GIOVANNI MARIA Visconti, duca di Milano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIOVANNI MARIA Visconti, duca di Milano

Andrea Gamberini

Figlio di Gian Galeazzo, conte di Virtù e dal 1395 duca di Milano, e di Caterina di Bernabò Visconti, nacque ad Abbiategrasso, presso Milano, il 7 sett. 1388.

L'evento era particolarmente atteso: persi, infatti, tutti i figli maschi avuti dal precedente matrimonio con Isabella di Valois e trascorsi già sette anni dalle nozze con Caterina, il conte di Virtù cominciava a temere per la continuità dinastica. Allo scioglimento di un voto di Gian Galeazzo alla Vergine sembra potersi legare la genesi del cosiddetto Offiziolo Visconti, commissionato dal conte di Virtù a Giovannino de' Grassi dopo la nascita di G. e tra i capolavori della miniatura tardotrecentesca.

Scarse e frammentarie le notizie sull'infanzia di G.: possedeva un palazzo a Milano, dove Gian Galeazzo volle soggiornasse, forse per compiacere i Milanesi e compensarli così della sua costante lontananza (Bueno De Mesquita, p. 177). Ebbe come nutrice Margherita Casati (da Casate), mentre un altro esponente di questa agnazione, Giovannolo, figurava con il primo camerario Francesco Barbavara tra gli educatori del giovane Giovanni Maria. Nella migliore tradizione viscontea, anche per G. cominciarono assai presto i progetti matrimoniali. Le mai sopite ambizioni di Gian Galeazzo verso la Sicilia e l'appoggio promesso all'impresa da Ladislao d'Angiò Durazzo re di Napoli portarono infatti verso 1395-96 a un'alleanza, da suggellarsi attraverso l'unione di G. con Giovanna, sorella di Ladislao. Il disegno politico del duca sfumò in realtà sotto il peso di difficoltà politiche e organizzative, ma già nel settembre 1396, per contrastare le alleanze che si andavano profilando fra le città di Mantova, Padova e Ferrara, Gian Galeazzo cercò di sparigliare gli accordi matrimoniali fra queste tre corti, chiedendo per il giovane G. la figlia di Francesco Novello da Carrara. In realtà, non sarebbe stato questo l'ultimo progetto per il figlio, né l'ultimo a sfumare. Nel 1401, infatti, superate le tensioni determinate dalla recente occupazione francese di Genova, un riavvicinamento fra le corti di Parigi e di Pavia condusse all'avvio di trattative per unire G. con una delle figlie del re di Francia Carlo VI; un disegno, questo, rilanciato - ancora una volta senza esito -, alla fine del 1402, quando un duplice matrimonio - di G. con la figlia del re di Francia e di Filippo Maria Visconti con la figlia del duca di Borgogna - avrebbe dovuto offrire un sostegno politico di carattere europeo al dominio milanese nel pieno della crisi seguita alla morte del duca Gian Galeazzo (3 sett. 1402). Era stato quello un momento di grande difficoltà: sebbene il piano di successione fosse stato preparato da tempo, la minore età degli eredi rappresentava una grave minaccia per la già precaria stabilità del dominio.

Secondo il privilegio imperiale del 13 ott. 1396, che per la trasmissione della corona ducale fissava il principio della primogenitura maschile legittima (Lünig, coll. 426-432), a G. andò il Ducato di Milano (ovvero Milano e il suo contado), cui si sommò, per disposizione testamentaria paterna, il blocco centrale del dominio composto da Cremona, Brescia, Bergamo, Como, Lodi, Piacenza, Parma, Reggio e Bobbio; con l'erezione della contea di Angera (25 genn. 1397), anche questa terra divenne appannaggio dell'erede al trono; i domini occidentali e orientali, oltre che la contea di Pavia, toccarono invece a Filippo Maria, mentre a Gabriele Maria, figlio naturale di Gian Galeazzo, poi legittimato, furono lasciate la città di Pisa e il borgo di Crema. Sotto la tutela della madre Caterina e con l'ausilio di un Consiglio di reggenza la cui composizione era stata ritoccata da Gian Galeazzo in articulo mortis (25 ag. 1402) - e nel quale primeggiavano Francesco Barbavara, Carlo e Pandolfo Malatesta, Francesco Gonzaga, e i vescovi di Milano, Cremona e Pavia - i tre giovani principi vennero iniziati all'arte del governo.

