolare della grazia divina, l'ultimo legame che riunisce costantemente questo universo, dalle ultime espressioni della natura inanimata fino alla sua origine supremamente trascendente, in cui ogni cosa è mantenuta in essere. Quando la natura umana, che riassume in sé, con funzione mediatrice, l'universo spirituale e l'universo materiale, dopo essere stata restituita all'essere originario grazie all'incarnazione del Verbo, alla fine dei tempi sarà reintegrata definitivamente nell'unità divina, tutte le cose appariranno nella loro realtà autentica, in cui non hanno mai cessato di sussistere, cioè quella stessa unità in cui tuttavia, misteriosamente, mantengono l'individualità del loro essere.

È questo il senso della famosa quadruplice divisione della natura, che costituisce lo schema del dialogo filosofico eriugeniano, condotto da un magister e un discipulus: 1) natura quae creat et non creatur (cioè la trascendenza divina come origine di tutte le cose); 2) quae creatur et creat (cioè le causae primordiales, nelle quali l'essere delle cose è fondato); 3) quae creatur et non creat (il mondo delle creature spirituali e materiali, in un ordine di successione che ignora la frattura stabilita dalla teologia posteriore fra naturale e soprannaturale); 4) quae nec creatur nec creat (Dio - realtà assolutamente conclusa e perfetta - considerato come fine del reditus di tutto il creato: cfr. Periph. I 1). Il termine natura costituisce qui, in qualche sorta, la categoria suprema, attraverso la quale la totalità del reale risulta pensabile, suscettibile di essere espressa mediante il linguaggio (cfr. ibid.: " Est igitur natura generale nomen... omnium quae sunt et quae non sunt... Est quidem. Nihil enim in universo cogitationibus nostris potest occurrere quod tali vocabulo valeat carere "). Questa fiducia in un ordine logico che s'identifica con la stessa struttura ontologica delle cose, in una dialettica presente in natura rerum, che nasce tuttavia dal mistero di una suprema trascendenza e di questo mistero ritrova ovunque le tracce, poiché l'essere della realtà non è altro che participatio all'unità divina, costituisce fondamentalmente il contenuto della ratio eriugeniana, in cui troppo spesso la storiografia del passato ha creduto ritrovare, anacronisticamente, posizioni moderne, colpita soprattutto dall'audacia con la quale l'autore affronta il problema dei rapporti con l'auctoritas.

L'Homelia sul prologo del Vangelo di s. Giovanni e il commento allo stesso quarto Vangelo, uno dei testi più congeniali allo spiritualismo dell'Eriugena, completano là sua opera, portando avanti un discorso esegetico che trascende costantemente la lettera, per ritrovare i lineamenti di un'immutabile sapientia, la visione del mysterium, lo spiritualis intellectus, l'intelligibilis sensus.

Per quanto riguarda le linee d'insieme, è difficile stabilire rapporti rilevanti fra l' " epopea metafisica " eriugeniana, come la definisce il Gilson, e l'opera di Dante. Sullo schema neoplatonico processio-reditus, sul tema del progressivo allontanamento da Dio e del successivo ritorno, sono costruite alcune fra le più grandi opere del pensiero medievale; la struttura stessa della Summa di Tommaso d'Aquino, com'è stato notato, obbedisce a questo principio. Sotto questo punto di vista, l'affermazione del Palgen (S.E., Bonaventura e D., cit. in bibl.) che il De Divisione debba considerarsi una delle fonti dirette della Commedia e del Paradiso in particolare, avendo in comune le due opere il grande tema della deificatio, della divinizzazione dell'anima attraverso la contemplazione del cosmos, non può non apparire gratuita.

Certo, il linguaggio mistico usato dall'Eriugena per esprimere, sulle orme di Dionigi e soprattutto di Massimo, la beatitudine dell'anima che si ritrova incorporata nella suprema unità divina, trasformata in Dio e tuttavia cosciente della propria individualità (cfr. Periph. I 10, Patrol. Lat. CXXII, col. 451; I 40, col. 483; III 20, col. 683; V 8, col. 876), può trovare un'eco lontana nei versi danteschi, in cui lo stesso tema affiora ma in un contesto del tutto diverso (cfr. Pd XXXIII 113-114 una sola parvenza, / mutandom'io, a me si travagliava; cfr. l'episodio del Grifone, simbolo del Cristo, la cui divinità irraggia, attraverso lo sguardo, su Beatrice, in Pg XXXI 124-126: Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, / quando vedea la cosa in sé star queta, / e ne l'idolo suo si trasmutava). Si deve però tener presente il costante ricorrere di questi temi nella tradizione mistica medievale, a partire da s. Bernardo, rispetto al quale si può forse parlare di un'influenza eriugeniana, accertata comunque nella cultura cisterciense, laddove Bonaventura è forse più aderente a una tematica dionisiana.

