GIOVANNI Pisano

Enciclopedia Italiana (1933)

GIOVANNI Pisano

Pietro Toesca

Scultore e architetto. Nacque circa il 1245; morì dopo il 1314. Figlio di Nicola Pisano (v.), fu col padre a Siena tra i suoi aiuti all'opera del pergamo del duomo (1265-1268); e con lui collaborò a Perugia nella Fonte di piazza (finita nel 1278), inscritta anche del suo nome. Forse dal 1284 al 1299 soggiornò più ordinariamente a Siena: vi ebbe cittadinanza; e sembra vi scegliesse sua sepoltura presso il duomo di cui era capomaestro. Anche a Pisa, dove già nel 1295 lavorava al battistero, fu capomaestro del duomo almeno dal 1299 al 1308, e in quel periodo eseguì fra l'altro il pergamo di S. Andrea di Pistoia, compiuto nel 1301, e quello del duomo pisano (1302-1310). A Genova (1312), riceveva pagamenti per il sepolcro di Margarita moglie di Enrico VII di Lussemburgo.

Avviato dal padre, presto se ne allontanò per esprimere in diversa forma il proprio differente animo. Gli rimasero sempre presenti le opere paterne: il pergamo del battistero di Pisa, il pergamo di Siena in cui collaborò senza lasciarvi ben sicuro segno di sé; ma le reminiscenze di quelle opere, nella struttura e nell'iconografia dei suoi pergami, fanno osservare ancora meglio le profonde divergenze dal padre. Questi era stato insistente e saldo nel modellare e nel comporre come era sereno e calmo nell'osservare e nell'immaginare; il figlio fu tanto impetuoso nell'esprimersi quanto improvviso e irruente nel sentire e nell'ideare: e trovò forma adatta a sé lasciando la precisione plastica di Nicola per modi che rappresentassero la sua realtà plastica, sussistente ognor più soltanto come espressione di agitati moti spirituali, e perciò sommaria perché sprezzante di quanto non convenisse a esaltarli. Fu in G. un crescendo continuo di commozione violenta che tolse al suo senso ogni freno di oggettiva riflessione; nella sua arte la fermezza e particolarità plastica, di cui Nicola Pisano era stato maestro, dileguò rapidamente cedendo a un fare altrimenti sintetico, e infine a convulse indicazioni pittoriche in cui lampeggia quell'intimo senso. La foga dell'immaginazione e degli affetti non gli consentì quella facoltà di varia e profonda intuizione psicologica per cui tanto da lui si differenzia Giotto (v.): ma egli trovò accenti altissimi sebbene in pochi toni. Pure, il suo temperamento e il genio non spiegano tutta la sua opera: la quale, a considerarla attentamente, appare tanto informata all'arte gotica da non potersi intendere senza di questa. Già Nicola Pisano aveva accolto molti elementi gotici; G. si volse ben più intensamente all'arte gotica, che poté conoscere, se non pure in lunghi viaggi (di cui era cenno nell'antica epigrafe del pergamo di Pisa), per mezzi così agevoli e varî come gl'intagli in avorio (egli medesimo intagliò la grande Madonna eburnea [circa 1299] del duomo pisano, in cui l'ispirazione da avorî francesi è immediata). Nella scultura francese, quale era al termine del sec. XIII, vide convergere ogni tratto a un effetto, una maniera sommaria e pittorica nel rilievo; vi apprese anche quei convenzionalismi di atti, di pieghe, di sviluppi lineari che da soli basterebbero a dimostrare quanto egli sia stato partecipe dello stile gotico. Ma vivificò le formule e i modi appresi: e alla scultura gotica, già ravvolgentesi in manierati preziosismi, diede capolavori animati dal suo impetuoso spirito: fu nella cerchia gotica un creatore. All'arte classica non restò indifferente; ma vi cercò idee e modelli diversi da quelli che avevano ispirato Nicola: le forme più patetiche, per renderle parossistiche (v. l'Ercole del pergamo di Pisa); e, nella scultura della tarda ed imperiale, i rilievi tracciati con affrettata maniera coloristica, cui egli diede il valore di proprio impressionismo.

