GRIMANI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GRIMANI, Giovanni

Giuseppe Gullino

Primogenito del procuratore e cavaliere Antonio di Giovanni, del ramo ai Servi, e di Fiorenza Cappello di Silvano di Giovanni Battista, nacque a Venezia il 21 luglio 1595.

Questo ramo dei Grimani, che risiedeva nel sestiere di Cannaregio, era a quel tempo il più ricco tra i nuclei nei quali si articolava il casato, come testimonia la dignità procuratoria conseguita, oltre che dal padre del G. (arricchitosi esercitando la professione di avvocato), dallo stesso G. e dai fratelli Giovan Battista e Francesco. Il quarto fratello, Alvise, divenne invece vescovo di Bergamo grazie all'appoggio del potente "partito cornaro", capeggiato dalla famiglia Corner, strettamente legata alla S. Sede.

Toccò al G. sposarsi per assicurare la continuità della casa; nel 1620 impalmò Paolina Da Mula di Alvise di Andrea, che gli diede Antonio (destinato a sua volta a diventare procuratore di S. Marco) e Alvise. Contemporaneamente, avendo conseguito l'età prevista, il G. fece il suo ingresso nella carriera politica con l'elezione al saviato agli Ordini, che sostenne nel semestre ottobre 1620 - marzo 1621. Subito dopo, dal 26 febbr. 1621 al 25 febbr. 1622, fu provveditore sopra i Conti; quindi divenne provveditore alle Pompe nell'ottobre 1624, ma dopo un mese lasciò la carica per assumere quella di savio alle Decime.

Rispetto al saviato agli Ordini, si trattava di magistrature inferiori, in quanto di spettanza del Maggior Consiglio e non dell'ordine senatorio (altri tre Grimani suoi omonimi, tutti esponenti di rami meno doviziosi e pertanto di più contenute ambizioni politiche, ricoprirono cariche di questo tipo in quegli anni: Giovanni di Francesco, Giovanni di Giulio, Giovanni di Vittore). La spiegazione di questa anomalia consiste nel fatto che il padre del G. era in questi anni sempre presente fra i savi del Consiglio, e le leggi veneziane proibivano la compresenza di familiari nell'ambito del Collegio.

La morte del genitore dischiuse al G. le porte delle magistrature che monopolizzavano la guida del governo. Nel 1627 fu eletto savio di Terraferma per il semestre aprile-ottobre e l'anno successivo venne riconfermato per lo stesso periodo. Il G. si trovava così inserito nel giro delle nomine senatorie, che gli furono conferite anche nei mesi di necessaria contumacia dal Collegio: dal 1° gennaio al 31 marzo 1628 divenne depositario del Banco Giro, quindi (4 ott. 1628) entrò a far parte dei nove aggiunti ai Savi ed esecutori sopra le acque, e due giorni dopo dei Cinque savi alla Mercanzia, risultando cumulabili queste ultime due cariche. Sennonché, lasciò anticipatamente l'una e l'altra, essendo stato eletto podestà a Bergamo, dove fece il suo ingresso il 17 apr. 1629.

Lo attendeva una delicata congiuntura; stava approssimandosi la seconda guerra del Monferrato, accompagnata dalla carestia, dalla discesa dei lanzichenecchi, dalla peste. A Bergamo, il G. sarebbe dovuto restare sino all'agosto 1630; la nomina - non gradita - gli era stata imposta da una serie di circostanze subite in nome della "ragion familiare" (era in gioco l'assegnazione di quella diocesi al fratello Alvise), ma il popolo, travagliato dalla scarsità di viveri, lo accolse esultante al grido di "Viva il padre dei poveri". L'equivoco non tardò a manifestarsi: quando la peste assunse proporzioni virulente, il G. ottenne dal Senato la nomina a commissario ai rifornimenti al di là del Mincio (26 apr. 1630). Questo significava poter abbandonare l'infetta Bergamo e recarsi in località più sicure. Per conseguire l'intento, il G. non esitò a far comparire il morbo in fase di regresso nel territorio da lui amministrato: riuscì in tal modo a lasciare la città (4 giugno 1630), rimettendola nelle mani del collega capitano Marcantonio Morosini, che di lì a poco vi avrebbe perso la vita.