I primi anni, per la verità, videro G. in posizione di assoluta subalternità rispetto alla madre e ai consiglieri (primo fra tutti F. Barbavara) che avevano assunto le redini dello Stato. Gian Galeazzo, del resto, aveva disposto che G. uscisse dalla tutela solo al compimento del ventesimo anno di età (solo al quindicesimo per Filippo Maria, con una disparità di trattamento nella quale fu vista anche una differente valutazione delle capacità degli eredi). Cura di Caterina e di Barbavara fu innanzitutto quella di raggiungere una rapida pacificazione con i tradizionali nemici, così da prevenire attacchi esterni. Già il 18 sett. 1402 la duchessa nominava dei procuratori per raggiungere un'intesa con Firenze, Padova e Venezia; ma solo con Francesco Novello da Carrara fu siglata la pace il successivo 7 dicembre. La Signoria fiorentina e il papa si erano invece coalizzati per scacciare i Visconti dall'Umbria e dalla Toscana e profittando della gravissima crisi finanziaria attraversata dal Ducato - che costrinse Caterina a impegnare i gioielli di famiglia e ad alienare terre e castelli in cambio di denaro contante - riuscirono ad acquisire alla propria causa alcuni dei principali capitani di ventura viscontei, da Alberico da Barbiano, a Carlo e Malatesta Malatesta da Rimini. È in questa cornice, quando ormai si approssimava la guerra tra la Lega che riuniva il papa, Firenze, Niccolò (III) d'Este e i Visconti, che a Milano scoppiò una sommossa, guidata proprio da due esponenti dell'agnazione viscontea, Antonio e Francesco, pronipoti di Uberto, fratello di Matteo (I). Già sostenitori di Bernabò, dopo la scomparsa di Gian Galeazzo avevano intravisto la possibilità di dare la scalata al potere. Furono loro, dunque, a fomentare la rivolta contro F. Barbavara, accusato di affossare la tradizione di ordine e di sicurezza del ghibellinismo visconteo. Né fu loro difficile trovare tra le principali famiglie milanesi - i Porro, gli Aliprandi, i Baggio, gli Arese - sentimenti di avversione verso il forestiero Barbavara, che il favore di Gian Galeazzo aveva elevato al rango di "primus camerarius" e cui la duchessa Caterina aveva de facto rimesso il governo dello Stato.

Tutto il dominio era in stato di agitazione: lo erano le città, lo erano i borghi e i dominatus signorili; la crisi istituzionale del dominio sembrava ridestare ambizioni politiche, riaprire giochi che con l'energica azione di Gian Galeazzo si erano momentaneamente chiusi. In tanti fra domini e civitates si erano affrettati a giurare fedeltà al nuovo duca, ma già alla fine del 1402 gli echi di una recrudescenza della violenza, degli scontri fra famiglie e fra fazioni giungevano a Milano come uno scricchiolio sinistro, che preannunciava il collasso strutturale dell'edificio statale visconteo.

In questa cornice i fratelli Francesco e Antonio Visconti colsero l'opportunità per passare all'azione e defenestrare F. Barbavara. Il 23 giugno 1403, in Consiglio, alla presenza della duchessa, lo accusarono di perseguire un disegno di arricchimento personale e il giorno seguente, confidando anche sull'appoggio del popolo milanese, al quale Barbavara era stato dipinto come il principale responsabile della fortissima pressione fiscale degli ultimi anni, diedero fuoco alle polveri. Dapprima venne l'uccisione di Giovannolo Casati, figura devota ai giovani principi e alla duchessa, che invano aveva tentato una pacificazione, quindi vennero tumulti in tutta la città contro il potere di Francesco Barbavara e del fratello Manfredi. Per calmare gli animi Caterina percorse le strade cittadine accompagnata da G. e fu proprio in questi frangenti che il giovane duca uscì per la prima volta allo scoperto, gridando dal Broletto "viva lo ducha e mora li Barbavari" (Franceschini, 1945-47, p. 56). Ben poco raccontano le fonti su questa improvvisa presa di posizione di G., fino ad allora rimasto in disparte. Gli avvenimenti successivi (la cacciata e il bando per i Barbavara, l'ingresso in Consiglio dei capi della rivolta, la remissione di certi carichi fiscali a istanza degli organismi comunali milanesi malgrado la pessima situazione finanziaria) mostrano, tuttavia, come la duchessa e gli eredi fossero in realtà ostaggio della politica dei rivoltosi.

