MONTEMARTINI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MONTEMARTINI, Giovanni

Marco De Nicolò

MONTEMARTINI, Giovanni. – Fratello di Clemente e di Gabriele Luigi, nacque a Montù Beccaria (in provincia di Pavia), il 19 febbraio 1867, da Pietro e da Angela Mascheroni.

Si laureò in Giurisprudenza all’Università di Pavia, entrando presto in contatto con il vivace mondo degli studi economici e trovando accoglienza presso la scuola di Luigi Cossa. In quegli anni poté approfondire la sua formazione seguendo studiosi del calibro di Antonio De Viti De Marco, Angelo Messedaglia e, soprattutto, Maffeo Pantaleoni, capofila della teoria marginalista in Italia. Tra il 1893 e il 1894 si recò a Vienna per perfezionare la sua formazione seguendo i corsi tenuti da Carl Menger. Dopo aver insegnato per alcuni anni in diversi istituti tecnici della penisola (Foggia, Cremona, Milano), ottenne la libera docenza in economia politica e poté tornare a Pavia, per insegnare nell’ateneo dove si era laureato.

Nel frattempo si era fatto conoscere grazie ad alcuni lavori inerenti temi importanti del dibattito economico. Già nel 1891 aveva pubblicato La teorica delle crisi. Saggio di patologia economica, seguito l’anno dopo da Il problema della grande e piccola coltivazione delle terre. La stima e la credibilità conquistata nella comunità scientifica con questi studi fu tale da aprirgli le porte della più prestigiosa rivista economica del tempo, il Giornale degli economisti, sulla quale pubblicò, nel 1893, La definizione economico- sociale del risparmio, preludio al volume dato alle stampe nel 1896, Il risparmio nell’economia pura, con la prestigiosa prefazione di Menger.

Montemartini interpretò la scuola marginalista come sviluppo dell’economia classica, ridefinendo concetti quali il punto di equilibrio tra domanda e offerta, la legge dei rendimenti decrescenti, il rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, il calcolo differenziale. Di Pantaleoni come di Menger, continuò a sentirsi, nel corso del tempo, allievo ma non seguace, ritenendo che la riflessione marginalista si prestasse con efficacia a una politica dell’intervento pubblico in una fase in cui era all’ordine del giorno la trasformazione dello Stato monoclasse in Stato pluriclasse. Convinto della necessità di non separare mondo della teoria e mondo della prassi, mostrò sempre una forte spinta etico-politica nella sua riflessione e cercò di costruire un metodo flessibile e coerente, coniugando analisi economica e analisi sociale. Le teorie economiche marginaliste e la statistica gli consentivano di spiegare e dare concretezza a un intervento che, senza rovesciare i cardini dello Stato liberale, tentava di attenuare le distorsioni sociali indotte dai processi di sviluppo. Nel 1902 diede alle stampe la monografia sulla municipalizzazione dei servizi pubblici nella quale erano ripresi i concetti dell’impresa politica, della redistribuzione sociale attraverso l’intervento pubblico nei settori dei servizi di più larga utenza, dell’economicità e dell’utile.

La collettività sosteneva i costi e ricavava soddisfazione di bisogni attraverso l’impiego responsabile delle risorse da parte dell’impresa politica. Ciò non significava che la municipalizzazione fosse in tutti i casi da preferire ad altre soluzioni di gestione dei servizi pubblici. Essa andava valutata in considerazione dei costi, dei benefici, delle condizioni date dal mercato e comunque non come cancellazione dell’iniziativa privata quanto piuttosto in concorrenza con essa. Si rivelava utile quando riusciva, appunto, a procacciare beni e servizi a prezzi inferiori a quelli che si sarebbero ottenuti dalle imprese private. Tenuto conto dell’alternativa principale, ossia il sistema delle concessioni, la municipalizzazione appariva la via maestra per evitare gli inconvenienti palesi di quel sistema: la lenta o assente introduzione di innovazioni, lo sfruttamento degli impianti, la posizione di arbitrio nella fissazione dei prezzi.