Il G. si portò al campo di Valeggio "con la più espedita celerità", quindi passò l'estate e l'autunno spostandosi in continuazione fra Brescia, Peschiera, Verona, a provvedere esercito e popolazione di vettovaglie, armi, munizioni, vestiario, legname, medici e lazzaretti. Tuttavia a tanto attivismo si accompagnava l'intento di soggiornare nei luoghi di volta in volta meno esposti al contagio e dai suoi dispacci trapela una costante frequentazione mondana della nobiltà locale, dei condottieri veneti e imperiali, dei principi dei vicini Ducati padani.

Il 6 ott. 1630 si rese protagonista di un disgustoso episodio: portatosi a Brescia in compagnia della moglie del cavaliere francese La Vallette, era stato fermato dalle guardie alle porte della città. Insofferente delle procedure di rito, insolentì il loro comandante, colpendolo con la spada sguainata. Ne nacque un principio di sollevazione popolare e il giorno dopo il podestà Agostino Bembo si rifiutò di riceverlo. L'eco dello scandalo giunse fino a Venezia, e il doge Nicolò Contarini - notoriamente anticuriale - sollecitò severi provvedimenti contro il G., che però fu salvato grazie alle pressioni dei senatori filopontifici e alle benemerenze domestiche: suo padre era stato provveditore generale a Palmanova, i fratelli Francesco e Giovan Battista ricoprivano incarichi di rilievo in Levante; quest'ultimo, poi, sarebbe morto nell'Egeo al comando della flotta impegnata contro i Turchi.

Naturalmente, la carriera politica del G. non mancò di risentire dell'incidente bresciano: di ritorno a Venezia, gli fu negato il saviato del Consiglio, per cui dovette ripiegare su magistrature di natura finanziaria o diplomatica. Conservatore delle Leggi sino al luglio 1631, divenne savio di Terraferma con compiti di cassiere del Collegio dall'aprile 1631 al 1° agosto, quando abbandonò la carica con due mesi di anticipo sulla naturale scadenza per assumere quella di censore. Il 28 marzo 1633 fu eletto ambasciatore al cardinale Ferdinando d'Asburgo, infante di Spagna, che era stato nominato governatore di Milano; si trattava di una missione puramente onorifica, ma il G. la rifiutò, e venne eletto in sua vece Bertuccio Valier. La rinuncia non influì più di tanto sulla carriera del G., che ricoprì per la quarta volta il saviato di Terraferma dall'ottobre 1633 a tutto gennaio 1634, allorché preferì accettare la carica di consigliere ducale per il sestiere di Cannaregio, che tenne sino al 31 genn. 1635.

Il ruotare delle nomine continuò sostenuto nei mesi successivi. Il G. fu così dei Tre revisori e regolatori sopra dazi (4 ott. 1634), provveditore alle Artiglierie (4 febbr. 1635), savio alla Mercanzia (14 apr. 1635) e finalmente savio del Consiglio - che era l'obiettivo da tanto tempo agognato -, ma solo per qualche settimana, in spezzoni di ruolo lasciato da altri, fra il 28 agosto e il 30 settembre e poi dal 17 novembre al 31 dic. 1635. Regolatore alla Scrittura il 29 febbr. 1636, qualche mese dopo (22 giugno) fu inaspettatamente eletto podestà a Brescia; il gesto del Maggior Consiglio era chiaro: per giungere davvero a inserirsi ai vertici dello Stato, il G. doveva riscattare l'antica colpa, e proprio in quella città che doveva costituire per lui fonte di imbarazzi e penosi ricordi. Rifiutò: l'umiliazione sarebbe stata davvero eccessiva, e così si giunse a un compromesso, consistente nell'elezione a capitano di Padova, che gli venne notificata appena tre mesi dopo, il 28 sett. 1636. Tuttavia il G. riuscì a evitare anche questo incarico, optando per la più impegnativa, ma infinitamente più prestigiosa e a lui congeniale, nomina ad ambasciatore ordinario presso l'imperatore, che gli venne conferita il 20 dicembre dello stesso anno.

