MARCHETTI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 69 (2007)

MARCHETTI, Giovanni

Giuseppe Pignatelli

Nacque a Empoli il 10 apr. 1753, primogenito di Giuseppe e di Dorotea Branzi (dopo di lui nacquero tre femmine, Teresa, Lucrezia e Maria Giovanna). Dopo l'ultimo parto, nel 1759, la madre morì. Nel 1767 venne a mancare anche il padre.

La famiglia non era agiata e dopo la morte del padre fu difficile al M. seguire studi regolari, ma, fornito di buone doti intellettuali, egli "grazie a qualche studio e pratica di giurisprudenza […] esercitò per poco tempo la procura nel tribunale della sua patria" (Della Fanteria, p. 258).

Nel 1773 si trasferì a Roma, dove, ottenuta la protezione del cardinale L.M. Torrigiani, poté proseguire gli studi nel Collegio romano. Ordinato sacerdote il 20 dic. 1777, il M. vi si laureò in teologia il 12 sett. 1778.

Morto Torrigiani nel 1777, il M. fu accolto in casa dei duchi Mattei di Giove, svolgendo l'incarico di segretario. Nel 1780 pubblicò a Roma il Saggio critico sopra la Storia ecclesiastica del signor abate Claudio Fleury e del suo continuatore…: l'opera, polemica nei confronti delle tesi moderatamente gallicane di Fleury, di cui metteva in evidenza errori e forzature nell'interpretazione dei testi patristici e conciliari, ebbe grande successo e la tiratura fu presto esaurita. Il M. pensò allora di pubblicarne una nuova edizione notevolmente ampliata, Critica della Storia ecclesiastica e de' discorsi del sig. abate Claudio Fleury, con un'appendice sopra il di lui continuatore, I-II, Bologna 1782-83.

Fino da queste prime prove si notano le caratteristiche degli scritti del M.: l'obiettivo non è scientifico-erudito, ma apologetico e basato su una grande irruenza polemica; non a caso la sua vastissima produzione è tutta in lingua italiana, atta a raggiungere anche un pubblico scarsamente preparato nella lingua latina; l'erudizione, fondata su una vasta e profonda conoscenza di opere teologiche, filosofiche e storiche, non è mai fine a se stessa, ma al servizio della propaganda cattolica di stretta osservanza romana. La Critica ebbe numerose riedizioni in Italia; fu tradotta in tedesco ad Augusta nel 1789, in spagnolo a Madrid (1801) e in francese per opera degli ambienti ultramontani (Lyon 1802 e Paris 1813). Sulla scorta dell'opera del M. si formarono i giudizi di J. de Maistre, che definì Fleury "le plus dangereux des hommes qui ont tenu la plume dans les matières ecclésiastiques", e di F.-R. de Lamennais, che affermava "plus il lit Fleury, plus il s'en dégoûte" (D. Gorce, Fleury (Claude), in Dict. d'histoire et de géogr. ecclésiastiques, XVII, col. 487).

Forte del successo ottenuto, il M. continuò negli anni seguenti a scrivere in favore del primato del papa nella Chiesa, prendendo di mira soprattutto giansenisti e gallicani. Videro la luce Del concilio di Sardica e de' suoi canoni sulla forma de' giudizi ecclesiastici (Roma 1785; rist., ibid. 1789, con il titolo L'autorità suprema del sommo pontefice dimostrata da un solo fatto), le Esercitazioni ciprianiche sopra il battesimo degli eretici e degli scismatici e Le Raciniane, ovvero Lettere d'un cattolico ad un partigiano della Storia ecclesiastica di Bonaventura Racine (1787, anonime e senza indicazione di luogo).

Frattanto, per sostenere le posizioni della S. Sede soprattutto all'interno del mondo cattolico, nel luglio 1785 era nato il settimanale Giornale ecclesiastico di Roma, diretto da L. Cuccagni su posizioni moderate. Alla fine dell'anno, per volontà di Pio VI, entrò nella redazione il Marchetti.

Ciò impresse gradualmente una svolta, con la creazione nel periodico di due anime: una più duttile, fondata sulla distinzione tra dottrina agostiniana e giansenismo, disponibile a tendere la mano a quanti fossero pronti a riconoscere il primato del papa, l'altra, impersonata dal M., molto più intransigente, chiusa a ogni dialogo con gli avversari. Il primo intervento del M. (31 dic. 1785, pp. 107 s.; 7 e 14 genn. 1786, pp. 179 s., 183 s.) è significativo in questo senso. Prendendo di mira la traduzione di un'opera del maurino A. Guyard, pubblicata a Prato nel 1785 (Dissertazione sull'onorario delle messe), egli irrideva gli aspetti più propriamente religiosi dei giansenisti e il rigore con cui intendevano recuperare la tradizione in materia liturgico-devozionale. In virtù di questa sua intolleranza, per qualche tempo il M. rimase isolato nella redazione e la sua collaborazione si diradò.

