GRONCHI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GRONCHI, Giovanni

Giuseppe Sircana

Nacque a Pontedera (Pisa) il 10 sett. 1887 da Sperandio e da Maria Giacomelli, in una famiglia di modeste condizioni. Rimasto orfano di madre nel 1893 e con il padre in non buone condizioni di salute, il G. visse un'infanzia e una giovinezza difficili.

Per mantenersi agli studi impartiva lezioni private e correggeva bozze, procurandosi le prime saltuarie collaborazioni in campo giornalistico-editoriale.

Nel 1904 conseguì la licenza liceale e fu ammesso alla classe di lettere della Scuola normale superiore di Pisa, da dove nel 1909 uscì laureato con una tesi su Daniello Bartoli scrittore. Il G. aveva cominciato prestissimo a frequentare gli ambienti cattolici, diventando a soli dodici anni presidente del circolo cattolico di Pontedera. Preso a ben volere dall'arcivescovo di Pisa, il conciliatorista cardinale P. Maffi, nel 1902 il G. aderì al movimento democratico cristiano di R. Murri.

Si delineavano già allora i principî ispiratori del suo impegno politico: l'autonomia politica del laicato cattolico nei confronti della gerarchia e il cristianesimo sociale inteso come alternativa all'intransigentismo clericale e all'alleanza con i conservatori.

Nel 1911, in seguito alla scomunica di Murri, il G. si ritrovò al fianco di G. Donati, E. Cacciaguerra ed E. Vaina nella Lega democratica cristiana. Dopo la laurea il G. si era intanto dedicato all'insegnamento, prima a Parma (1910-11) e quindi a Massa (1911-12), a Bergamo (1912-13) e a Monza (1913-15). Allo scoppio della prima guerra mondiale egli assunse una posizione decisamente favorevole all'intervento dell'Italia e benché, orfano, fosse nelle condizioni per ottenere l'esonero, partì volontario. Tenente di fanteria, nel corso del conflitto fu decorato per atti di valore con una medaglia d'argento, due di bronzo e due croci di guerra.

Appena congedato, nel gennaio 1919 partecipò alla fondazione del Partito popolare italiano (PPI) e dopo il I congresso, svoltosi a Bologna dal 14 al 16 giugno dello stesso anno, entrò a far parte della direzione del partito. Nelle elezioni politiche del 15 nov. 1919 il G. venne candidato nella circoscrizione di Pisa-Livorno-Lucca-Massa Carrara e riuscì inaspettatamente eletto. Alla Camera mostrò subito di possedere, nonostante l'età, le doti giuste e l'autorevolezza necessarie per emergere come una delle figure di spicco del gruppo popolare, guadagnandosi l'apprezzamento di L. Sturzo. Per questi motivi, e per l'attenzione sempre mostrata ai problemi sociali e del lavoro, il G. apparve la persona più indicata a rinsaldare i rapporti tra l'organizzazione politica e quella sindacale dei cattolici. Il 20 apr. 1920, al I congresso nazionale della Confederazione italiana dei lavoratori (CIL), il G. venne eletto segretario generale. Con l'avvento del G. la CIL, dopo un periodo di relativa autonomia, "entrò decisamente nell'orbita del gruppo dirigente sturziano" e vide restringersi la propria libertà di manovra rispetto al PPI (Rossi, p. 143).

Negli anni della crisi dello Stato liberale e dell'affermarsi del fascismo toccò al G., che era stato rieletto deputato nelle elezioni del 15 maggio 1921, intervenire più volte alla Camera per esprimere la posizione dei popolari.

Dopo aver lamentato, il 16 febbr. 1922, la passività del governo Facta di fronte alle violenze fasciste, il 19 luglio successivo intervenne per motivare la sfiducia del suo partito al governo. In tale occasione il G., reduce da due incontri con B. Mussolini, dichiarò che il PPI non auspicava una politica di repressione violenta o di antifascismo, bensì "un'azione maturata, metodica, misurata, organica", intesa "a ricondurre tutti nell'orbita della legalità" (Atti parlamentari, Camera dei deputati, legisl. XXVI, 1ª sessione, tornata del 19 luglio 1922, pp. 8255-8257). Il G., inoltre, rivendicando i meriti dei popolari nel contenere l'offensiva socialista durante il biennio rosso, sosteneva l'improponibilità di una collaborazione governativa con i socialisti.