Due giorni dopo i grandi elettori sceglievano quale re dei Romani il figlio del defunto imperatore e allora re d'Ungheria, Ferdinando III. Il mutamento che stava verificandosi al vertice dell'Impero aveva persuaso la Repubblica a ristabilire normali relazioni diplomatiche con Vienna, dopo una lunga interruzione, apparentemente causata da una presunta violazione dei diritti dei rappresentanti della Serenissima da parte delle corti asburgiche, ma in realtà conseguente a un riacuirsi della crisi dei rapporti fra Venezia e Madrid. Da quasi quindici anni, dunque, la Repubblica era rappresentata alla corte imperiale da un "cittadino" in figura di residente; a Marcantonio Padavin erano succeduti Pietro Vico, Antonio Antelmi e Giovan Battista Ballarino: personaggi abili ed esperti, ma poco adatti, per nascita e aderenze, a sostenere il sempre più angusto spazio riservato alla Serenissima dalle potenze europee, specie nella fase conclusiva della guerra dei Trent'anni.

La scelta di una personalità di maggior peso per riallacciare normali relazioni diplomatiche con il nuovo imperatore cadde dunque sul G., che però tardò quasi un anno a mettersi in viaggio, in quanto tra il settembre e l'ottobre 1637 ebbe luogo l'ambasceria straordinaria di Raniero Zen e Angelo Contarini, inviati dalla Repubblica a presentare a Ferdinando le condoglianze per la morte del padre. Nonostante la cattiva salute che gli causava problemi di deambulazione, il G. lasciò Venezia con la stagione peggiore, agli inizi di dicembre 1637, essendo pervenuta la notizia che stava per giungere a Venezia il collega rappresentante imperiale, barone Antonio Rabatta. Presso Ferdinando, a Vienna e a Praga, il G. si sarebbe trattenuto per circa trentatré mesi, in compagnia del figlio primogenito Antonio. Avrebbe potuto essere, la sua, una missione tutto sommato priva di particolari difficoltà, se a interromperne l'ordinato fluire non fosse intervenuto l'incidente veneto-turco del 7 ag. 1638, che riportava bruscamente l'attenzione del G. agli intrecci della politica internazionale.

A Valona, sulla costa albanese, una squadra veneziana aveva in parte affondato e in parte catturato alcune navi di pirati barbareschi; immediata era stata la reazione del sultano Murad IV, che aveva fatto imprigionare il bailo Alvise Contarini e iniziato i preparativi per la guerra. Nell'autunno del 1638 la situazione appariva assai grave, perché nella prossima primavera i Turchi avrebbero potuto assalire la Repubblica, mentre le potenze europee erano ancora coinvolte, direttamente o indirettamente, in un interminabile conflitto.

Si colloca in quest'ambito la Relationedelle cose presenti di Germania, fatta pervenire dal G. al Senato a fine gennaio del 1639.