La celebrazione del sinodo di Pistoia nel settembre 1786, plateale atto di ribellione del vescovo S. de' Ricci contro la S. Sede, cambiò la situazione. Il M., inviato in Toscana, fu incaricato di raccogliere notizie sul sinodo. Impedito di entrare nel territorio della diocesi di Pistoia e Prato, ebbe colloqui con gli arcivescovi di Siena (T. Borghesi, che gli riferì sulle posizioni di altri vescovi toscani) e di Firenze (Antonio Martini); parlò con semplici sacerdoti e laici in vari luoghi: ne ricavò quanto bastava per comporre le Notizie su lo stato presente delle chiese della Toscana rilevate sul luogo (relazione presentata al nunzio a Firenze, L. Ruffo Scilla, pubblicata da Savio, pp. 949-953) che, allo scopo di orientare la S. Sede verso una sollecita condanna del sinodo, fornivano un quadro tendenzioso delle opinioni del clero e dei laici toscani in grande maggioranza contrari alle riforme di Ricci.

Quando fu pubblicata la Lettera pastorale di questo, datata 5 ott. 1787, il M. fu incaricato dal papa di confutarla. Ne nacque un libello anonimo, Annotazioni pacifiche di un parroco cattolico a mons. vescovo di Pistoia e Prato sopra la sua lettera pastorale… (Italia [ma Roma] s.d.).

L'attacco a Ricci era totale: dipinto come nemico della religione tradizionale, promotore di una riforma che non trovava favore tra gli altri vescovi e il popolo, organizzatore di un sinodo i cui atti egli faceva sottoscrivere ai parroci con pressioni minacciose, il vescovo di Pistoia era accusato di avere del papa una nozione più vicina a quella dei protestanti che dei giansenisti di Utrecht e francesi. Stigmatizzando la contrarietà di Ricci alle devozioni popolari, il libello si concludeva con un'esaltazione della cieca fede degli umili e della devozione al S. Cuore, tanto cara ai gesuiti.

Le Annotazioni, sebbene criticate anche a Roma dai più moderati, ebbero un enorme successo (se ne conoscono 16 edizioni e traduzioni in latino, francese e tedesco). Nell'estate del 1788 videro la luce Le annotazioni pacifiche confermate dalla nuova pastorale di monsig. di Pistoia e Prato de' 18 maggio 1788, da due lezioni accademiche del sig. d. Pietro Tamburini e dalle Lettere di Finale del sig. ab. d. Marcello Del Mare (s.l. 1788), che rincaravano le accuse ai giansenisti italiani. Sulla stessa linea si collocavano le Ricerche ecclesiastiche a occasione della lettera pastorale di mons. vescovo di Chiusi e Pienza de' 3 genn. 1788 (s.l. né d.).

La pubblicazione delle Annotazioni, di cui si conobbe presto la paternità, ebbe conseguenze sulla vita privata del M.: nel 1786 egli aveva lasciato casa Mattei per divenire precettore del duca Francesco Sforza Cesarini. Le pressioni della corte toscana su questa famiglia portarono nell'agosto 1788 al licenziamento del M.; ma intervenne Pio VI (v. la lettera del papa al M., datata 2 sett. 1788, in Della Fanteria, p. 265), che gli assegnò 15 scudi mensili e un appartamento nel Collegio romano per consentirgli di dedicarsi più assiduamente all'attività pubblicistica.

All'inizio del 1789 nacque il Supplemento al Giornale ecclesiastico di Roma, un mensile che pubblicò soltanto saggi di Cuccagni e del M., che acquistava quindi maggiore spazio. Pochi mesi dopo, lo scoppio della Rivoluzione francese focalizzava l'attenzione del M. sugli avvenimenti politici e sui riflessi che questi avevano sulla vita religiosa ed ecclesiastica. L'abolizione delle decime e l'esproprio dei beni della Chiesa furono da lui avversati non con motivazioni religiose, di cui era dubbia l'efficacia, ma sociali. Il M. faceva sue le argomentazioni di E.-J. Sieyès: l'abolizione delle decime era definita "uno sterile regalo fatto ai facoltosi, in proporzione della loro maggior ricchezza […] senza alcun profitto" per la generalità del popolo (Giornale ecclesiastico, 23 genn. 1790, p. 11); quanto all'alienazione dei beni del clero, ne avrebbe sofferto "il popolo della campagna" a vantaggio di "alcuni ingordi capitalisti" (Supplemento, II [1790], p. 291). Il M. fu abile nell'utilizzare in senso controrivoluzionario e filopapale anche scritti di non cattolici, come le Reflections on the Revolution in France dello scrittore protestante irlandese E. Burke, che tradusse e compendiò sulla base della 3ª ed. francese. Nelle Riflessioni sulla Rivoluzione di Francia… compendiate, e per ciò che risguarda le materie ecclesiastiche, volgarizzate distesamente da un giornalista romano (apparse dapprima nel Supplemento, III [1791], pp. 265-354 e poi a parte, Roma 1791) il M. approvava in particolare la tesi dell'esistenza di una congiura ordita dai philosophes (ai quali egli aggiungeva i giansenisti) per distruggere la religione con l'aiuto dei principi illuminati e le motivazioni con cui Burke avversava, in nome della sacralità del diritto di proprietà, l'alienazione dei beni del clero. Da questo momento l'attività pubblicistica del M. si caratterizzò sempre più in senso politico-ideologico.

