NEGRONI, Giovanni Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NEGRONI, Giovanni Francesco

Massino Carlo Giannini

NEGRONI, Giovanni Francesco. – Nacque a Genova il 3 ottobre 1629 dal senatore genovese Giambattista e da Placida Gentile.

Nulla si conosce dei suoi primi anni. Si laureò in diritto all’Università di Perugia e, in una data imprecisata, si recò a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica. Qui, nel luglio 1656, durante l’epidemia di peste, fu delegato dalla congregazione di sanità quale commissario «sopra il Ghetto», incaricato di sovrintendere alla clausura del quartiere ebraico. L’anno seguente diventò referendario apostolico; fu poi chiamato a ricoprire una lunga serie di uffici di governo nelle città e province dello Stato ecclesiastico: governatore di Terni (1658), vicelegato di Romagna (1661), governatore di Jesi (1663), Orvieto (1664), Spoleto (1665), della Campagna (1666) e di Perugia (1668).

Protonotario apostolico dal 1665, acquistò, nel 1669 o 1670, un chiericato di Camera, vero trampolino per l’ascesa ai ranghi più alti della carriera curiale. Nel 1673 fu anche prelato dell’arciconfraternita della Carità. A partire dal 1674, fu inserito in varie congregazioni di prelati: quella per i Baroni e i Monti, presieduta dal tesoriere generale Giovanni Francesco Ginetti, quella per l’assegnazione delle parrocchie e dei benefici ecclesiastici, presieduta dal cardinal vicario. Nel 1676 fu nominato nella congregazione prelatizia deputata ai conti della Reverenda Camera apostolica, della quale fece parte sino al 1684.

La sua carriera compì un fondamentale passo in avanti nell’ottobre 1679, con l’acquisto della carica di prefetto dell’Annona, cui seguì, nel settembre 1681, quella di tesoriere generale della Camera apostolica. A tale alto ufficio papa Innocenzo XI aggiunse, come già per il predecessore, quello di commissario generale della flotta, delle triremi, delle fortezze e delle fortificazioni dello Stato ecclesiastico. In quanto tesoriere generale, Negroni prese posto in numerose congregazioni connesse a questioni amministrative e finanziarie: Annona, Confini, Fabbrica S. Pietro, Rive del Tevere, Spogli e Strade.

Malgrado Lorenzo Cardella (1793, p. 299) gli attribuisca il merito di una gestione delle rendite della Camera apostolica tale che «questa si riebbe delle angustie» in cui versava , lo stato assai lacunoso della documentazione e delle conoscenze non consente di avanzare altro che congetture sul suo ruolo. Senza dubbio dovette lavorare in sintonia con Innocenzo XI ed è lecito supporre che la politica di risparmi e riduzioni delle spese operata dal pontefice trovasse in lui uno dei pochi e fidati ministri. Non a caso il pontefice gli affidò la sovrintendenza sull’operazione di ristrutturazione del debito dei Monti della S. Sede, condotta fra il 1684 e il 1687 con l’erezione dei nuovi Monti di S. Pietro. Fra il 1682 e il 1686 fu anche commissario delle armi dello Stato pontificio.

Accompagnò la propria carriera curiale con committenze artistiche volte ad accrescere il prestigio suo e della sua famiglia.

Assai significativa a questo riguardo è la vicenda della cappella di S. Francesco Saverio nella chiesa romana del Gesù. Vicino per tradizione familiare alla Compagnia di Gesù, ne divenne patrono in un anno imprecisato, comunque anteriore al 1669, quando per suo incarico, Pietro da Cortona realizzò, alla vigilia della morte, i disegni per la ristrutturazione. Negroni procedette in piena autonomia nella gestione dei lavori e nella scelta degli artisti, che egli stesso pagava: così, malgrado il generale dei gesuiti Gian Paolo Oliva avesse affidato la decorazione della cappella al pittore Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio, egli chiamò a lavorarvi un altro pittore genovese, Andrea Carlone.

I lavori durarono diversi anni: allorché furono in dirittura d’arrivo, alla fine del 1678, Negroni decise di fare scolpire sull’altare della cappella le insegne di Clemente IX e del pontefice regnante Innocenzo XI. In secondo luogo, mettendo nuovamente di fronte al fatto compiuto i padri della Compagnia, affidò all’artista più famoso del momento sulla piazza romana, Carlo Maratta, il compito di dipingere il quadro d’altare che ritraesse la morte di Francesco Saverio. La valenza autocelebrativa della committenza di Negroni fu chiaramente avvertita dai contemporanei e non solo dai gesuiti che, a più riprese, protestarono contro l’invadenza del patrono. Il diarista romano Carlo Cartari, ai primi di dicembre 1678 scriveva: «In occasione della festa di S. Francesco Xaverio si è veduto il maestoso ornamento dell’altare, e della cappella di detto santo nella Chiesa de’ padri gesuiti della casa professa, a spese di monsig. Negrone genovese, chierico di Camera, dicono di scudi quindeci mila. Il quadro è opera di Carlo Maratta, dicono pagatoli scudi cinquecento. Curiosità degna di osservazione si è che si vedono nelli piedestalli delle colonne dell’altare scolpiti li scudi con il triregno pontificio e chiavi, senza però alcuna impresa nel detto scudo e si bene i belli ingegni variamente ne discorrono, l’opinione però più ricevuta si è ch’esso volesse farvi scolpire l’arme del regnante pontefice, ma fattone far parola a S.S.tà non se ne sia ottenuto il consenso» (Arch. di Stato di Roma, Cartari-Febei, b. 87, c. 79). Nel gennaio 1679, Negroni comunicò al padre Oliva la conclusione dei lavori riaffermando la piena padronanza della cappella. Ciò destò le proteste dei padri del Gesù e obbligò il generale a inviare a Negroni il religioso Carlo Lucchesini per giungere a una definizione del ruolo del patrono in linea con la consuetudine dei patronati all’interno della chiesa.