I fatti della capitale fecero detonare la rivolta in tutto il dominio, dove l'adesione o l'avversione al nuovo reggimento milanese aveva contribuito a ridestare antiche identità di fazione. Le bandiere del guelfismo e del ghibellinismo tornavano a sventolare, efficace strumento per coordinazioni sovracittadine e per iniziative antiviscontee. Nell'estate del 1403 nelle mani dei guelfi - che si raccordavano ai fuorusciti milanesi - caddero Brescia, Lodi, Piacenza, Parma, Cremona, Soncino, mentre il ghibellino Franchino Rusca occupava Como. Il dominio andava verso la frantumazione e anche chi, come il Rusca, si era fino ad allora proclamato sostenitore visconteo, colse l'opportunità per assumere il diretto governo della città; nei mesi successivi gli stessi capitani viscontei inviati a domare le sedizioni cominciarono ad accarezzare disegni signorili e ad agire come veri e propri domini: così erano destinati a fare Ottobuono Terzi nell'Emilia occidentale, così Pandolfo Malatesta (che, domata la ribellione di Brescia, se ne impadronì), così pure Facino Cane, impegnato su vari fronti dai Visconti, che otteneva il titolo di governatore e in seguito la signoria di Alessandria. La pace di Caledio del 25 ag. 1403, che segnò la fine della dominazione viscontea a Bologna e nell'Umbria, tolse alla Lega il determinante sostegno pontificio, provocando di fatto la cessazione delle ostilità. Solo Firenze appariva desiderosa di proseguire, ma preferì condurre la sua battaglia continuando a finanziare i sempre più numerosi nemici interni dei Visconti, come i Rossi di Parma, i Fogliani di Reggio, i Cavalcabò di Cremona: tutte famiglie pronte a riscoprire o rispolverare la propria tradizione guelfa per ottenere sostegni e aiuti.

Allentatasi la pressione esterna, Caterina decise di passare all'azione e con un colpo di mano il 6 genn. 1404 dispose l'arresto e la decapitazione dei capi della rivolta, fra cui Antonio e Galeazzo Porro e Galeazzo Aliprandi (l'assassino di Casati). Già il 31 seguente Francesco Barbavara, richiamato dalla duchessa, faceva rientro in Milano. Ma i suoi nemici non si davano per vinti. I ghibellini Beccaria, che a Pavia manovravano il giovanissimo Filippo Maria, ottennero l'arresto di Manfredi Barbavara e suggerirono a G., per bocca del fratello Filippo Maria, di catturare lo stesso Francesco. Bene emerge in questi frangenti tutta la debolezza dei giovani principi, sempre più in balia delle potenti famiglie locali. Inviato a Milano come rappresentante del conte di Pavia, Castellino Beccaria riuscì a far richiamare dal duca i fratelli Antonio e Francesco Visconti con gli altri ghibellini milanesi: per la seconda volta G. entrava in urto con la madre Caterina, ancora sostenitrice del Barbavara, ma la spaccatura fra i due era sempre più profonda. Già dal luglio del 1403 "scompare nei documenti ducali l'accenno al consenso della duchessa quale curatrice" di G. (Cognasso, 1955, p. 99), segno di una volontà di emancipazione cui forse non erano estranee le forze che miravano a sostituire la duchessa nella guida dell'ancor giovane erede, costretto a proseguire la politica materna di alienazioni e infeudazioni. Della gravissima crisi al vertice dello Stato profittarono nemici vecchi e nuovi, esterni e interni: il Carrarese, che rioccupò le terre venete, Ottone Rusca e Giovanni Vignati, che cercarono di assalire la stessa Milano, confidando nell'appoggio dei guelfi intrinseci. Al principio del 1404 ai Visconti non rimaneva che qualche terra in Piemonte, la città di Bergamo e le due capitali, Milano e Pavia, peraltro dominate dalle fazioni locali. Amareggiata dall'atteggiamento del figlio G. e dallo strapotere della parte ghibellina, Caterina si ritirò nel castello di Monza nell'estate del 1404, dove morì misteriosamente il 17 ottobre, forse avvelenata per ordine dello stesso G. (Zimolo, p. 412).