L'atteggiamento di resistenza del clero francese (e dell'episcopato in particolare) contro la costituzione civile del clero, con il rifiuto del giuramento di fedeltà allo Stato rivoluzionario, indusse Pio VI ad affidare al M. il compito di raccoglierne e pubblicarne le rimostranze: nacquero le Testimonianze delle Chiese di Francia sopra la così detta Costituzione civile del clero decretata dall'Assemblea nazionale (I-XVI, Roma 1791-94). Il M. ritenne opportuno aggiungere alle lettere degli ecclesiastici francesi ampie annotazioni, nei casi in cui fossero stati richiamati i principî gallicani; egli ne segnalava la pericolosità sostenendo che la lotta contro la Rivoluzione doveva fondarsi sull'unità di tutti i cattolici con il pontefice eliminando qualsiasi autonomia. Queste note furono ritenute inopportune dal segretario di Stato F.S. de Zelada, che spinse Pio VI a chiedere al M. di non inserirle più nei volumi successivi; questi, tuttavia, dopo l'apparizione del II volume, preferì rinunciare all'incarico che fu trasmesso a un altro dei redattori del Giornale ecclesiastico, Serafino Viviani.

L'intransigenza del M. nasceva dalla convinzione, condivisa peraltro da numerosi pubblicisti cattolici, che alla preparazione e allo scoppio della Rivoluzione avesse contribuito uno schieramento molto eterogeneo, composto da quanti (giansenisti, philosophes illuministi, regalisti, giurisdizionalisti, gallicani ecc.), con scritti e atti, avevano indebolito l'autorità della religione e del papa in particolare, colpendo di riflesso il principio di autorità con conseguenze catastrofiche sulla solidità dei troni. In questo senso egli accoglieva l'equiparazione dei giansenisti ai giacobini, anche se ammetteva che le idee degli uni e degli altri erano del tutto diverse (cfr. la lunga recensione al libro di G.V. Bolgeni, Problema se i giansenisti siano giacobini, Roma 1794, ove afferma: "Un giacobino riderà come un matto, e insulterà come frenesie del fanatismo più stolto, tutti i melanconici sistemi di un giansenista; e all'incontro un giansenista […] si farà il segno della croce, come alla vista del diavolo, se per caso s'incontra con un giacobino": Supplemento al Giornale ecclesiastico di Roma, VI [1794], p. 227).

L'attività del M. non era limitata alla pubblicistica. Revisore degli Atti del sinodo di Pistoia (Arch. segreto Vaticano, Proc. Dat., 177, cc. 83-96: in Hierarchia catholica, VIII, p. 74), esaminatore del clero romano, confessore dei condannati a morte, teologo della Dataria apostolica, dal 1794 ebbe di fatto il rettorato della casa del Gesù, che ospitava numerosi membri della soppressa Compagnia (la nomina ufficiale venne nel 1797); dirigeva anche gli esercizi spirituali del clero e delle confraternite romane e predicava nelle "missioni". Benché "alquanto piccolo di statura" (Della Fanteria, p. 257), la voce tonante e la veemenza nella predicazione esercitavano un grande ascendente sul popolo: per questo si ricorse a lui nel gennaio 1793, nei giorni seguenti all'assassinio di H. de Bassville, per acquietare gli animi dei Trasteverini.

Nel 1796, mentre le armate rivoluzionarie entravano nello Stato della Chiesa e il timore del popolo veniva abilmente fomentato dai pulpiti, il M. ebbe una parte non secondaria nell'eccitare gli animi sia predicando in varie piazze sia redigendo una relazione ufficiale dei miracoli che in molti punti di Roma il popolo credeva di percepire (De' prodigi avvenuti in molte sagre immagini specialmente di Maria Ss., secondo gli autentici processi compilati in Roma… con breve ragguaglio di altri simili prodigi comprovati nelle curie vescovili dello Stato Pontificio, Roma 1797).

Alla fine del 1796 il M. pubblicò anonimo un opuscolo: Che importa ai preti? Ovvero l'interesse della religione cattolica ne' grandi avvenimenti politici di questi tempi…, s.l. né d. (inserito anche nel Supplemento, IX [1797], pp. 3-185).