Sebbene finisse col ritrovarsi vicino alle posizioni politiche dei socialisti e distante dalle idee di Pantaleoni, non per questo divenne un epigono di Marx. Anche nella ripresa del concetto della lotta di classe, riteneva le posizioni di Marx prive di un adeguato livello di generalizzazione. Reputava il conflitto di classe ineluttabile, come ebbe a scrivere nel saggio Introduzione allo studio della distribuzione delle ricchezze, pubblicato nel 1899, ma la soluzione era diversa da quella immaginata da Marx. Obiettivo finale di Montemartini era quello di giungere a una maggiore equità sociale del sistema, non abbatterlo; inoltre la prospettiva di un sistema collettivista era distante dal suo pensiero. A mezza strada tra marginalismo e socialismo, auspicava che i socialisti non si ponessero tra i detrattori dell’economia pura, ma si disponessero a utilizzarla a fini redistributivi. Grazie alla sua elaborazione il marginalismo di origine liberale e il socialismo non apparivano più incompatibili. Montemartini immaginava di poter avvicinare le due posizioni attraverso l’applicazione concreta di una teoria economica che entrasse nel vivo dei problemi sociali e non rimanesse confinata alle stampe. Uomo pragmatico, non attribuì alle teorie economiche un pieno credito ideologico; lo interessava, piuttosto, raccordare i principi dell’economia pura con la soluzione dei problemi sociali tipici di una società in fase di industrializzazione. Bisognava superare sia le ritrosie liberiste nei confronti di un intervento pubblico nei processi economici, sia il rivoluzionarismo socialista scettico su un possibile ruolo dello Stato borghese a favore delle classi lavoratrici.

L’idea di una prospettiva riformista, nutrita di concreti progetti economico-sociali non slegati dalle possibilità di un intervento istituzionale, e sostenuta da una consapevole adesione delle strutture organizzate del mondo del lavoro, lo avvicinò a Filippo Turati e a Leonida Bissolati, e gli consentì un dialogo aperto con molti liberali progressisti.

Il socialismo di Montemartini era esente da dogmatismo, da eccessi rivoluzionari e dalla pregiudiziale antiliberale; della tradizione socialista accoglieva, piuttosto, il senso della giustizia sociale, l’idea di un allargamento definitivo della base sociale dello Stato, l’attenzione ai ceti più deboli, il concetto di un’amministrazione locale in grado di recare vantaggi all’intera comunità. Era in certo modo rappresentante della maturazione della vocazione amministrativa riformista, capace di cogliere l’intreccio tra modernizzazione, sviluppo industriale, consolidamento degli enti locali, coinvolgimento di una parte ampia della popolazione urbana, non ancora elevata al diritto di voto, alle scelte politico-amministrative.

Attento osservatore dei fenomeni del mercato del lavoro, del costo degli scioperi e degli standard di vita della classe lavoratrice, Montemartini fu eletto nel consiglio della Società Umanitaria di Milano nel dicembre 1901. L’Umanitaria, fondata nel 1893 e sciolta nel maggio 1898 per ragioni di ordine pubblico, era stata riaperta proprio in quell’anno in un mutato clima, coincidente con l’avvento del nuovo secolo e con il governo di Giuseppe Zanardelli. Tra i suoi compiti principali vi era quello di combattere la scarsa organizzazione e strutturazione del mercato del lavoro. Montemartini, chiamato a presiedere la V sessione della Società, dedicata agli uffici di collocamento e, più in generale, alle questioni del lavoro, ritenne che fosse necessaria una raccolta continua di informazioni e dati, ragion per cui l’indagine statistica veniva ad essere strumento centrale di conoscenza, propedeutico a qualsiasi azione normativa di tipo sociale. Nel 1903 Montemartini fu chiamato a far parte del Consiglio dell’emigrazione, presieduto da Luigi Bodio, con cui aveva già avuto contatti all’epoca della creazione dell’Ufficio del lavoro presso l’Umanitaria. Non era contrario alle possibilità di sbocco occupazionale all’estero, purché l’emigrazione non divenisse fenomeno definitivo. Il temporaneo spostamento per motivi di lavoro era infatti concepito come possibilità di creare ricchezza e innalzare la curva dell’occupazione, ma questa soluzione andava organizzata attraverso strutture ed enti. Nello stesso anno, dopo l’approvazione della legge Zanardelli del 1902 sull’istituzione dell’Ufficio del lavoro costituito presso il ministero dell’Agricoltura industria e commercio e del Consiglio superiore del Lavoro, posto al vertice di quell’ufficio, Montemartini fu chiamato a ricoprire l’importante carica di direttore.