Allorché I. Bonomi venne incaricato di formare un nuovo governo, il nome del G. cominciò a circolare come uno dei candidati a far parte dell'esecutivo, ma contro tale eventualità, in una lettera al presidente incaricato, si pronunciò F. Turati, ritenendo che, in quanto capo dei sindacati bianchi, il G. avrebbe potuto nuocere alla Confederazione generale del lavoro, il sindacato socialista. Fu poi proprio il ruolo sindacale del G. che indusse Mussolini a chiamarlo nel suo governo come sottosegretario all'Industria e commercio. Prima di assumere, il 30 ott. 1922, l'incarico governativo, il G. si dimise da segretario della CIL, al cui interno la sua scelta era stata accolta con qualche freddezza.

Lo stesso G. testimoniò, molti anni dopo, di aver accolto l'invito di Mussolini perché convinto di trovarsi "di fronte ad un'esperienza di una certa importanza e di una certa durata", ritenendo che "il fascismo aveva radici profonde e che rispondeva, in parte, a degli ideali nazionali" (cfr. Spadoni, 1998, p. 13).

Tali convinzioni erano tuttavia destinate a durare ben poco e già al IV congresso del partito popolare (Torino, 12-14 apr. 1923) il G. si schierò al fianco di Sturzo per l'immediata uscita dei popolari dal governo, il che avvenne pochi giorni dopo su iniziativa di Mussolini. L'11 luglio, dopo le dimissioni di Sturzo dalla segreteria, il G. fu chiamato a far parte, con G. Rodinò e G. Spataro, del triumvirato che guidò il PPI fino all'elezione del nuovo segretario A. De Gasperi, il 20 maggio 1924.

In questo periodo furono ripetute e nette le prese di posizione del G. contro il fascismo: il 10 luglio 1923 era intervenuto alla Camera contro la riforma elettorale Acerbo e, dopo le elezioni del maggio 1924 nelle quali fu confermato deputato, denunciò le intimidazioni della maggioranza fascista e quindi le responsabilità di Mussolini nell'assassinio di G. Matteotti. Il 30 novembre dello stesso anno il G. partecipò al convegno antifascista indetto a Milano dal comitato interparlamentare delle opposizioni, dove, insieme con U. Tupini, rappresentava il PPI.

Nel febbraio 1926 tornò all'impegno sindacale affiancando A. Grandi e G. Rapelli alla guida della CIL e promosse l'uscita di Cronaca sociale d'Italia, il cui primo numero fu subito sequestrato.

La spinta a fondare questa rivista venne al G. dall'esigenza di contestare esplicitamente le direttive dell'Azione cattolica che si era trasferita "dal suo campo spirituale a quello sociale e sindacale" (Vigorelli, p. 296) e di "dimostrare dottrinalmente l'impossibile entrata dei cattolici nel sindacato fascista" (Bedeschi, p. 142).

Dopo soli sette numeri, nell'agosto 1926, la rivista dovette cessare le pubblicazioni per disposizione della censura fascista. Il G., che il 9 novembre dello stesso anno fu dichiarato decaduto dal mandato parlamentare, decise di abbandonare la politica e l'insegnamento per dedicarsi ad attività commerciali e industriali a Milano, dove si era intanto stabilito. Negli anni successivi egli mantenne contatti con un ristretto gruppo di amici, tra i quali Grandi e Rapelli, e respinse i tentativi del fascismo di ottenere la sua collaborazione. Dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il G. riprese l'attività politica partecipando a una serie di incontri clandestini di ex popolari in Lombardia, a Torino e a Roma. A partire dal settembre 1942 svolse un ruolo rilevante nella costruzione della Democrazia cristiana (DC) e nella definizione dei suoi indirizzi programmatici in campo sociale e sindacale. Dopo l'8 sett. 1943 si trasferì a Roma, dove divenne membro del Comitato di liberazione nazionale, assumendo il nome di copertura di Giacomelli. Il 15 ottobre fu designato, insieme con Grandi, a rappresentare la DC nelle trattative con comunisti e socialisti per la costituzione del sindacato unitario.