Secondo il M. lo scopo della Rivoluzione era la distruzione non solo delle monarchie, ma anche della religione cattolica, obiettivo perseguito da tempo da una congiura che si era dapprima presentata come volontà riformatrice. Ma i congiurati si erano sbagliati nel credere "le forze della religione ne' popoli, generalmente più deboli, che non le abbiano di poi trovate", specialmente in Italia, dove il sentimento religioso è più radicato (pp. 126 s.): perciò sono corsi ai ripari con il fingere rispetto per la religione cattolica inserendo nelle costituzioni delle repubbliche democratiche norme atte a farlo credere. Per il M. prestar fede a tali avances era molto pericoloso: la Rivoluzione andava combattuta senza quartiere, specialmente ora che i popoli erano delusi dopo avere sentito tante vaghe promesse e avere ottenuto solo nuove imposte (pp. 149 s.); era giunto, quindi, il momento di promuovere una crociata, con un "generale sollevamento di tutti i popoli della cristianità" contro gli oppressori francesi (p. 175).

Dopo il trattato di Tolentino però anche il M. non escluse la possibilità di una convivenza della Chiesa con i nuovi governi democratici e, alla vigilia dell'ingresso delle truppe francesi a Roma, pubblicò nel Supplemento (X [1798], pp. 3-56) il Ragionamento cattolico-politico sul mezzo di conservare la democrazia… (Genova 1797), opera dell'ex gesuita G. Gandolfi, corredandolo di note. In queste affermava esplicitamente che la Chiesa non si schiera in assoluto con le monarchie ma giudica "buono quel governo, ove la virtù è rispettata e protetta, ed ove la giustizia rende unicuique suum" (p. 35); d'altronde in uno Stato democratico l'utilità della religione cattolica è maggiore che in uno Stato assoluto, in quanto essa è in grado di ottenere quella "morale unanimità" e quella "minore opposizione che sia possibile" che, secondo lui, formavano i due cardini di un sano sistema democratico (pp. 45-47).

Il M. non confermò questa maggiore duttilità dopo l'ingresso dei Francesi a Roma e la deposizione di Pio VI: il 26 febbr. 1798 fu arrestato con l'accusa di avere aizzato il popolo trasteverino alla rivolta e rinchiuso in Castel Sant'Angelo. Liberato il 4 aprile, fu espulso da Roma con l'ordine di rimpatrio: pochi giorni dopo si rifugiò nel convento dei carmelitani di Corniola nei sobborghi di Empoli.

Dopo la deposizione del granduca da parte dei Francesi (marzo 1799) e la nascita ad Arezzo dell'insorgenza del Viva Maria, anche a Empoli il 4 e il 5 maggio la popolazione si sollevò. La repressione francese fu immediata: accusato di essere tra i promotori della sollevazione, il M. fu arrestato la notte tra il 16 e il 17 maggio. Liberato il 10 giugno, dopo la partenza delle truppe francesi il M. rimase in Toscana per poco più di un anno, dedicandosi alla predicazione e alla stesura di altri scritti.

Videro la luce allora alcune opere commissionategli da Pio VI, con cui aveva avuto contatti tra il 1798 e il 1799 quando il papa era detenuto a Siena e poi nella Certosa di Firenze: due contro gli scritti di Bolgeni in favore della liceità del giuramento civico e della vendita dei beni ecclesiastici (Del giuramento detto civico, che si esigeva nelle moderne democrazie [Prato 1799], Lettera del canonico Fermino Terreni penitenziere d'Acquapendente all'ex-cittadino G.V. Bolgeni su la vendita de' fondi delle Chiese attentato nelle repubbliche della recente democrazia (Cerapoli [ma Livorno] 1799]); il terzo per confutare un "responsum" della facoltà di teologia di Friburgo indulgente nei confronti dei vescovi nominati dalle autorità civili e non dalla S. Sede, Degli intrusi e delle loro qualità e poteri secondo lo spirito e le regole della Chiesa: osservazioni canoniche (Pisa 1800).

Prima di lasciare la Toscana il M. pubblicò un'altra opera apologetica di materia economico-finanziaria, Del danaro straniero, che viene a Roma, e che ne va per cause ecclesiastiche: calcolo ragionato… (s.l. [ma Lucca] 1800).

In questo scritto, steso nel 1790 e bloccato dalle autorità pontificie (in particolare dalla Dataria) in quanto era sembrato poco attendibile, il M. cercava di dimostrare che "Roma spende il doppio di più della somma intiera, che viene da tutto il Mondo per le sue cause ecclesiastiche": le entrate dai paesi esteri venivano stimate in scudi romani 300.000, mentre le uscite erano 553.000, di cui 133.000 per spese correnti e 400.000 per il pagamento degli interessi di luoghi di Monte definiti "sussidio straniero" (debito in gran parte causato dal finanziamento delle guerre contro i Turchi; egli calcolava che nel periodo tra il 1542 e il 1716 erano stati destinati a questo scopo 19.632.143 scudi).