Il trasferimento a Roma non significò l’abbandono dell’Umanitaria, ma l’impegno nazionale divenne inevitabilmente prevalente. L’esperienza milanese fu messa a frutto nel lavoro più ampio che lo attendeva nella capitale: in anni nei quali le statistiche del lavoro non presentavano particolare elaborazione e valore, Montemartini introdusse il primo modello d’approccio scientifico, già sperimentato all’Umanitaria. L’uso ricorrente e competente della statistica lo candidò naturalmente al posto di direttore generale della Statistica, direzione costituita presso lo stesso ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio e nucleo embrionale del successivo Istituto di Statistica. L’Ufficio del lavoro venne unito a quella direzione generale dando vita così alla Direzione generale della statistica e del lavoro.

Nonostante le molteplici e impegnative attività, Montemartini continuò a collaborare con riviste prestigiose, di inclinazione socialista riformista, come la Critica sociale, e di tradizione liberale, come il Giornale degli economisti, di cui fu redattore capo dal 1904 al 1910. Se non rinunciò a battaglie liberali, schierandosi ad esempio con la Lega antiprotezionista nel 1904, non smentì mai l’impronta laica della propria formazione, aderendo alla mozione di Bissolati contro l’insegnamento della religione nella scuola elementare nel 1908. Inoltre continuò la sua infaticabile attività di organizzatore di istituti partecipando, nel 1905, alla Fondazione dell’Istituto internazionale di Agricoltura, una sorta di progenitore della FAO, insieme a Davide Lubin, Luigi Luzzatti, De Viti De Marco e Pantaleoni.

Principale teorico delle municipalizzazioni in Italia, ebbe un impatto anche sul piano normativo, inserendosi nel clima che condusse alla legge Giolitti del 29 marzo 1903 (n. 103). Nel 1907 aveva ormai acquisito autorevolezza e notorietà al di là degli ambienti politici ed economici; la riprova fu la sua elezione al Consiglio comunale di Roma dove risultò primo eletto nella lista socialista con 16.000 preferenze. Costituitasi la Giunta presieduta da Ernesto Nathan, ebbe la guida dell’Assessorato ai servizi tecnologici, posizione dalla quale cercò di attuare quella politica che aveva teorizzato e che Nathan voleva realizzata per la città.

Al bisogno di una dotazione di servizi adeguata, si aggiungeva quello di tenere sotto controllo le tariffe a causa dell’innalzamento dei prezzi e della conseguente difficoltà, per i ceti meno abbienti, di far fronte alle più elementari necessità. La possibile risposta stava a suo dire nella rottura del monopolio privato, fermo nell’offerta e ambizioso nelle tariffe, privo di competitività per la natura dei servizi che scoraggiavano i costi di installazioni di apparati complessi e privavano il mercato della concorrenza.

Nathan e Montemartini concordavano sul fatto che, per la gestione del processo di municipalizzazione e di controllo delle società concessionarie, fosse necessaria la costituzione di un apposito ufficio tecnologico, istituito poi nel 1910. Per i trasporti, Montemartini propose l’istituzione di un’azienda municipale concorrente alla privata, la Società Romana Tramways- Omnibus (SRTO), che gestiva il trasporto pubblico a Roma. Ai lavoratori dell’Azienda romana per le tramvie municipali era garantita una partecipazione agli utili d’azienda pari al 22%, scelta che il sindaco Nathan poté rivendicare come modalità di responsabilizzazione e di cancellazione dei conflitti di lavoro.