Le prime sculture, tra quelle dei seguaci di Nicola, in cui si possa prevedere la personalità di G., sono alcune teste, di ampia e semplice modellatura e di viva espressione, al peduccio degli archi nel secondo ordine esterno del battistero pisano (una frammentaria, muliebre, è ora nel museo di Pisa) dove poi il maestro tornò coi suoi aiuti a ornare le cuspidi gotiche. Nella pila dell'acquasanta in S. Giovanni Forcivitas a Pistoia è già più formata in molti caratteri la sua arte. A Perugia, nella Fonte di piazza lavorò assai più del padre: si riconosce al fare abbreviato nei rilievi molto compressi, nelle figure plasmate in piani più larghi, con addentramenti profondi, con un piegar di panni in cui risaltano composizioni lineari gotiche, e nell'insieme a una più alta tensione di movimento e di affetti. Sulle due grandi conche marmoree, la cui decorazione è singolare anche per l'iconografia - rappresentazioni dei Mesi, delle Arti, di apologhi, di santi; personificazioni - si eleva la coppa bronzea, inscritta col nome del Rosso, mediocrissimo autore di un architrave di bronzo nel duomo di Orvieto, qui per certo soltanto fonditore del gruppo bronzeo centrale, che nelle tre ninfe ritmicamente allacciate mostra come G. riguardasse gli esemplari antichi.

Durante il periodo senese (circa 1284-1299) il maestro congiunse in strettissimo modo la sua arte di architetto a quella di scultore. La facciata del duomo di Siena, che è da credere intrapresa (malgrado ogni opposta e confusa opinione) circa il 1284, nell'ordine inferiore può dirsi veramente modellata da uno scultore, negli addentramenti dei portali, nel vigoroso movimento delle membrature, nell'estrema animazione che a essa dà la statuaria: e ideatore di quell'unità di forme architettoniche e plastiche, poi non bene seguitata da altri negli ordini superiori, fu G., allora capomaestro del duomo. Nell'architettura, come nella porta di San Quirico d'Orcia (v. oltre), egli vi mantenne qualche reminiscenza romanica, ma appare gotico così addentro che riesce inverosimile, anche senza riprove di documenti, attribuirgli la costruzione del camposanto pisano (iniziata nel 1277) tanto ligia alle tradizioni romaniche, poi compiuta da altri nei gotici trafori delle arcate interne.

Nella facciata di Siena, lasciando ai suoi aiuti le sculture e l'architrave della porta maggiore, G. stesso modellò gli animali protesi (in parte ora al Museo dell'Opera) e statue di Sibille e di profeti. Tra le quali, le meglio conservate, e sue (Sibilla, Mosè, David, Isaia), sono robustamente costruite su poche linee principali che ne svelano, anche da lungi, i moti e l'animo; e se all'analisi stilistica negli atteggiamenti e nei drappeggi debbono dirsi gotiche, sembrano purificate d'ogni manierismo tanto sono espressive.

Mentre operava a Siena, G. dovette attendere (circa 1287) a proseguire la costruzione della cattedrale romanica di Massa Marittima: ne compì goticamente l'alto della facciata le cui sculture hanno la sua impronta; forse ne disegnò il coro. Ma fu più geniale componendo scultura e architettura nella porta di fianco della collegiata di S. Quirico d'Orcia dove cariatidi interrompono i pilastri, modellate - come i leoni - a piani larghi e abbreviati, a brusche incavature, che nel contorno e nel contrasto di chiari e di scuri esprimono movimento e nervosa energia.

Nel periodo estremo si manifestano in tensione sempre maggiore i caratteri di G. e la sua arte.