Tornato a Roma il 20 giugno 1800, il M. riebbe il rettorato della casa del Gesù e riprese le missioni popolari e l'organizzazione di esercizi spirituali. Tra il 1803 e il 1808 pubblicò a Roma in 12 volumi le Lezioni sacre dall'ingresso del popolo di Dio in Cananea fino alla schiavitù babilonica. Fu cooptato nell'Accademia di religione cattolica, fondata nel 1801, della quale fu eletto due volte censore, nel 1804 e nel 1809; il 2 ag. 1804 vi pronunciò la dissertazione Della socialità della religione cattolica (Roma 1804).

In questa introduceva nuovi temi politici, che sarebbero divenuti patrimonio dell'ideologia cattolico-reazionaria ottocentesca: la contrapposizione tra gli abitanti delle città, corrotti dalla cultura borghese, e il popolo delle campagne, semplice e attaccato ai principî religiosi; la funzione civilizzatrice esercitata dalla Chiesa nel Medioevo, quando era egemone nella società; la proposta che essa, nella persona del pontefice, divenisse arbitra e mediatrice nei conflitti che opponessero sudditi e sovrani.

Con il nuovo ingresso delle armate francesi in Roma (febbraio 1808), comandate dal generale S.-A.-F. Miollis che espulse dalla città cardinali e prelati sudditi di Stati esteri, il M. riuscì a rimanere collaborando con il cardinale B. Pacca, divenuto prosegretario di Stato. Forse ebbe qualche parte nei lavori preparatori per la bolla di scomunica di Napoleone, cui si pensava fino dalla primavera del 1808 ma che fu emanata soltanto il 10 giugno 1809 (Quam memorandum), dopo l'annessione di quanto rimaneva dello Stato della Chiesa all'Impero francese. Egli fu comunque arrestato prima di questa data ed espulso da Roma alla fine di febbraio 1809. Il 2 marzo era a Firenze (Empoli, Arch. stor. del Comune, 1809-1814, Mairie, 132, 2 marzo 1809); arrestato pochi giorni dopo mentre era ospite di M. Covoni, nella villa di Lucignano di Montespertoli (ibid., 12 marzo 1809), fu condannato alla detenzione nella fortezza di Portoferraio, nell'isola d'Elba, dove, dopo una carcerazione di alcuni mesi a Livorno, giunse alla fine di luglio. Ma già il 14 agosto un indulto emanato dalla granduchessa Elisa Bonaparte, in occasione del genetliaco di Napoleone, lo liberò. Il M. tornò a Corniola, dove fu ospitato da amici fino al 1811, quando - dopo la nomina da parte di Napoleone ad arcivescovo di Firenze del vescovo di Nancy, A.-E. Osmond - la forte opposizione del clero empolese indusse il governo ad accusarlo di averla fomentata. Per evitare un nuovo arresto il M. si rifugiò dapprima a Legoli, sulle colline pisane; poi peregrinò per la Toscana (in una lettera a C. Salvagnoli, del 21 apr. 1811 lamentava di "essere una palla balzata a discrezione senza terra fissa": Ibid., Archivio Salvagnoli Marchetti, 24, 6) fino all'inizio del 1814, quando cadde il regime napoleonico in Toscana. Ai primi di febbraio era a Firenze.

Tornato a Roma, in agosto predicò le missioni popolari a piazza Navona. Il 26 sett. 1814 Pio VII lo nominò arcivescovo di Ancira in partibus infidelium (con una congrua annua di 500 scudi) e istitutore "primario" di Carlo Ludovico, allora quindicenne, figlio del defunto Ludovico I di Borbone Parma, re di Etruria, e di Maria Luisa di Borbone Spagna, che nel 1817 ottenne come reggente il Ducato di Lucca (nel 1824 le successe il figlio).

Il M. espletò tale incarico (che non ebbe esito molto soddisfacente sulla personalità di Carlo Ludovico, dal 1847 Carlo II duca di Parma) fino al settembre 1817, ottenendo al congedo dalla corte lucchese una pensione annua di 720 scudi romani. Frattanto aveva ripreso a scrivere, pubblicando a Roma fra il 1817 e il 1818 i primi 2 volumi del trattato Della Chiesa quanto allo stato civile della città, un'opera che anticipava temi cari a J. de Maistre e a Lamennais (sull'opportunità della pubblicazione del secondo volume il segretario di Stato, E. Consalvi, espresse alcuni dubbi che non furono accolti, ma egli riuscì a impedire l'uscita del terzo volume): da un lato vi è l'esaltazione della supremazia del papa e del ruolo della Chiesa cattolica civilizzatrice e mediatrice dei conflitti (v., soprattutto, II, pp. 241-277), dall'altro una dichiarazione di indifferenza nei confronti del tipo di regime politico, che è valido fin tanto che rispetti il magistero della Chiesa e i suoi principî morali (per es., II, pp. 289 s.).