Nel corso dei negoziati il G. ebbe un serrato confronto con G. Di Vittorio a proposito della natura della nuova organizzazione, propendendo i cattolici per una accentuazione del ruolo delle federazioni di categoria rispetto all'istanza confederale.

Il G. e Grandi si battevano per valorizzare la presenza dei cattolici nel sindacato e, al tempo stesso, per far accettare al loro partito i compromessi che, il 4 giugno 1944, consentirono la nascita della Confederazione generale italiana del lavoro. Il G. fu nominato presidente del comitato d'intesa sindacale, un organismo di collegamento della corrente cristiana, ma in seno alla DC il suo ruolo era messo in discussione dall'emergere di una nuova tendenza sindacale, espressa da G. Pastore, che aveva stabilito un legame fiduciario con De Gasperi.

Il 18 giugno 1944 il G. venne nominato ministro dell'Industria commercio e lavoro nel primo governo Bonomi e fu confermato nell'incarico nei successivi governi Bonomi, Parri e De Gasperi fino al 1° luglio 1946 (dal 21 giugno 1945 le competenze del lavoro furono però attribuite a un nuovo ministero). Eletto all'Assemblea costituente e quindi presidente del gruppo democristiano, il G. partecipò intensamente alla vita di partito caratterizzandosi per la sua propensione a distinguersi da sinistra dagli orientamenti della maggioranza della DC. Al I congresso (Roma, 24-28 apr. 1946) il G. presentò la mozione "Politica sociale", che esprimeva una netta opzione repubblicana e auspicava una più accentuata competitività nei confronti del Partito comunista italiano (PCI).

In questa fase le posizioni assunte dal G., più che ispirate a una chiara strategia, apparvero talvolta mirate all'affermazione della propria personalità politica. A giudizio dello storico P. Scoppola il G. avrebbe teso, invece, a "fare della Democrazia cristiana un partito di sinistra e puntava perciò a un rapporto preferenziale con i socialisti in funzione concorrenziale con i comunisti" (p. 127). Inoltre, mentre in De Gasperi e, per altri versi, nei dossettiani vi era "una attenzione dominante" al rapporto del partito con l'area cattolica, il G. era meno sensibile a questo tema e "puntava ad assicurare al partito stesso una base autonoma di tipo sociale" (p. 128).

Fino al maggio 1947 il G. sembrò incarnare una possibile alternativa a De Gasperi, ma non arrivò mai a metterne veramente in discussione la leadership. Allorché la formula tripartita entrò in crisi il G. caldeggiò "l'ipotesi di un passaggio della DC all'opposizione, esprimendo soprattutto la preoccupazione di salvaguardare l'identità del partito e la sua "anima" sociale" (Giovagnoli, p. 249). Al tempo stesso, di fronte alle iniziali esitazioni di De Gasperi, il G. apparve "pronto a guidare la DC alla rottura completa col PCI" (Galli, 1978, p. 89). Quando poi De Gasperi decise di estromettere i comunisti dal governo, il G. intervenendo alla Camera affermò che tale scelta non implicava una svolta a destra della DC; al II congresso democristiano (Napoli, 15-20 nov. 1947) presentò una mozione a sostegno dell'indirizzo politico sociale e pochi giorni dopo, in occasione del rimpasto di governo, sostenne l'opportunità di ristabilire con le sinistre un clima più disteso.

Eletto deputato nella tornata elettorale del 18 apr. 1948, l'8 maggio successivo il G. fu eletto presidente della Camera.