Il Palgen che propone, in un secondo articolo (D. und S.E.), accostamenti di questo tipo, sembra ignorare però che la prospettiva escatologica in cui s'inserisce la deificatio eriugeniana è profondamente diversa, se non opposta, a quella di D. (e in genere di tutti gli autori ‛ ortodossi '), come risulterebbe da una lettura attenta di alcuni fra gli stessi testi citati, in cui l'Eriugena sostiene che alla fine dei tempi tutte le intelligenze create, l'universo nella sua totalità, saranno reintegrati nella perfezione originaria della loro natura, secondo un motivo caro a Origene, mentre agli eletti, partecipi del dono della grazia, sarà concessa una superiore beatitudine, una suprema deificatio (cfr., cit. dal Palgen, Periph. V 38, coll. 1001 e 1014). È evidente che l'Inferno dantesco, destinato a fissare in una dimensione eterna le conseguenze della colpa, nasce da una concezione del tutto diversa del mondo e della funzione stessa dell'incarnazione del Verbo.

Per quanto riguarda il tema, ancor più comune, del ritorno a Dio attraverso la conoscenza del mondo, è certo estraneo al pensiero di D. il concetto pregnante della theophania eriugeniana. Quest'ultima, infatti, è intesa come manifestazione, presenza diretta dell'infinito nella finitudine, della causa nei suoi effetti, secondo lo stesso rapporto esistente fra l'intelletto, il pensiero nella sua indeterminata potenzialità, e il discorso articolato, definito nelle immagini della memoria o nelle parole formulate, secondo un motivo caro all'Eriugena (cfr. Periph. I 11, col. 454; II 18, coll. 551-552; II 23, col. 557; III 4, coll. 633-634), in accordo con la dottrina della creazione come atto conoscitivo, che fonda l'essere delle cose (cfr. Periph. II 20, col. 559: " cognoscere enim et facere Dei unum est. Nam cognoscendo facit et faciendo cognoscit "). Nell'universo dantesco, la trascendenza divina - che non è mai concepita, alla maniera dionisiana, come non-essere e tenebra in rapporto dialettico con l'essere, bensí come luce che si diffonde, essere nella sua unità, che dà vita all'essere del molteplice - esprime sé stessa attraverso un sistema articolato di mediazioni, la meccanica aristotelica dei cieli inserita in una prospettiva avicennistica, come nel canto II del Paradiso. Conseguenza di ciò, fra l'altro, è lo stabilirsi di una frattura fra mondo celeste e mondo sublunare, inconcepibile invece nella visione eriugeniana, in cui l'unica vera frattura sussiste fra l'unità delle cause primordiali, già differenziate ma contenute nell'arcano dell'intelletto divino, e la molteplicità degli effetti, materiali e spirituali, il diffondersi delle forme nella luce dell'essere. Queste fondamentali differenze si possono rilevare dagli stessi testi che il Palgen richiama, accostando ad esempio Periph. III 27, col. 700 (" Primo siquidem generaliter primordialium causarum in suos effectos processionem ex incognitis arcanisque natura e sinibus, quasi quibusdam tenebris, in lucem formarum multiplicium perspicuam intellectibus contemplantium, vel sensibus manifestam expressit ") e Pd XXIX 14-15 (perché suo splendore / potesse, risplendendo, dir ‛ Subsisto '). Tenendo presenti queste diversità radicali, si poteva semmai ricordare un altro tema, sfuggito al Palgen, costante nell'opera eriugeniana e presente anche in D.: quello della natura come linguaggio divino, e quindi della sostanziale equivalenza natura-Scriptura, risolta nell'immagine del mondo come libro, diffusa anch'essa, con significati diversi, in tutta la cultura medievale, e ripresa da D. in Pd XXXIII 85-87 (Nel suo profondo vidi che s'interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l'universo si squaderna: cfr. Bonaventura Breviloquium II 12, il cui tema è quello dell'immagine trinitaria da leggere nell'universo).