Per questa consonanza il conte de Maistre, deluso dalla tiepidezza con cui da Roma si era risposto all'invio del saggio Du pape (Lyon 1819) e dalle riserve provenienti dagli ambienti romani filoconsalviani, all'inizio del 1821 fece pervenire al M. il suo libro, pregandolo di comunicargli correzioni e critiche (una delle principali fonti teologiche di Maistre era stata la Critica della Storia ecclesiastica e de' discorsi del sig. abate Claudio Fleury nella traduzione francese del 1802). Il lavoro del M. fu lento: ignaro della morte di Maistre, egli lo portò a termine solo il 20 nov. 1821, spedendolo al conte nel gennaio 1822. Venuto a conoscenza della morte dello scrittore di Chambéry, decise di promuovere la prima traduzione italiana dell'opera (condotta sull'edizione di Lione 1821), che fu affidata a G. Papotti; corredata dalle osservazioni del M. essa vide la luce a Imola nel 1822 (Del papa del sig. conte Le Maistre…, I-II). L'anno successivo fu edita, sempre a Imola e annotata dal M., Della Chiesa gallicana nel suo rapporto col sovrano pontefice… (la traduzione non fu affidata a Papotti dal momento che il suo lavoro non era stato soddisfacente).

Il giudizio del M. sull'opera maistriana era positivo: in particolare era entusiasta dei brani che Maistre aveva dedicato al concilio di Costanza demolendo le teorie gallicane, e delle pagine relative all'origine del potere temporale dei papi, singolarmente coincidenti con quanto egli aveva scritto nella sua opera Della Chiesa. L'unica critica di sostanza mossa al conte savoiardo consisteva nella pretesa di umanizzare il soprannaturale. Questo errore si palesava, per il M., nell'avere Maistre accolto (per una sopita, ma non abbandonata, ideologia massonico-illuminata) alcune suggestioni di Ch. Bonnet, che vedeva lo stato attuale del cattolicesimo "comme le passage à un autre ordre de choses, infinitement supérieur" (Du pape, 1821, pp. 87 s.); ma soprattutto nell'avere ridotto l'infallibilità pontificia a una prerogativa necessaria e intrinseca a ogni sovranità. Il M. insisteva nel definire il potere assoluto del papa un potere essenzialmente spirituale, un dogma di fede, istituito da Cristo: questa era la condizione necessaria perché il suo ruolo di mediazione potesse esercitarsi efficacemente anche nei contrasti politici, grazie all'obbedienza e al rispetto incondizionato dei popoli per la sua primazia religiosa (v. Del papa, pp. 1-6: le idee infallibiliste del M. ebbero notevole influenza nella preparazione del concilio Vaticano I).

Il 16 genn. 1822, Pio VII aveva nominato il M. vicario apostolico della diocesi di Rimini. Accompagnato da Giuseppe Salvagnoli Marchetti (figlio di un amico empolese del M., Cosimo, e fratello di Vincenzo), che gli servì da segretario, egli vi giunse il 5 febbraio.

Nei due anni di permanenza a Rimini il M. seppe svolgere la sua missione con efficacia e inaspettata moderazione in una città travagliata da contrasti politici e dal dissesto di numerose istituzioni. Prese incisivi provvedimenti per porre fine all'inefficienza e alla cattiva amministrazione del Pubblico Istituto di carità della città (che comprendeva l'ospedale, l'orfanotrofio e tutte le altre istituzioni caritative), scegliendo come collaboratori anche persone che avevano esercitato incarichi nel napoleonico Regno d'Italia. In campo religioso compì la visita pastorale della diocesi e introdusse alcune pratiche care alla devozionalità dei gesuiti: l'anticipo della prima comunione per i fanciulli dai 12 ai 6-7 anni; la diffusione della pratica degli esercizi spirituali e la creazione nel seminario della "Congregazione festiva", una scuola di formazione religiosa aperta a tutti i giovani e non solo ai chierici.