Libero della tutela della madre, il duca si ritrovava ora alla mercé di Antonio e Francesco Visconti. Bisognoso di sostegno per contrastare Pandolfo Malatesta, ormai signore di Brescia - sostegno che gli fu promesso dagli eredi di Bernabò Visconti -, G. fu costretto il 4 nov. 1404 a importanti concessioni territoriali: Bergamo e la Ghiara d'Adda andarono a Mastino Visconti; a Estorre i castelli di Martinengo e Morengo, mentre Giovanni di Carlo Visconti (Giovanni Piccinino) veniva investito della città di Brescia con la Val Camonica e la Riviera di Salò, in funzione antimalatestiana.

Ma era solo l'inizio della dissoluzione dei precedenti equilibri politici. Sotto le pressioni della piazza G. dispose la distruzione della cittadella di Porta Vercellina, tra i principali presidi militari all'interno di Milano; coronamento di questa politica di dissoluzione dello Stato visconteo furono ampie concessioni al Comune di Milano - organismo dietro il quale erano le ambizioni di alcune delle principali famiglie milanesi -, a cominciare dalla cessione di tutti i cespiti fiscali in cambio di 16.000 fiorini mensili. Ogni privilegio fiscale concesso dal duca avrebbe dovuto ricevere da questo momento l'autorizzazione degli organi del Comune e gli ufficiali di quest'ultimo avrebbero affiancato quelli ducali nella deliberazione delle spese. Perfino i magistrati delle entrate avrebbero dovuto essere scelti da G. fra una rosa di nomi proposti dal Comune. Era la rivincita dei ceti eminenti milanesi e la negazione del progetto di accentramento promosso da Gian Galeazzo e che proprio nell'avocazione alla Camera di tutte le entrate delle città suddite aveva trovato forse il suo punto più alto.

Dalla fine del 1405 i mutamenti politici al vertice del Ducato si susseguirono frenetici, rivelando l'incapacità di G. nel perseguire un proprio disegno di riscatto e il forte condizionamento che sul giovane principe erano in grado di esercitare le forze via via emergenti. Forse spinto da quei cittadini insofferenti della tirannide di Antonio e Francesco Visconti, G. nominò il fratello Gabriele Maria governatore generale del Ducato; sono fasi su cui le fonti si rivelano avare di notizie: Antonio e Francesco Visconti vennero allontanati dalla corte, ma lo stesso Gabriele Maria, in disaccordo con G. abbandonò Milano nel 1406. Un nuovo consigliere, frattanto, si faceva strada, fino a giungere al governatorato di Milano: Carlo Malatesta.

Figura fedele a Gian Galeazzo, si era ritirato dalla corte viscontea dopo la morte di questo, ma in un momento di così forte difficoltà il nuovo duca ritenne opportuno richiamare un uomo di provata lealtà, per di più non inviso ai ceti milanesi. L'iniziativa del Malatesta si articolò su più fronti nel corso dei successivi due anni: già nell'estate del 1406 raggiunse una tregua con i signori di Lodi (Giovanni Vignati), di Crema (Giorgio Benzoni) e di Cremona (Cabrino Fondulo). Un decreto del 28 agosto cercò poi di portare la pacificazione a Milano, distinguendo i banditi secondo la gravità del crimine, così da favorire il rientro degli esuli. Per ridimensionare il ruolo del Comune di Milano, enormemente cresciuto dopo la morte di Gian Galeazzo, soppresse in seguito (19 genn. 1408) il Consiglio dei novecento e lo sostituì con uno più ristretto, composto da 72 membri eletti direttamente dal duca in ragione di 12 per ciascuna porta. Per fronteggiare la gravissima crisi finanziaria si avviò un progetto di riforma dell'estimo, nuovi mutui vennero accesi e si studiò di creare un Monte cittadino per emettere buoni del debito pubblico.