Un vero e proprio abbaglio del Palgen è l'accostamento di testi eriugeniani, che sottolineano l'impronta trinitaria nella natura delle cose (le cause primordiali, i quattro elementi, considerati come principi metafisici, e la materialità dei corpi composti costituiscono infatti la struttura ternaria del reale: cfr. Periph. V 29, col. 705; V 27, col. 700), ai versi, in cui D. espone la dottrina di una triplice creazione immediata, da parte di Dio, delle intelligenze celesti, della materia informe e dei corpi celesti, composti di materia e forma (Pd XXIX 22-36), contrapposta a una creazione mediata (cioè la trasmissione delle forme al mondo sublunare) attraverso le sfere celesti. Si tratta, con ogni evidenza, di temi diversi.

Questi brevi accenni bastano a mettere in luce, ancora una volta, l'esigenza di distinguere e precisare la diversità dei vari momenti di una tradizione neoplatonica che attraversa la cultura occidentale, diversità che si cela dietro l'uso, apparente, di uno stesso, suggestivo linguaggio. Il problema è tanto più importante per un autore come l'Eriugena, la cui influenza per le molteplici sue coincidenze con la problematica dionisiana è legata alle vicende stesse del corpus dionysianum. Le reazioni del pensiero medievale a un autore come Dionigi costituiscono infatti un immenso tema di ricerca, di cui si comincia appena a rendersi conto.

Mentre infatti nel sec. XII l'influenza, del Periphyseon, diretta o indiretta (soprattutto attraverso la Clavis physicae di Onorio di Autun), è senza dubbio considerevole, estesa com'è dall'opera di Ugo di San Vittore alle cosmogonie della scuola di Chartres, o di Ildegarda di Bingen, al Microcosmus di Goffredo di San Vittore (per quanto riguarda soprattutto l'antropologia), con la condanna pronunciata nel 1215 contro l'eresia di Amalrico di Bène e proprio per gli sviluppi, in senso ‛ panteistico ', di temi eriugeniani, il ricordo dell'opera dell'Eriugena sembra scomparire dagli autori successivi. Tuttavia, il compilatore del corpus dionysianum in uso all'università di Parigi nel sec. XIII (forse fra i libri di testo), introdurrà ampi e numerosi estratti del Periphyseon nel testo del commentario di Massimo il Confessore alla maggior parte dell'opera di Dionigi rimasta ancora priva di commenti sistematici (solo il De Coelesti hierarchia è accompagnato da un apparato imponente di commentari, fra cui quello eriugeniano, presente in tutte le edizioni); inoltre la traduzione eriugeniana (detta vetus translatio per distinguerla dalla nova dovuta a Giovanni Saraceno) costituisce la base intorno a cui si articola tutta la compilazione.

Bibl. - Le opere di G. S. E. sono in Patrol. Lat. CXXII. Edizioni critiche: Annotationes in Marcianum, a c. di C.E. Lutz, Cambridge, Mass., 1939; Homélie sur le Prologue de Jean, a c. di E. Jeauneau, Parigi 1969 (cfr. l'Introduction e l'aggiornata bibl.); Commentaire sur l'Evangile de Jean, a c. di E. Jeauneau, ibid. 1972 (con aggiornamento bibl.).

Studi: fondamentale ancora M. Cappuyns, Jean Scot Erigène; sa vie, son oeuvre, sa pensée, Lovanio-Parigi 1933 (rist. Bruxelles 1964); M. Dal Pra, S.E., Milano 1951r; T. Gregory, Giovanni S.E. - Tre studi, Firenze 1963; R. Roques, Remarques sur la signification de Jean Scot Erigène, in Miscellanea André Combes, I, Roma 1967; J.J. O'Meara, Eriugena, Dublino 1969. Per quanto riguarda i rapporti con D.: R. Palgen, S.E., Bonaventura e D., in " Convivium " XXV (1957) 1-8: ID., D. und Scotus Eriugena, in " Zeit. Romanische Philol. " LXXV (1959) 467-492. Sulle vicende del corpus dionysianum, cfr. il fondamentale H. Dondaine, Le corpus dionysien de l'Université de Paris au XIIIe siècle, Roma 1953.

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