Per considerare prima le opere più importanti di pura statuaria, mentre la Madonna già sulla porta di S. Ranieri nel duomo pisano (Pisa, camposanto) si deve credere anteriore per più raccolto atteggiamento e per ferma modellazione, già nondimeno semplificata in larghe squadrature, seguirono subito alle statue di Siena la Madonna sulla porta maggiore del battistero pisano, e la sua non inferiore compagna collocata sul fianco dell'oratorio della Spina: in esse la cifra gotica è più evidente, e concorre a eroizzare le attorte figure. Nelle statue (circa 1305) della Madonna e dei due angioli ceroferari sull'altare della cappella Scrovegni a Padova è più alto il sintetismo gotico che concentra in una curva sola l'atto e l'animo della madre, ma non è di maniera: sembra nascere da un ardore di concezione che escluda ogni superfluo alle linee essenziali per esprimere l'affetto materno, l'attenzione degli angioli, unendo le tre figure in un ritmo solo. Nella Madonna della collegiata di Prato (all'ampliamento della chiesa è incerto se G. abbia mai lavorato) i manierismi gotici aumentano aneora ma il genio del maestro li libera dalle cadenze ornamentali per valersene a un'impressione più viva di moto, nelle spire dei panni e nel torcersi degli atti. Nei frammenti del sepolcro di Margarita di Lussemburgo (Genova, Palazzo Bianco), non tutti di mano di G., più della novità del concetto, è mirabile la semplice espressione della gravità della figura risorgente, sorretta dagli angeli, e del suo sorriso.

In modi più complessi mostrano quest'ultimo periodo dell'arte di G. i pergami di S. Andrea a Pistoia (1301) e del duomo di Pisa (1302-1310). Vi si vede quanto egli abbia impresso il suo genio nelle forme architettoniche gotiche, cercando sempre maggiore complicazione di profili, di movimento; e se nel pergamo pistoiese, a paragone dei pergami di Nicola pisano, gli archi acuti segnano una più intera accettazione dello stile gotico, in quello di Pisa (smembrato per lungo tempo e dal 1926 ricomposto in modo ragionevole ma non senza incertezze) il movimento della struttura è elevato ad altissimo grado con nuovi partiti che ne fanno una creazione originale pur di fronte alla coeva architettura d'oltralpe, tutta rivolta a moltiplicare membrature e decorazioni: si mutano in figure e in gruppi le colonne; anche gli specchi dell'arca del pergamo sono curvilinei; gli archi si spezzano in mensole, di cui gl'intagli accentuano la nervosa energia. E, con piena coerenza, nelle sculture la concitazione di atti e di affetti si fa più veemente dal primo pergamo al secondo, come più rapida e impetuosa l'indicazione della forma plastica, fino a diventare solco cui occorre una studiata illuminazione per rivelare il suo potere espressivo. Aumentano i manierismi gotici quasi in continuata rispondenza con l'arte oltremontana; ma il maestro se ne vale ad altro che a ornate stilizzazioni: a disporre di più larghe masse plastiche nei panni, a piegare le membra oltre ogni limite fisico perché esprimano più intensamente l'intimo.

Insiste G. in temi trattati già dal padre - Natività, Adorazione dei Magi, Strage degli Innocenti, Crocifissione, Giudizio, ecc. - e ne riprende perfino dei particolari, ma il suo animo violento li trasfigura, tutto travolgendo sempre più in un'agitazione frenetica in cui sembrano struggersi le forme corporee, rese convulse dal tormentato spirito. Nel pergamo di Pistoia le figure di rilievo più tondo - Sibille, Profeti, Santi - appassionate e contorte, hanno ancora una certa massa corporea oggettiva; in quello di Pisa le loro forme sensibili sembrano determinate soltanto dall'intimo, come nel Cristo giudice o nella Carità (supposta personificazione di Pisa, o della Chiesa), scarnite dalla passione che vi lascia sussistere soltanto le sue tracce profonde. Nei rilievi, mentre la fattura è anche più schiettamente pittorica e impressionistica, fin il modo di comporre dimostra quei caratteri di G. e il loro crescere incessante. E se il loro fare sommario non sempre riesce a chiare espressioni, se il comporre tumultuoso volge in confusione, ciò era in parte nella natura stessa di una tale arte, giunta ai suoi toni più alti, in parte fu dovuto agli aiuti (tra altri un Bernardo) che male tradussero i concetti del maestro.

La scuola di G. fu delle più feconde; sparse discepoli e propagatori per tutta Italia e diede anche opere così vicine al maestro, come alcune statue di apostoli all'esterno dell'oratorio pisano della Spina, da sembrare animate in qualche parte dal suo genio.

V. tavv. LXXIX-LXXXII.

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