Lo scritto - il cui stile, a tratti disadorno, tradisce una frettolosa composizione - consiste in un quadro informativo della situazione degli Stati europei, compilato dal G. in vista della possibilità, per la Repubblica, di ottenere aiuto contro il Turco: una sorta di aggiornata puntualizzazione sulle vie rapidamente praticabili, per Venezia, nell'intento di non presentarsi sola all'imminente confronto con l'Impero ottomano. A giudizio del G., la Repubblica non poteva sperare aiuto da Ferdinando; anzi, neppure poteva contare sulla possibilità che l'imperatore le concedesse di assoldare truppe: e questo per le prioritarie esigenze della guerra che devastava la Germania. Donde l'urgenza, più che mai necessaria, di una pacificazione universale che peraltro sembra ancora lontana, perché "le rissolutioni alla guerra prevagliono sempre più". Quanto al papa, potrà fornire tutt'al più un contributo finanziario, mentre dalla Polonia non giungeranno che "languidi e miserabili sovvegni"; sicché - conclude il G. - l'unico aiuto concreto potrebbe essere fornito dal principe di Transilvania, Giorgio Ragoczy, perché, se è vero che da solo non muoverà guerra ai Turchi, è altrettanto certo che "meglio d'ogn'altro […] può divertire con gli ufficii, e con sua mediatione, questo male gravissimo alla Christianità" (p. 233). La segreta trattativa che il G. suggeriva di intavolare con il Ragoczy finì tuttavia per essere superata dagli eventi, che piegarono al meglio, sicché il paventato conflitto con gli Ottomani si risolse in una pacifica composizione, grazie a un indennizzo fatto pervenire a Costantinopoli dal Senato.

Quando il G. stese questo documento, da alcuni mesi aveva ottenuto dal suo governo le credenziali diplomatiche presso il re di Polonia Ladislao IV Wasa, che nell'estate del 1638 aveva soggiornato con la moglie, sorella dell'imperatore, a Baden, per cure termali: a Venezia, infatti, si pensava che Varsavia avrebbe potuto costituire un potenziale alleato in funzione antiturca. Quest'ulteriore incarico non fu una sinecura, per il G., come testimonia la fitta corrispondenza intercorsa col sovrano polacco; ma forse il nuovo compito, che si sommava a quello già appoggiatogli presso l'imperatore, persuase il G. a sollecitare dal Senato la nomina del successore, allegando salute malferma.

Sennonché i potenziali nuovi ambasciatori rifiutarono in buon numero l'alto incarico: diede l'esempio Giovanni Pesaro (10 dic. 1638 e 3 giugno 1639), seguito da Giovanni Cappello (22 nov. 1639) e da Giovanni Soranzo (13 genn. 1640); così il 12 maggio 1640 il Senato decise comunque di accordare la licenza di rimpatrio al G., consentendogli di affidare la sede diplomatica al suo segretario Taddeo Vico, che ben conosceva la corte cesarea per esservi stato in precedenti circostanze. Il G. giunse a Venezia nel luglio 1640, ma presentò la relazione al Senato soltanto dopo vari mesi, il 13 marzo 1641, accusando una recrudescenza di "antichi et novi mali".

Diversamente dalla precedente Relatione delle cose presenti di Germania, questo nuovo scritto appare all'altezza della migliore tradizione diplomatica veneziana, per finezza stilistica, penetrazione di giudizio e completezza d'informazione. Omessa, come superflua, l'introduzione su geografia, economia, istituzioni e usi del paese, il documento è interamente dedicato all'azione politico-diplomatica del G.: "Furono dunque" - egli scrive - "in sostanza i miei negotiati di tre nature. Alcuni concernenti il ben publico e la pace di Christianità. Altri toccanti li particolari interessi di questo Serenissimo Stato. Altri in fine spettanti al decoro et al posto, onde solo pendono tutte le distintioni di maggioranza e tutte le glorie de' principi" (p. 237). In sostanza, quasi un terzo della relazione verte su quest'ultimo punto; quanto poi alla politica, il G. ripercorre la complessa trama del "passato accidente di Costantinopoli" e i propri "indicibili travagli" per alimentare le tenui speranze della tanto auspicata pacificazione generale fra le potenze europee; le questioni poi interessanti direttamente i rapporti veneto-austriaci riguardano in particolare il perdurante problema degli Uscocchi, il patriarcato di Aquileia, i contrasti con i Triestini in materia di produzione e smercio del sale. Positivo, infine, l'usuale "ritratto" del sovrano, "prencipe d'una naturale affabilità e discrettione incomparabile, accompagnate però da così maestosa gravità, che induce nei cuori d'ogn'uno una somma veneratione" (p. 277), sicché tutto induce a bene sperare di lui.

