GIOVANNI di Bartolo, detto il Rosso

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI di Bartolo, detto il Rosso

Carlo La Bella

Non rimane alcuna notizia sui primi anni di vita e di attività di questo scultore fiorentino, figlio di un frate Bartolo, la cui nascita è ipoteticamente collocabile tra la fine del XIV secolo e i primi anni del secolo successivo (Poggi; Gilbert). Nei documenti viene spesso menzionato col soprannome di Rosso, certo dovuto al colore dei suoi capelli.

Nonostante sia stato supposto che G. abbia svolto le sue prime esperienze artistiche all'interno della bottega di Niccolò di Pietro Lamberti, nell'apprendimento di tradizionali stilemi figurativi tardogotici (Brunetti, 1934; 1970), le opere assegnabili con certezza allo scultore rivelano piuttosto una pronta, vigorosa adesione al linguaggio di Donatello, presso il quale dovette iniziare il proprio apprendistato, forse a partire dalla metà del secondo decennio del XV secolo (Jansow).

Il nome di G. compare per la prima volta nel luglio del 1419 in un contratto di allocazione redatto dall'Opera del duomo di Firenze, al cui servizio lavorò per almeno quattro anni, realizzando diverse statue per gli esterni della cattedrale e del campanile. L'identificazione di queste sculture attestate dai documenti, tra quante ancora si conservano della decorazione scultorea del duomo, si è rivelata in vari casi alquanto problematica.

Della prima statua assegnata a G. nel 1419 i documenti non specificano il soggetto, ma solo che sarebbe stata collocata nella facciata del duomo e che il corpo e la testa del personaggio da raffigurare andavano eseguiti su due blocchi di marmo separati; lo scultore portò a termine l'impresa, con il supporto di un non nominato maestro di scalpello dell'Opera, entro il marzo del 1420 (Poggi).

Dubbio è il riconoscimento di questa scultura con il cosiddetto S. Giovanni Battista al Museo dell'Opera del duomo, già sul campanile ma probabilmente ideato per la facciata, effettivamente realizzato utilizzando due diversi blocchi; l'opera viene infatti anche attribuita a Donatello, che potrebbe però aver eseguito la sola testa (Lányi; Markham Schulz, 1997).

Appena un mese dopo la consegna di questo lavoro G. ricevette l'incarico di una seconda statua: si trattava di un Giosuè da collocare sul campanile.

Già assegnato nel 1415 a Bernardo Ciuffagni, che nel 1417 lasciò incompiuta la statua, fu quindi trasferito a Donatello, che non vi mise mano nel corso dei due anni successivi. A G. fu chiesto di completare l'opera iniziata da Ciuffagni, all'epoca assente da Firenze, che manteneva però il diritto di riacquisire eventualmente la sua commissione. I documenti attestano che G. stava lavorando alla statua nel dicembre del 1420 e che l'aveva completata entro l'aprile del 1421 (Poggi; Markham Schulz, 1997). È possibile che la scultura in questione sia il cosiddetto Poggio Bracciolini, esposto dal XVI secolo all'interno del duomo ma proveniente dalla facciata, e in origine, probabilmente, collocato sul campanile. Non è facile individuare l'effettivo intervento di G. sulla statua, forse limitato ad alcuni brani del panneggio, mentre l'impostazione della figura e la testa, esemplata su quella del Profeta senza barba di Donatello, sembrano meglio riconducibili alla mano del Ciuffagni (Lányi; Wundram).

Analoghi problemi nella distinzione degli interventi dei diversi artisti presenta il gruppo di Abramo e Isacco per il campanile, oggi al Museo dell'Opera, che venne realizzato da G. in collaborazione con Donatello nel breve lasso di tempo tra il marzo e il novembre del 1421 (Poggi); sembra possibile che a G. insieme con aiuti di bottega spetti gran parte dell'esecuzione, mentre l'assetto compositivo risulterebbe di ideazione donatelliana.

Interamente eseguito da G., e da questo firmato, è invece l'Abdia del Museo dell'Opera del duomo.

Probabilmente da identificare con il profeta destinato al campanile al quale lavorava tra il marzo e il settembre del 1422, e che gli fu saldato nel mese di novembre, sebbene nei documenti il personaggio realizzato da G. venga menzionato come Ulia (ibid.). Il maestro diede forma, per la prima volta in maniera del tutto autonoma, a una figura ispirata all'antico, bloccata in un accenno di moto, rivelandosi pienamente ricettivo nei confronti dei modelli della statuaria donatelliana.