Eletto presidente dell'Accademia di religione cattolica nel 1823, durante il soggiorno riminese il M. aveva avuto il tempo di pubblicare Del tifo costituzionale ovvero d'inquietudine politica che attaccò le cosmopoli su la fine del secolo XVIII… (Imola 1823), La felicità in problema dopo seimil'anni e ottanta mila centinaja di millioni d'uomini che l'hanno cercata… (ibid. 1823) e il terzo e ultimo volume Della Chiesa quanto allo stato politico [sic] della città (Rimini 1824), che citava con grande consenso l'Essai sur l'indifférence en matière de religion di Lamennais, il quale negli anni seguenti pubblicò la ben più incisiva opera De la religion considerée dans ses rapports avec l'ordre politique et civil (Paris 1825-26). Il M. accettava ormai la teoria contrattualistica dell'origine della società, sostenendo tuttavia che il primo obiettivo del contratto è la salvezza eterna. Il papa è il custode e il giudice della sua osservanza e, in caso di inadempienza del governo, ha il dovere di condannarlo e di sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà: se il sovrano non accetta l'ammonizione e la mediazione del papa è giusto "lasciare che l'ordine civile vada anche sossopra senza di lui a ripigliar l'equilibrio con le reazioni convulse, alle quali lo porta il vortice delle cose umane nelle città fuor della Chiesa" (Della Chiesa, III, p. 265).

Il 15 apr. 1824, aderendo alla richiesta del M. di lasciare l'incarico pastorale, il neoeletto Leone XII lo richiamò a Roma assegnandogli un appartamento nel palazzo del Quirinale. Nei mesi seguenti il M. aderì all'iniziativa dell'ala più intransigente del cattolicesimo romano, patrocinata dai cardinali Pacca, P. Zurla e G.A. Severoli, di risuscitare il Giornale ecclesiastico di Roma.

Al periodico, che iniziò le pubblicazioni all'inizio del 1825, prestò un'episodica collaborazione. Si segnalò per un articolo in cui condivideva le ragioni di Lamennais contrarie ai progetti di legge sulle congregazioni religiose femminili e sul delitto di sacrilegio presentati alla Camera francese il 4 genn. 1825 dai ministri per gli Affari ecclesiastici e della Giustizia (Giornale ecclesiastico, 1825, vol. 1, pp. 51-116): le critiche del M. erano fondate sul principio dell'inammissibilità che lo Stato legiferasse in materia religiosa per ritrarne un'utilità politica. La sua collaborazione finì nel maggio 1826 quando la segreteria di Stato proibì la pubblicazione del suo articolo Sulle libertà gallicane e sulla necessità di concordato colla Chiesa romana, dopo che, il 14 apr. 1826, la circolazione del Giornale ecclesiastico era stata proibita in Francia.

All'interno della Curia romana si svolgeva un'aspra lotta sull'opportunità di una chiara condanna dei principî gallicani, che gli intransigenti volevano per affermare la piena autorità della S. Sede sugli episcopati nazionali contro il rischio che questi potessero essere assoggettati al potere politico.

Il M., che all'inizio del 1826 era stato nominato segretario della congregazione dei Vescovi e regolari, pensò di trascinare in modo surrettizio Leone XII a una condanna formale del gallicanismo.

L'occasione fu data dal decreto papale che doveva sancire l'istituzione della nuova Congregazione degli oblati di Maria Vergine, fondata da Brunone Lanteri con il compito precipuo di promuovere l'unità con Roma e la supremazia del papa contro le deviazioni gianseniste, gallicane, febroniane, richeriste. Il M. suggerì di inserire nel giuramento di ingresso nella Congregazione la professione di fede di papa Ormisda (il cosiddetto libellum fidei, che proclamava la soggezione incondizionata al romano pontefice). Superati nella seduta del 21 luglio 1826 i dubbi di alcuni cardinali membri della congregazione dei Vescovi, ottenuto nei giorni seguenti il consenso orale del papa (che pure espresse qualche perplessità), il 29 luglio il decreto fu firmato anche dal prefetto della congregazione, cardinale Pacca; il 30 luglio il decreto fu portato dal M. stesso alla segreteria dei Brevi, ove il sostituto F. Capaccini avrebbe dovuto stendere il breve papale di accompagnamento. Questi, di scuola consalviana, decise di bloccare il decreto, motivando la sua contrarietà con il rischio di suscitare contro la S. Sede le rimostranze dei governi. Il M. cercò ancora di forzare la situazione compiendo tra il 10 e il 14 agosto i passi per stampare il decreto in 300-400 copie, con l'intenzione di mandarne alcune a Lamennais e diffondere le altre in tutte le diocesi. A questo punto la Curia romana si mosse compatta per impedire il piano del M.: il segretario di Stato e il maestro del S. Palazzo proibirono ai tipografi di Roma la stampa di qualsiasi scritto proveniente dal M., Pacca affermò di non avere mai firmato il decreto, Leone XII dichiarò che il M. aveva frainteso le sue parole e Capaccini fu incaricato di contattare i rappresentanti diplomatici delle potenze per comunicare loro che il decreto di cui correva voce non era mai esistito. Il 22 agosto Pacca ingiunse al M. di farne una nuova stesura, priva della formula giudicata pericolosa; ma questi rifiutò sostenendo che "l'incomodo di raffazzonar tutto, conviene che se lo assuma V.E. R.ma come Prefetto, senza intervento del Segretario, giacché a una pubblica confessione di falsario, non credo sia mai, né possa essere intenzione di costringermi" (cit. in Pignatelli, 1974, p. 310). Dopo che il 1° sett. 1826 il decreto fu pubblicato con la consueta formula di Pio IV in luogo di quella di papa Ormisda, il M., che aveva subito un lieve ictus, rassegnò le dimissioni tornando a Empoli. Il papa, nel tentativo di fare rientrare la sua protesta, non le accettò subito e nel concistoro del 2 ottobre nominò quattro cardinali riservandosene in pectore ben altri dieci; uno di questi sembrava essere chiaramente il M., ma ciò non lo smosse dalla decisione di ritirarsi in disparte ("io sono vicino all'eternità, che importa a me essere sepolto con un cencio rosso, o con uno straccio pavonazzo?", lettera di L. Nardi a G. Baraldi, cit. in Fontana, p. 305).