Probabilmente, elevandolo all'alta carica istituzionale, i suoi avversari politici interni intesero allontanare dal vivo della lotta politica un forte elemento di contestazione della politica degasperiana. Se tali calcoli vi furono si rivelarono fallaci, dal momento che il G. non solo continuò a esercitare tale ruolo ma si spinse oltre dando vita, all'interno del partito, a una vera e propria corrente d'opposizione.

Il 4 nov. 1948 promosse l'uscita del quotidiano La Libertà e pochi giorni dopo, il 14 novembre, partecipò a Pesaro a un convegno organizzato da F. Tambroni e da altri parlamentari "gronchiani". In tale occasione il G. pronunciò un discorso di forte critica alla democrazia interna del suo partito e al ruolo conservatore che questo aveva assunto assecondando gli interessi di agrari e industriali. Il dissenso del G. rispetto alle posizioni della maggioranza del suo partito si estendeva anche alla politica estera, come risultò evidente in occasione del dibattito per l'adesione italiana al Patto atlantico.

Contrario alla divisione del mondo in blocchi militari contrapposti, all'inizio del 1949 il G. auspicò che almeno l'Europa ne restasse fuori divenendo un'area di distensione e di equilibrio. Preso atto della netta prevalenza dei democristiani favorevoli all'adesione al Patto, finì per uniformarsi a tale scelta, mantenendo tuttavia una certa tiepidezza nei confronti dell'atlantismo più rigido.

In una fase di duro scontro sul piano interno e internazionale le ripetute prese di distanza del G. provocarono forte irritazione nei vertici della DC. Quando, nel gennaio 1950, un comunicato della direzione democristiana qualificò come "giornale di opposizione" La Libertà, che aveva pubblicato un'intervista a P. Togliatti, il G. reagì indignato contro "le insinuazioni che toccano la coscienza politica e morale", respingendo l'accusa di strizzare l'occhio ad altri partiti, in particolare a quello comunista, per ricercare appoggi che la DC non poteva o non intendeva offrire (Galli, 1978, p. 131). Il G. ritenne di avere in tal modo allontanato da sé malevole interpretazioni e continuò a esprimere orientamenti divergenti dalla linea ufficiale del suo partito.

Nel gennaio 1951 stigmatizzò l'"isterismo bellicista" di alcuni settori del governo (ibid., p. 135) e si oppose quindi al progetto di legge maggioritaria che avrebbe dovuto proteggere gli equilibri politici di centro, riducendo il peso delle opposizioni di sinistra e di destra. Nel saggio Torniamo alle origini (Roma 1952), dopo aver preso le distanze da "artifici legislativi […] atti a neutralizzare pericoli di eventuali successi elettorali delle opposizioni", il G. manifestò la sua preoccupazione per l'emergere di "tendenze a profitto dello Stato forte" e il timore che "un'involuzione del genere" minacciasse la DC "per lo stato d'animo di alcuni suoi uomini" (pp. 10-12).

Anche questa volta, come già in occasione del dibattito sul Patto atlantico, il G. finì per uniformarsi alle decisioni del suo partito, contribuendo come presidente della Camera a far approvare la legge maggioritaria. Al V congresso della DC (Napoli, 26-29 giugno 1954) il G. rinunciò a presentare una sua lista di corrente per il consiglio nazionale, marcando tuttavia il proprio distacco dai nuovi equilibri interni che vedevano A. Fanfani alla segreteria del partito e M. Scelba alla presidenza del Consiglio. Egli preferì piuttosto collegarsi al gruppo di Concentrazione, nel quale si ritrovavano i parlamentari più conservatori e alcuni notabili del partito ostili a Fanfani; ai loro occhi il G., fautore dell'apertura ai socialisti ma anche assertore del ruolo centrale della DC, appariva come l'elemento più idoneo a contrastare il crescente potere di Fanfani. Furono così poste le premesse per l'operazione politica che, l'anno seguente, avrebbe consentito al G. di essere eletto presidente della Repubblica, malgrado la DC avesse inizialmente candidato il presidente del Senato, C. Merzagora.