Al principio del 1407 era di nuovo guerra. Francesco e Antonio Visconti, e lo stesso Gabriele Maria, avevano trovato appoggio in quello che era diventato il più potente fra i condottieri viscontei, da qualche tempo sostituitosi ai Beccaria nel controllo di Filippo Maria: Facino Cane. In febbraio alla testa di un contingente di alcune migliaia di uomini mosse contro Milano, che non attaccò, limitandosi a imporre a G. il rientro dei fuorusciti e la concessione per sé del titolo di capitano generale. In questa veste Facino Cane cercò quindi di contrastare l'offensiva di Pandolfo Malatesta, cui si erano aggiunti Iacopo Dal Verme e Ottobuono Terzi, ma senza alcun esito, tanto da dover abbandonare il Ducato e riparare nei suoi feudi in Piemonte, mentre Iacopo Dal Verme e Ottobuono Terzi, liberi di muoversi, marciavano su Milano, minacciata di saccheggio.

G. non appariva in grado di reagire; confidava nei ghibellini, attestati nel castello di Porta Giovia, ma quando questi non accettarono la tregua promossa dal duca, furono banditi. G., sempre più incapace di districarsi tra le fazioni, richiese allora la mediazione di Luigi duca d'Orléans (la cui moglie era Valentina, sorellastra di G.): i negoziati già avviati nel 1407, e interrotti per l'opposizione di Carlo Malatesta e per l'assassinio di Luigi d'Orléans, ripresero ora nuovo slancio, per impulso del favorito di turno del duca, Antonio Della Torre. Era questi una figura nuova dell'entourage ducale, affermatosi dopo la partenza da Milano di Carlo Malatesta, avvenuta nell'estate 1408. Ormai convinto di poter esercitare anche a distanza un ascendente su G., specie dopo aver combinato il matrimonio fra questo e la propria nipote Antonia, figlia del signore di Cesena Malatesta (1° luglio 1408), Carlo aveva fatto rientro in patria: a sorvegliare il duca potevano bastare sia il suocero, trattenutosi a corte, sia, soprattutto, Pandolfo Malatesta, padrone indiscusso di Brescia. Un'ultima attenzione, tuttavia, il condottiero volle riservare a G., prima di congedarsi: una sorta di testamento politico in cui sembrano raccolti tutti quei precetti di buon governo che non si può dire avessero ispirato fino ad allora la politica del duca.

Nel marzo 1409 si costituì una grande lega composta da G. e Filippo Maria, il conte di Savoia, il principe di Acaia, Cabrino Fondulo e il governatore francese di Genova, Jean le Meingre detto il Boucicault, cui fu affidato il comando delle truppe e concesso il titolo di governatore del duca e del conte di Pavia; il nemico da abbattere era Facino Cane. Contro il condottiero fu inviato Pandolfo Malatesta, ma i due trovarono presto un accordo e un comune obiettivo nella cacciata dei Francesi. Il 7 apr. 1409 Pandolfo entrava a Milano, mentre Facino rimaneva accampato fuori porta Ticinese. G., ancora una volta alle strette, dovette venire a patti con i due capitani, concedendo in particolare a Facino i feudi di Varese, Castiglione, Lonate Pozzolo e altre terre in partibus Seprii. Il potere di Facino era destinato ad accrescersi nei mesi seguenti, quando l'occupazione di Genova da parte delle sue schiere, in coincidenza con la rivolta antifrancese diffusasi nella città ligure, costringeva il Boucicault a ritirarsi con le sue truppe. Il 6 novembre seguente, reduce dalla vittoria sui Francesi, Facino assumeva il titolo di governatore di Milano: di fatto, ne era il padrone, come ben mostrano i decreti del duca, promulgati "con il consenso e la deliberazione del magnifico e illustre conte di Biandrate padre e governatore suo" (Cognasso, 1955, p. 144).