Pochi giorni dopo, il decreto nella versione redatta dal M. fu pubblicato da Lamennais nel Mémorial catholique, vol. 6, octobre 1826, pp. 236-239: ciò segnò la fine della carriera del M. a Roma.

A Empoli il M. ebbe ancora contrasti per la sua biblioteca che aveva dato in uso pubblico alla Comunità, ma della quale intendeva mantenere la proprietà. Nell'ultimo anno di vita pubblicò La vita razionale dell'uomo nel suo commercio con Dio (Rimini 1828).

Il M. morì a Empoli il 15 nov. 1829.

Fonti e Bibl.: Empoli, Arch. stor. comunale, Arch. Salvagnoli Marchetti, 24, 6 (carteggio con C. Salvagnoli Marchetti); 28, 1-2 (carte del M.); 29, 5 (lettere del M. a G. Salvagnoli; sull'Archivio Salvagnoli Marchetti, v. l'Inventario…, a cura di V. Arrighi et al., Pisa 2002, ad ind.); L. Della Fanteria, Biografia di mons. G. M. arcivescovo di Ancira, in Continuazione delle Memorie di religione, di morale e di letteratura, V (1836), pp. 257-299; P. Savio, Devozione di mgr. Adeodato Turchi alla S. Sede…, Roma 1938, ad ind.; R. Colapietra, La Chiesa tra Lamennais e Metternich, Brescia 1963, ad ind.; R. Zapperi, Edmund Burke in Italia, in Cahiers Vilfredo Pareto, 1965, vol. 7-8, pp. 18-34, 48-53; M. Bini, Il "martello del giansenismo" nei suoi rapporti con Empoli e gli Empolesi, in Bull. stor. empolese, 1967, vol. 4, pp. 95-158, 175-235; S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia (1820-1830), Brescia 1968, ad ind.; R. Comandini, Di mons. G. M. vicario apostolico di Rimini e di alcuni atti del suo governo, in Rimini storia arte e cultura, luglio-dicembre 1969, pp. 255-276; G. Pignatelli, Aspetti della propaganda cattolica a Roma da Pio VI a Leone XII, Roma 1974, ad ind.; F. Andreu, in Dict. de spiritualité, ascétique et mystique…, X, Paris 1980, pp. 305-307; C. Falconi, Il giovane Mastai. Il futuro Pio IX dall'infanzia a Senigallia alla Roma della Restaurazione 1792-1827, Milano 1981, ad ind. (in partic., pp. 462-492); Id., L'empolese G. M. ponte culturale tra il Sette e l'Ottocento, in Bull. stor. empolese, 1987, vol. 9, pp. 5-34; Le dolci catene. Testi della controrivoluzione cattolica, a cura di V.E. Giuntella, Roma 1988, ad ind.; "Deboli progressi della filosofia". Rivoluzione e religione a Roma, 1789-1799, a cura di L. Fiorani, Roma 1992 (in partic. v. i saggi di L. Fiorani, Città religiosa e città rivoluzionaria (1789-1799), pp. 65-154 passim e di C. Canonici, Il dibattito sul giuramento civico, pp. 213-244 passim); M. Cattaneo, Gli occhi di Maria sulla Rivoluzione. "Miracoli" a Roma e nello Stato della Chiesa (1796-1797), Roma 1995, ad ind.; La Rivoluzione nello Stato della Chiesa, 1789-1799, a cura di L. Fiorani, Pisa-Roma 1997, ad ind. (in partic. i saggi di G. Pignatelli, Il dibattito sulla Rivoluzione, pp. 45-71 e di L. Fiorani, Aspetti della crisi religiosa a Roma durante la Repubblica giacobina, pp. 253-297); P. Stella, Il giansenismo in Italia, Roma 2006, II-III, ad indices; Hierarchia catholica, VIII, p. 74.

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