Qualche giorno prima dell'inizio delle votazioni il G. aveva pronunciato di fronte alle Camere riunite un applaudito discorso di commemorazione del decennale della Liberazione, che era apparso a molti come un discorso di candidatura. A questo punto emerse la disponibilità di socialisti e comunisti a votare il G. in nome dell'apertura a sinistra e delle sue posizioni critiche nei confronti dell'atlantismo, e un'analoga disponibilità, in funzione anticentrista, fu avanzata da monarchici e missini.

Nelle prime tre votazioni il G. ottenne rispettivamente 30, 127 e 281 voti, segno che una parte consistente dei democristiani lo aveva preferito a Merzagora. Invitato da Fanfani a ritirarsi, il G. rifiutò esponendo la DC al rischio che un suo uomo fosse eletto senza l'appoggio ufficiale del partito e con l'apporto determinante delle sinistre. La DC decise allora di votare per il G. che, il 29 apr. 1955, venne eletto presidente della Repubblica con 658 voti su 833, anche con i voti di comunisti, socialisti, monarchici e missini.

L'esito della battaglia per il Quirinale rappresentò una sconfitta per il gruppo dirigente democristiano e concorse a movimentare l'intero fronte politico dopo anni di staticità centrista. Lo stesso G. fece subito intendere che le modalità della sua elezione lo rendevano libero da obblighi di ossequio nei confronti della maggioranza di governo. Questo fondamentale dato politico e la spiccata personalità del G. connotarono l'intero settennato presidenziale imprimendogli un timbro "interventista" - sul terreno della politica interna e della politica estera - che secondo alcuni esorbitava dai poteri che a norma di Costituzione competevano al capo dello Stato.

È stato in proposito osservato come la concezione che il G. aveva del proprio ruolo, molto diversa da quella del suo predecessore L. Einaudi, fosse sorretta dall'idea di fondo in base alla quale "il presidente della Repubblica, nei confronti del governo, dei partiti, dei gruppi, dei movimenti di opinione e dello stesso Parlamento, rappresenta il momento della totalità che è sempre un quid di ontologicamente superiore alle singole parti": in quanto tale, il presidente disporrebbe "di una forza interiore che lo fa capace di inserirsi nella dialettica fra le parti, di forzare all'occorrenza i processi politici, di incanalarli e guidarli verso un fine prestabilito" (Baldassarre - Mezzanotte, p. 81).

Già nel suo discorso d'insediamento, l'11 maggio 1955, il G. espresse una forte sollecitazione alle forze politiche a dar vita agli istituti costituzionali (Corte costituzionale, Regioni, Consiglio superiore della magistratura, Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro) ancora inattuati e a provvedere con le leggi ordinarie all'attuazione dei principî costituzionali di uguaglianza anche sostanziale e di preminenza del lavoro. Tali obiettivi andavano, secondo il G., collegati a un ampliamento delle basi democratiche del potere e quindi anche al superamento delle fratture fra maggioranza e opposizione di sinistra.

Le esortazioni presidenziali, accolte con favore dalla sinistra, suscitarono nelle destre, nel mondo industriale e nella gerarchia ecclesiastica reazioni irritate, destinate ad accrescersi allorché fu chiaro che il G. intendeva interferire nelle vicende parlamentari e politiche per far prevalere la propria linea.

Di fatto, di fronte alla crisi della formula centrista, il G. cercò di forzare i tempi inducendo la DC ad aprire il dialogo con i socialisti, ma soltanto dopo il VII congresso democristiano (Firenze, 23-28 ott. 1959) parve profilarsi un disegno tendente a sostituire nella maggioranza di governo i liberali con i socialisti. Nelle intenzioni dell'allora segretario del partito, A. Moro, tale operazione avrebbe dovuto realizzarsi con molta cautela e in tempi lunghi, dopo averla sperimentata negli enti locali.