Più difficile si rivelò la municipalizzazione del servizio elettrico. Montemartini incontrò i maggiori ostacoli per la questione degli indennizzi da corrispondere ai privati, richiesti dalla legge del 1903. La Società anglo-romana di elettricità (SAR) praticava un regime di alti prezzi anche nei confronti del Comune, che ne abbisognava per l’illuminazione pubblica e per il movimento dei tram. Gli alti prezzi e la scarsa offerta di energia furono alla base della costruzione della centrale termica al quartiere Ostiense e di quella idroelettrica presso Castelmadama. Approvate in Consiglio comunale, le municipalizzazioni del servizio dei trasporti e dell’elettricità, furono sancite, come previsto dalla legge, dal referendum svolto il 20 settembre 1909 con un successo schiacciante.

Tuttavia le realizzazioni si fecero attendere ancora qualche tempo. La Società elettrica condizionò le diverse fasi di esecuzione e la contemporanea scelta di municipalizzare il servizio elettrico le diede modo di creare ostacoli anche per l’erogazione dell’elettricità per le tramvie. Pur non contrario alla competizione tra pubblico e privato, Montemartini si rese conto che per giungere a un’equa politica dei prezzi sarebbe stato necessario riscattare gli impianti privati, ma tale posizione mise in urto assessore e sindaco. Nathan, favorevole alle municipalizzazioni, era contrario al riscatto degli impianti privati, misura reputata poco liberale e molto socialista. I contrasti che accompagnarono la costituzione dell’Azienda elettrica municipale resero i tempi più lunghi del previsto, ma il disegno della municipalizzazione dei due servizi strategici andò comunque in porto.

La prima linea tramviaria municipale fu inaugurata il 22 marzo 1911 col collegamento tra piazza Colonna e S. Croce in Gerusalemme. Il 1° luglio 1912 entrò in funzione la Centrale termoelettrica di Roma, affidata all’Azienda elettrica municipale e, nel 1916, fu la volta della centrale idroelettrica di Castelmadama. L’esperienza romana, tanto nel campo dei trasporti quanto nel servizio elettrico, indusse Montemartini a rivedere le sue posizioni in tema di competizione teorica tra pubblico e privato. Il caso dei trasporti, soprattutto, lo convinse che si sarebbe avuto un miglior servizio con la gestione in monopolio del Comune. Ciò sia per la necessità di disporre di impianti, come i binari, che non potevano essere materia su cui trattare una volta definiti i tracciati, sia per dare risposta e sostegno a una mobilità adeguata a una città in crescita.

Le difficoltà incontrate nella municipalizzazione dei due servizi, trasporti ed elettrico, e la crisi della Giunta comunale, non gli consentirono invece di portare a buon fine la municipalizzazione del servizio idrico, nonostante la concessione alla Società dell’Acqua Marcia fosse scaduta nel 1910.

Per determinare il fabbisogno di abitazioni e i possibili interventi municipali in tal senso, il Consiglio comunale affidò a Montemartini anche l’incarico di svolgere una ricerca (poi pubblicata, insieme ad altri dati sui bisogni abitativi del personale ferroviario). Indicati i costi delle opere pubbliche necessarie e lo spazio d’intervento del Comune, Montemartini concluse l’inchiesta con l’indicazione, sulla scorta dell’esempio tedesco, di costituire un demanio per bloccare la speculazione delle aree fabbricabili e di stipulare convenzioni con la grande industria edilizia e con l’Istituto per le case popolari.