La condivisione del potere fra il duca e il governatore andava stretta a entrambi: Facino Cane, ormai arbitro della politica estera e interna del Ducato, possedeva a vario titolo domini più estesi di quelli dello stesso G. e accarezzava probabilmente il sogno di ricevere il vicariato imperiale da Sigismondo di Lussemburgo; G., per parte sua, avvertiva i limiti di questa situazione e cercò di catturare a tradimento il rivale, tendendogli un tranello nel palazzo dell'Arengo (5 apr. 1410). Il tentativo fallì e la successiva mediazione veneziana portò a una riaffermazione dei poteri di Facino Cane, cui il 12 maggio 1410 G. confermò il governatorato per tre anni. In breve Facino raggiunse tregue con gli eredi di Bernabò, con Giorgio Benzoni e Giovanni Vignati: suo obiettivo fu quindi la contea di Pavia, che conquistò con l'appoggio dei Beccaria, costringendo in tal modo anche Filippo Maria a riconoscerne il potere. Ormai lanciato verso la conquista del dominio, Facino portò l'attacco finale contro gli eredi di Bernabò e contro Pandolfo Malatesta, l'unico in grado di resistergli; ma proprio mentre le sue truppe assediavano Bergamo fu colpito da un attacco di gotta. Le gravi condizioni del governatore allarmarono i ghibellini milanesi, timorosi che la sua scomparsa potesse portare l'instabile G. a una nuova alleanza coi guelfi. Già si veniva profilando l'identità di chi avrebbe dovuto raccogliere l'eredità viscontea - e la fazione ghibellina pareva concorde su due dei discendenti di Bernabò, Estorre e Giovanni -, quando il 16 maggio 1412, mentre G. si recava nella chiesa di S. Gottardo, un folto gruppo di congiurati - fra i quali appartenenti della famiglie Pusterla, Aliprandi, Trivulzio, del Maino - entrò in azione, pugnalandolo a morte. Poche ore dopo moriva anche Facino Cane.

G. lasciava uno Stato in piena dissoluzione. La prematura scomparsa del padre lo aveva spinto ad assumere responsabilità di governo soverchianti le capacità di un quattordicenne; né il Consiglio di reggenza - diviso da rivalità e inimicizie - era stato per lui una guida sicura. E tuttavia, malgrado indubbie attenuanti, le responsabilità di G. apparvero grandi agli occhi dei contemporanei come a quelli dei posteri. Eterogenee, ma convergenti, tutte le testimonianze ne hanno dipinto una personalità fragile e volubile, incline agli eccessi e agli scatti d'ira; un principe circondato da levrieri e mastini - cui era solito dare in pasto i nemici -, ma incapace di scegliere con altrettanta cura i consiglieri di cui valersi.

La storiografia moderna non ha espresso giudizi più benevoli. Di "sanguinosa follia" e di "odio bizzoso e isterico" parla il Valeri (1938, p. 207). "Condotta pazza e crudele" la definisce lo Zimolo (p. 426); e in toni simili si esprime anche il Cognasso (1966, p. 390), indicando nella "follia" e nella "sventatezza" la rovina del giovane principe.