Rimpatriato con il titolo di cavaliere, il G. si trovò finalmente innalzato alle più alte cariche dello Stato: dopo una breve permanenza fra i sopraprovveditori di rispetto alle Biave (nominato il 21 sett. 1640), fu eletto riformatore dello Studio di Padova (4 marzo 1641), savio del Consiglio per il semestre aprile-settembre dello stesso anno, membro del Consiglio dei dieci (1° ott. 1641), inquisitore di Stato (13 genn. 1642) e nuovamente savio del Consiglio, sempre nel periodo aprile-settembre, del 1642. Ricopriva la carica di provveditore alle Artiglierie quando fu eletto, il 30 maggio 1643, ambasciatore straordinario in Francia, insieme con il cavaliere e procuratore Angelo Contarini, in occasione dell'ascesa al trono di Luigi XIV.

La designazione del G. si deve probabilmente al fatto che il nuovo sovrano aveva appena cinque anni, per cui si prevedeva una lunga reggenza della regina madre Anna, figlia del re di Spagna e sorella di quell'imperatrice, Maria Anna, che il G. aveva avuto modo di conoscere e frequentare nel corso della sua permanenza in Austria e Boemia; inoltre il G. conosceva la lingua spagnola, e questo avrebbe potuto suscitargli la simpatia della regina.

L'aggravarsi della crisi connessa alla guerra di Castro - che aveva dato luogo a scontri in Polesine fra le truppe venete e quelle pontificie - suggerì al Senato di affrettare la partenza dei due, i quali dovettero lasciar Venezia nella stagione meno opportuna, il 1° ottobre; fecero l'ingresso solenne a Parigi il 24 nov. 1643 e ne ripartirono alla metà di dicembre.

Dai dispacci che scrissero e dalla relazione che lessero al ritorno si ricava che il positivo esito della missione - il cui vero scopo consisteva nell'impedire al pontefice di reclutare soldati in Francia - fu dovuto non solo alla personale abilità degli inviati, validamente appoggiati nella loro azione dall'ambasciatore ordinario a Parigi, Girolamo Giustinian, ma anche al grande fasto esibito. Splendida l'entrata a corte, con grande sfoggio di carrozze e soldati, seguita da ricevimenti, luminarie e banchetti, offerti pressoché quotidianamente dagli inviati veneziani; Parigi non era ancora la città del re Sole, ma già spiccava come la più vivace e prestigiosa metropoli europea, sicché bisognava dimostrare di esserne all'altezza. Del resto, il fatto che ben quattordici patrizi, oltre al figlio del G., Antonio, avessero voluto accompagnare in veste privata gli inviati della Serenissima, sta a dimostrare che sulle ragioni della diplomazia prevalevano ben più forti attrattive. Politica e mondanità sono infatti i due cardini sui quali appaiono incentrati i dispacci del Contarini e del G., nell'evidente intento di soddisfare la naturale curiosità dei concittadini, mentre la relazione conclusiva è in gran parte dedicata al cardinale Giulio Mazzarino ("unico si può dire che regge e dia la legge"), e alla figura del nuovo re. A questo proposito, trattandosi di un bambino, il giudizio da essi espresso ha più il sapore della profezia che la fondatezza di una motivata valutazione: "sa e conosce di esser re e vuol esser tenuto per tale […]; se non mancherà di vita e di educazione, promette esser un gran re" (p. 401).

Nuovamente a Venezia, il G. venne chiamato a ricoprire per tre anni di seguito (1644-46) il saviato del Consiglio, sempre nel semestre aprile-settembre; fu inoltre eletto provveditore alle Artiglierie (8 ott. 1644 e 6 ott. 1645), riformatore dello Studio di Padova (10 marzo 1645), esecutore contro la Bestemmia (15 ott. 1645) e correttore della Promissione ducale, dopo la morte del doge Francesco Erizzo (3 genn. 1646).