Per contrastare comunque il progetto i liberali e la destra DC provocarono la crisi del governo Segni, ritenendo che in prossimità delle elezioni amministrative dell'autunno 1960 la stessa DC non avrebbe osato aprire al PSI e avrebbe invece riconfermato la scelta centrista. La crisi apparve subito di difficile soluzione, specie dopo la rinuncia di A. Segni a dar vita a un governo che potesse contare sull'astensione dei socialisti.

A quel punto, di fronte al disorientamento nelle file della DC, il G. decise di affidare a Tambroni l'incarico di costituire un "governo del presidente". L'esecutivo, formato solo da ministri democristiani, si presentò il 3 apr. 1960 alla Camera, dove ottenne l'appoggio determinante del Movimento sociale italiano (MSI), inducendo la DC a chiederne le dimissioni. Il G. affidò allora un nuovo incarico a Fanfani e, dopo la rinuncia di questo, invitò Tambroni a completare l'iter costituzionale chiedendo la fiducia al Senato, nonostante fossero intanto cambiati alcuni ministri. Questa volta la DC accettò i voti della destra considerando quello di Tambroni un governo amministrativo e di transizione.

In realtà Tambroni, con l'appoggio del G., operò palesemente allo scopo di consolidare il suo governo, ma dovette infine cedere di fronte al coalizzarsi di un'ampia opposizione interna alla DC e, soprattutto, alla decisa reazione delle forze di centrosinistra.

Il 16 luglio 1960, dopo manifestazioni di piazza contro il governo svoltesi in diverse città italiane e duramente represse - con morti e feriti tra i dimostranti -, Tambroni fu costretto a dimettersi.

Nel corso del suo settennato anche in politica estera il G. sviluppò una propria iniziativa, parallela e spesso in contrasto con quella del governo.

In sintonia con il presidente dell'Ente nazionale idrocarburi, E. Mattei, caldeggiò una politica autonoma dell'Italia nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Nel 1956 si pronunciò a favore dell'ammissione alle Nazioni Unite della Cina popolare e, all'insaputa del governo italiano, elaborò, e sottopose all'Unione sovietica, un piano per la riunificazione e la neutralizzazione della Germania. In occasione dei suoi molti viaggi all'estero, soprattutto quelli negli Stati Uniti (1956) e in Unione sovietica (1960), le sue dichiarazioni a favore della coesistenza pacifica e del disarmo bilanciato resero sempre più evidente il contrasto con la linea del governo e alimentarono aspre polemiche.

Dopo la crisi Tambroni iniziò la fase declinante della presidenza Gronchi, accompagnata dalla diffidenza e dall'ostilità anche di quei settori politici, dalle sinistre democristiane al PCI, che in passato avevano manifestato consenso. Malgrado ciò il G. mirava alla riconferma del mandato, ritenendo di poter ancora contare sull'apprezzamento della sinistra per le posizioni assunte in politica estera e per il ruolo svolto nel favorire l'avvio del centrosinistra; le sue speranze andarono tuttavia deluse e l'abbandono della massima carica (1962) segnò in pratica la conclusione della sua carriera politica. Senatore di diritto, si ritirò in disparte iscrivendosi al gruppo misto e mantenendo scarsi e freddi rapporti con il suo partito di provenienza. Soltanto nel 1977, in occasione dei suoi 90 anni, fu acclamato membro di diritto nel consiglio nazionale della DC.

Il G. morì a Roma il 17 ott. 1978.

Fra gli scritti del G., oltre a La "poetica" di Daniello Bartoli (Pisa 1912), stralcio della tesi di laurea, si segnalano le importanti raccolte degli Scritti politici (Roma 1956) e dei Discorsi parlamentari (ibid. 1986). Per le numerose altre pubblicazioni, contenenti discorsi e interventi svolti dal G. nelle diverse sedi politiche e istituzionali, si rimanda a G. Cavera - G. Merli - E. Sparisci, Bibliografia gronchiana, Pontedera 1995.

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