Fonti e Bibl.: Milano, Civico Archivio storico e Bibl. Trivulziana, Trivulz., 143; Registri delle lettere ducali (1401-03, 1408-09, 1410-13); Registri delle provvisioni (1406-15); Registro dell'ufficio dei sindaci (1395-1409); Arch. di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, b. 18; Archivio diplomatico, Diplomi e dispacci sovrani, Milano, cart. 1; Governatore degli statuti, Registri degli atti sovrani, Panigarola statuti, reg. 2; Codex Italiae diplomaticus, a cura di I.C. Lünig, I, Francofurti - Lipsiae 1725, coll. 426-432, 434-438; Annales Mediolanenses, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XVI, Mediolani 1730, col. 817; A. Biglia, Historia, ibid., XIX, ibid. 1731, coll. 1-36; Codice visconteo-sforzesco, a cura di C. Morbio, Milano 1846, pp. 32-142; Documenti dipl. tratti dalli archivi milanesi, a cura di L. Osio, I, Milano 1864, pp. 375-426; Arch. storico lombardo, V (1878), pp. 694-697 (decreto di bando emesso da Filippo M. Visconti dopo l'uccisione del fratello); I registri dell'ufficio di provvisione e dell'ufficio dei sindaci sotto la dominazione viscontea, a cura di C. Santoro, Milano 1929, ad ind.; Il registro di Giovannolo Besozzi cancelliere di G. V., a cura di C. Santoro, Milano 1937, ad ind.; R. Maiocchi, Francesco Barbavara durante la reggenza di Caterina Visconti secondo i documenti dell'Archivio civico di Pavia, in Miscellanea di storia italiana, XXXV (1898), pp. 257-303; P. Pecchiai, Cristoforo Della Strada e un episodio delle lotte guelfo-ghibelline in Milano durante il dominio del duca G. V., in Arch. storico lombardo, XLIII (1916), pp. 393-416; G. Romano, A proposito di un testamento di Gian Galeazzo Visconti, in Boll. della Soc. pavese di storia patria, XVII (1917), pp. 13-42; G. Franceschini, L'insegnamento di Giangaleazzo Visconti e i consigli al principe di Carlo Malatesta, in Boll. stor. bibliografico subalpino, XXXVI (1934), pp. 452-487; N. Valeri, Guelfi e ghibellini in Val Padana, ibid., XXXVII (1935), pp. 237-258; M. de Boüard, La France et l'Italie au temps du grand schisme d'Occident, Paris 1936, pp. 249, 283-290; Id., L'eredità di Gian Galeazzo Visconti, Torino 1938, passim; A. Fanfani, Le prime difficoltà finanziarie di G. V., in Rivista storica italiana, s. 5, XVII (1939), pp. 99-104; N. Valeri, La vita di Facino Cane, Torino 1940, pp. 117-204; D.M. Bueno de Mesquita, Gian Galeazzo Visconti duke of Milan (1351-1402). A study in the political career of an Italian despot, Cambridge 1941, ad ind.; G. Franceschini, Dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, in Arch. stor. lombardo, LXXII-LXXIV (1945-47), pp. 49-62; N. Valeri, Guelfi e ghibellini a Milano alla scomparsa di Gian Galeazzo Visconti, Milano 1955, passim; F. Co-gnasso, Il Ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, pp. 68-152; C.G. Zimolo, Il ducato di G. V., in Scritti storici e giuridici in memoria di Alessandro Visconti, Milano 1955, pp. 389-440; F. Cognasso, I Visconti, Varese 1966, pp. 358-391; M.F. Baroni, I cancellieri di G. e Filippo Maria Visconti, in Nuo-va Rivista storica, L (1966), pp. 367-428; G. Franceschini, I Malatesta, Varese 1973, pp. 206-216; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, II, Torino 1978, pp. 981-1028; La politi-ca finanziaria dei Visconti, a cura di C. Santoro, II, Gessate 1979, ad ind.; A. Cerri, Un codicetto quattrocentesco all'Ambrosiana. Una lettera inedita di G. e Filippo Maria Visconti all'imperatore Venceslao (3 sett. 1402), in Boll. della Soc. pavese di storia patria, LXXXVI (1986), pp. 51-65; B. Betto, Il testamento del 1407 di Balzarino Pusterla, in Arch. stor. lombardo, CXIV (1988), pp. 261-301; E.W. Kirsch, Five illuminated manuscripts of Gian Galeazzo Visconti, London 1991, pp. 45-48.

CATEGORIE
TAG

Francesco novello da carrara

Sigismondo di lussemburgo

Filippo maria visconti

Gian galeazzo visconti

Giovannino de' grassi