Lo scoppio della guerra di Candia, nel giugno 1645, comportò una radicale modifica dello scenario politico veneziano; anche un consumato diplomatico come il G. ne fu in qualche modo toccato, dal momento che il 6 marzo 1646 gli fu appoggiato il carico di rivedere le fortificazioni del Lido, in vista di possibili - benché improbabili - incursioni turche.

Di lì a poco ebbe a verificarsi un nuovo duro contrasto con il Maggior Consiglio; il 16 sett. 1646, infatti, l'assemblea eleggeva il G. capitano a Padova. Considerato il prestigio di cui egli godeva, il voto aveva un sapore punitivo (probabilmente i concittadini, oltre a vedere in lui un esponente delle invise famiglie filocuriali, non avevano dimenticato il comportamento che aveva tenuto dieci anni prima, in occasione di analogo scrutinio); il G. fece annullare l'elezione come irregolare, ma l'assemblea lo riconfermò nel rettorato padovano qualche settimana dopo, il 4 ottobre. Allora il G. rifiutò la nomina, esponendosi in tal modo al pagamento di un'ammenda e all'ostracismo politico, che si tradusse nella mancata elezione a qualunque carica per il biennio 1647-48.

Poi, l'eroica morte in mare del fratello Giovambattista, nel 1648, aprì la via alla composizione della vertenza: il 25 apr. 1649 il G. fece il suo ingresso nel capitanato di Padova (approfittando della forzata assenza da Venezia, diede inizio a lavori di ristrutturazione nel palazzo ai Servi; fece dunque trasportare temporaneamente nella sua casa padovana, in Prato della Valle, la ricchissima quadreria, che conteneva anche un suo ritratto a grandezza naturale, opera di Bernardo Strozzi, dove il G. appare a un tempo tronfio e severo), ma non portò a termine il mandato, perché il 16 marzo 1650 venne eletto procuratore de ultra e richiamato a Venezia.

Qui l'attendeva una duplice successiva nomina: savio del Consiglio per il semestre aprile-settembre e, appena qualche giorno dopo (9 apr. 1650), ambasciatore al congresso di pace di Münster.

Le corti europee a vario titolo impegnate nel lungo conflitto avevano infatti chiesto alla Repubblica di farsi mediatrice nel complesso groviglio dei contrapposti interessi, e per quasi sette anni il suo miglior diplomatico, Alvise Contarini, non aveva risparmiato le energie, consapevole che, se la Serenissima non poteva più giocare un ruolo di potenza in Europa, perlomeno doveva tentare di conservarvi una propria presenza; ora però, stanco e ammalato, aveva chiesto e ottenuto il rimpatrio, mentre ancora rimanevano aperti gli ultimi strascichi del contenzioso tra Spagna e Francia e tra Svezia e Polonia.

In suo luogo fu nominato il G., indubbiamente tra i politici più esperti sui quali allora potesse contare il governo marciano, "ma" - scrive il Nani (p. 238) - "non vi fu più alcun ripiego per unir il Congresso": il G. dunque non lasciò Venezia, né risulta aver ricoperto alcun altro incarico.

Il G. morì nella sua città il 18 luglio 1653.

La Relatione dell'ambasciator Grimani delle cose presenti di Germania sotto li 22 genn. 1638 m.v., mandata con lettere del medesimo sig. ambasciatore a 31 detto, è edita in Fontes rerum Austriacarum, s. 2, XXVI, Wien 1866, pp. 217-235; la relazione conclusiva, del 13 marzo 1641, ibid., pp. 237-292 (entrambe ristampate in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, III, Torino 1968, pp. 887-962; un utile compendio della cronologia ufficiale concernente la missione, ibid., II, ibid. 1970, pp. XLVII s.); la relazione di Francia, stesa dal G. unitamente con Angelo Contarini, è in Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. 2, II, 1, Venezia 1857, pp. 391-421 (ristampata in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, VI, Torino 1975, pp. 955-985, con cenni sulla cronologia della missione, ibid., V, ibid. 1978, p. XXIX).