Altrettanto importante, ai fine dell’affermazione dell’autorevolezza e della ricchezza di Negroni, fu l’acquisto, nel novembre 1682, del palazzo Mattei (oggi Caetani) alle Botteghe Oscure, che divenne la sua residenza abituale. Nel 1680, aveva acquistato a Genova, dove manteneva solidi legami con la famiglia, una casa vicina a quella del fratello Bendinello, il quale divenne doge della Repubblica nel 1695. Nel dicembre 1696, poi, accrebbe il suo patrimonio immobiliare romano comprando all’asta, per mezzo di un mediatore e al costo di 70.140 scudi di moneta, la villa Montalto, confiscata per debiti al principe Giulio Savelli.

Fu creato cardinale da Innocenzo XI il 2 settembre 1686, venendo sostituito nel tesorierato generale da un altro genovese, Giuseppe Renato Imperiali. Non molto tempo dopo si fece ritrarre in abito cardinalizio dal Baciccio – di cui un decennio prima aveva rifiutato i servigi –, al quale commissionò altre tele, segno forse di un gusto artistico che non disdegnava di seguire la moda del momento. Nel marzo dell’anno successivo fu nominato vescovo di Faenza. Innocenzo XI gli affidò quindi la legazione di Bologna, di cui prese possesso il 3 dicembre 1687. Il triennio della legazione (novembre 1687 - novembre 1690) trascorse, allo stato delle conoscenze, senza particolari vicende, tolti i consueti attriti con il senato cittadino e l’attività di repressione del banditismo nelle campagne.

Nel corso del conclave del 1691, successivo alla morte di Alessandro VIII, redasse una scrittura che rappresentò una sorta di manifesto politico della fazione dei cardinali ‘zelanti’, nella quale affermava l’esigenza di eleggere un papa alieno dal nepotismo e dall’influenza delle opposte fazioni del Collegio cardinalizio legate alle corti. Sembra in particolare che, durante il conclave, operasse con successo per contrastare la candidatura del cardinale Paluzzo Altieri servendosi di incartamenti compromettenti. Una volta eletto papa Innocenzo XII, occupò una posizione di seconda fila. Nell’aprile 1694 il pontefice lo rimproverò per una non meglio precisata scrittura fatta stampare per una causa relativa ai Medici e si ventilò un suo ritiro a Faenza. In effetti – come attesta un editto del giugno 1693 in materia di organizzazione delle confraternite della sua diocesi – soggiornò a tratti a Faenza. Qui celebrò un sinodo diocesano nel settembre 1694 ed emanò disposizioni volte a rinsaldare l’autorità vescovile, come quella riguardante l’obbligo per gli ecclesiastici di servirsi del solo notaio episcopale per la stipula dei loro istrumenti ovvero di depositare presso la cancelleria episcopale copia di tutti gli atti per la cui stesura si fossero rivolti a notai laici. Nel novembre 1697 rinunciò alla diocesi.

Assai interessante è la descrizione – del tutto denigratoria – che il conte Orazio Pannocchieschi d’Elci fece della persona e della carriera di Negroni nella sua Relazione della corte di Roma del luglio 1699 (cit. in Seidler, 1996, pp. 419 s.). Lo accusò di essere stato un pessimo governatore, noto per la sua perfidia e per essere venuto meno alla sua parola, di aver concepito un odio insanabile verso il cardinale Paluzzi Altieri, poiché durante il pontificato di Clemente X non era riuscito a far carriera, al punto che, negli ultimi due conclavi, si era dedicato sistematicamente ad accusarlo di numerose malefatte al fine di impedirne l’elezione papale (che peraltro non fu mai all’ordine del giorno). Secondo la relazione, inoltre, una volta diventato prefetto dell’Annona, Negroni si dedicò a far incetta di grani su cui speculare e, come tesoriere generale, «cagionò la rovina di Roma» sia con la riforma monetaria, sia con la riduzione degli interessi sui luoghi di Monte papali, dalle quali aveva tratto personale profitto. Queste operazioni gli erano valse la porpora cardinalizia e il vescovado di Faenza. Malgrado lo definisse «inquieto, vario, torbido, avaro, mendace, venale, protervo, maligno e senza parola», d’Elci era tuttavia costretto a riconoscere a Negroni modestia e assenza di comportamenti scandalosi nella vita privata; pure metteva in guardia da un eventuale suo coinvolgimento nei maneggi di un futuro conclave.

Quasi nulla si conosce della vita e dell’operato di Negroni nel primo decennio del Settecento. Nel gennaio 1709, durante la disastrosa guerra voluta da Clemente XI contro l’imperatore, anch’egli, come molti porporati ‘zelanti’, prese le distanze della politica papale. Fu lui, infatti, a riferire al pontefice il pressante invito a firmare l’armistizio, che il cardinale Colloredo aveva formulato in punto di morte.

Morì a Roma il 1° gennaio 1713 e fu sepolto nella cappella di S. Francesco Saverio nella chiesa del Gesù.

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