In seguito agli orientamenti intransigenti espressi in seno al Partito socialista già nel congresso del 1910, ma soprattutto in seguito alle vicende interne della Giunta e agli urti con il sindaco Nathan, proprio in tema di municipalizzazioni, Montemartini abbandonò il suo ufficio di assessore nel novembre 1911. Continuò comunque a battersi per quel progetto: nell’aula consiliare, il 13 aprile 1913, ormai all’opposizione, chiese una linea più intransigente con l’azienda elettrica privata e la prosecuzione degli investimenti, ma Nathan stesso respinse il suo ordine del giorno. Malgrado diversità e scontri pubblici, le posizioni di Nathan e Montemartini non erano però opposte e Montemartini rimase convinto fino all’ultimo della formula politica del blocco popolare. In luglio, mentre era impegnato in un dibattito sulla questione relativa ai trasporti pubblici della capitale, ebbe un malore nell’aula Giulio Cesare, dal quale non si riprese.

Morì a Roma il 7 luglio 1913.

Oltre alle opere citate, occorre almeno ricordare: L’utilità differenziale del risparmio o la rendita del risparmiatore, Pavia 1897; La teorica delle produttività marginali, Pavia 1899; La statistica della mano d’opera agricola nell’Istituto Internazionale di Agricoltura, Roma 1908; La questione delle case e la costituzione di un demanio edilizio per gli alloggi degli impiegati e salariati comunali, Roma 1908.

Fonti e Bibl.: Allo stato attuale degli studi non è stato individuato un fondo documentario personale. Le fonti disponibili riguardano soprattutto la sua attività presso la Società Umanitaria e come assessore del Comune di Roma, nella forma dei verbali del Consiglio comunale e degli Atti di Giunta. La sua attività di economista e di pubblicista è, al contrario, fitta e ben documentata da saggi e monografie pubblicate principalmente sul Giornale degli economisti e su Critica sociale. Per ciò che riguarda la bibliografia, il profilo di Montemartini – a parte il saggio di D. Da Empoli, G. M. (1867-1913), in I protagonisti dell’economia pubblica in Italia, a cura di A. Mortara, Milano 1984, pp. 121-146 – appare tratteggiato a seconda delle sue diverse attività. Diversi studiosi ne hanno composto un quadro a più tessere: La cultura delle riforme in Italia fra Otto e Novecento: i Montemartini. Atti del Seminario nazionale, Pavia... 1984, Milano 1986, ad ind.; Cultura e lavoro nell’età giolittiana, a cura di V. Gallotta, Napoli 1989, ad ind. Sulla scuola economica del marginalismo e i suoi rapporti con il socialismo si veda Marginalismo e socialismo nell’Italia liberale (1870-1925), a cura di M.E.L. Guidi - L. Michelini, Milano 2001 in cui è contenuto il saggio di A. Cardini, Marginalismo, liberalismo e socialismo: G. M., pp. 121-136. Sul lavoro svolto presso la Società Umanitaria, il bel volume di M.L. D’Autilia, Il cittadino senza burocrazia. Società Umanitaria e amministrazione pubblica nell’Italia liberale, Milano 1995, ad indicem. Sull’attività di assessore a Roma si vedano le parti dedicate all’amministrazione Nathan nei volumi di: A. Caracciolo, Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Roma 1956; G. Talamo - G. Bonetta, Roma nel Novecento. Da Giolitti alla Repubblica, Bologna 1987; V. Vidotto, Roma contemporanea, Roma-Bari 2001; nonché il volume Roma nell’età giolittiana. L’amministrazione Nathan. Atti del Convegno di studio maggio 1984, a cura del Comitato di Roma dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1986 e in particolare il saggio di G. Ciampi, L’amministrazione Nathan: i servizi, pp. 154-197; la monografia di G. Barbalace, Riforme e governo municipale a Roma nell’età giolittiana, Napoli 1994, ad ind.; e la raccolta di saggi Municipalismo democratico in età giolittiana. L’esperienza della giunta Nathan, a cura di D.M. Bruni, Soveria Mannelli 2010, ad indicem.