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, IV, cc. 121, 157; Segretario alle Voci, Elezioni Consiglio dei dieci, reg. 62, cc. 7r, 50v, 51v; Elezioni Maggior Consiglio, regg. 13, c. 35; 14, cc. 29, 57; 15, cc. 8, 169; 16, cc. 1, 138, 166; 18, c. 138; 19, cc. 138, 188; Elezioni in Pregadi, regg. 10, c. 20; 12, cc. 12, 14, 26, 45, 56, 83, 99, 149; 13, cc. 3, 12-13, 68-69, 73, 100, 133, 153; 14, cc. 3-4, 60, 68, 79, 100, 162; 15, cc. 2-3, 60, 71, 100, 162, 177; 16, cc. 2, 70; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere di rettori, b. 4, nn. 186, 189, 195, 198, 200 (Bergamo, 1629-30); Provveditori da Terra e da Mar, b. 260 (lettere come commissario al di là del Mincio, 15 maggio 1630 - 13 febbr. 1631); Senato, Dispacci Germania, filze 82-83; Dispacci Francia, filze 99-100; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 2526/98 (lettere del G. ad A. Contarini, 1639); 3016/XI (lettere del G. al nipote Marco Magno, 1624-41); 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, c. 110r; 1511: Copella politica…, c. 18; Mss. Morosini - Grimani, bb. 259 (appunti stesi dal G., concernenti il saviato di Terraferma, 1627); 324; 380, c. 196 (discorso del G. circa il mandar coloni a Candia, 1644); 440 (118 lettere di diversi - tra le quali 67 del re di Polonia e 6 della regina sua moglie - al G., dal 7 genn. 1625 al 3 marzo 1644); 442/VI, cc. XXII-XXIII; 473/VI; 474/I; 476/IV; 503, cc. 305r-309r; 559/V.1; 542/4 (elenco dei quadri inviati a Padova, il 18 maggio 1649); 564, nn. 189-193 (lettere del G. al fratello Francesco, provveditore della cavalleria in Dalmazia, 1628); Mss. P. D., C.2185/XIV (acquisto di 6 case a Venezia, 1647); F. Rossi, I lieti presagi. Panegirico a G. G., nella sua promozione dalla prefettura di Padova alla dignità di procurator di S. Marco, Padova 1650; Calendar of State papers… of Venice, a cura di A.B. Hinds, XXIII-XXIV, London 1923-31, ad indices; Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli. Dispacci, VII, 16 nov. 1632 - 18 maggio 1638, a cura di M. Gottardi, Roma 1991, pp. 408, 410; B. Nani, Istoria della Republica di Venezia, in Degl'istorici delle cose veneziane, I, Venezia 1720, p. 574; II, ibid. 1720, p. 238; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, pp. 162, 170; G. Soranzo, Bibliografia veneziana…, Venezia 1885, pp. 425 s.; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori, Roma 1927, pp. 223 s.; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, p. 300; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, IV, Bergamo 1959, pp. 104, 114, 117, 141, 486; D. Caccamo, I problemi del Mar Nero e i primi rapporti russo-veneziani (aprile-maggio 1647), in Studi veneziani, n.s., VI (1982), pp. 203 s., 206; G. Benzoni, Contarini, Angelo, in Diz. biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, p. 117; P. Ulvioni, Il gran castigo di Dio. Carestia ed epidemie a Venezia e nella Terraferma. 1628-1632, Milano 1989, p. 135; Bernardo Strozzi. Genova 1581/82 - Venezia 1644 (catal.), a cura di E. Gavazza - G. Nepi Scirè - G. Rotondi Terminiello, Milano 1995, pp. 248 s.; S. Andretta, La Repubblica inquieta. Venezia nel Seicento tra Italia ed Europa, Roma 2000, pp. 217 s., 237.

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