Sebbene non rimanga alcun attestato documentario a riguardo, G. fu certamente attivo anche nel campo della scultura in terracotta, tecnica recuperata a Firenze nel secondo decennio del secolo, soprattutto per impulso di Donatello.

Gli viene infatti attribuita una serie di immagini mariane, le più antiche delle quali sembrerebbero la lunetta con la Madonna col Bambino tra due angeli reggicortina nel chiostro dell'ospedale di S. Maria Nuova a Firenze, forse della fine del secondo decennio del secolo (Schottmüller), un rilievo agli Staatliche Museen di Berlino (Schlegel) e una Madonna col Bambino a tutto tondo in collezione privata (Bellosi, 1997, figg. 183 s.); forse di pochi anni più tarde sono due terrecotte del Museo di Villa Guinigi a Lucca (Ferretti), mentre si fanno risalire ai primi anni Venti la Madonna col Bambino al Museo d'Ognissanti, proveniente dalla chiesa fiorentina S. Salvatore al Monte, l'esemplare del Kulturhistorisches Museum di Magdeburgo (Jolly) e la grande Madonna seduta col Bambino al Kaiser Wilhelm Museum a Krefeld (Schottmüller). A G. spetta anche la matrice di un gruppo di Madonne col Bambino a mezzo busto, di cui si conservano diversi esemplari, dove la Madre è rappresentata nell'atto di solleticare il collo del Bambino addormentato (Planiscig; Bellini).

Ancora per l'arredo esterno della cattedrale fiorentina l'artista lavorava dal settembre del 1422 al giugno dell'anno successivo, eseguendo un doccione (oggi perduto) in forma di fanciullo sostenente un otre, che si intendeva collocare in una posizione non identificata della tribuna meridionale (Poggi).

L'ultima commissione per il duomo affidata a G. risale al 14 dic. del 1422, quando gli fu chiesto di scolpire una figura di profeta per il campanile, che l'11 febbr. del 1424 si trovava però ancora in stato di abbozzo nelle cave di Carrara; a causa di questo ritardo nei lavori, gli Operai decisero di passare la commissione a Ciuffagni, che preferì dare inizio a una nuova scultura utilizzando un diverso blocco di marmo (Semper; Lányi). Nel motivare la delibera del passaggio di allocazione, gli Operai dichiaravano che G. non avrebbe avuto modo di portare a termine l'incarico in quanto "pro certo debito quod […] habet cum quam pluribus veriis et diversis personis" aveva lasciato Firenze, per trovarsi impegnato, da quel che si era saputo, "pro longo tempore" ad un "certum laborerium" a Volterra (Poggi, pp. 46 s.). Con ogni probabilità l'indicazione della città toscana leggibile nel documento va ritenuta erronea, e imputata a un fraintendimento dello scrivano: come si trova scritto infatti in una seconda registrazione dello stesso atto, il maestro si era invece recato a Venezia, dove la sua presenza è attestata nel maggio del 1424, quando incontrava l'ambasciatore fiorentino Rinaldo degli Albizzi (Gilbert).

Una testimonianza tangibile dell'operato di G. nella città lagunare va riconosciuta in tre doccioni marmorei posti nella facciata settentrionale della basilica di S. Marco, raffiguranti giovani che sostengono otri (Brunetti, 1934), i cui lavori dovettero iniziare in prossimità dell'arrivo del maestro da Firenze, forse per concludersi però con l'esecuzione del terzo, più maturo esemplare, solo alcuni anni più tardi (Markham Schulz, 1997).

In questo stesso periodo G. veniva inoltre impiegato nella realizzazione del Monumento funebre di Niccolò Brenzoni in S. Fermo Maggiore a Verona, su cui appose la propria firma e che, come attesta l'epitaffio inciso su due lapidi rimosse nel XVI secolo, venne commissionato dal figlio del defunto, Francesco, e terminato nel 1426 (Brenzoni).

In questo suo primo incarico di grande rilievo in terra veneta, G. si dimostra quanto mai aperto ad accogliere l'esuberante repertorio decorativo del tardogotico locale, mantenendo però nella resa delle singole figure la ferma impostazione spaziale e plastica propria della più aggiornata cultura fiorentina, attivando così la conoscenza in quell'area delle forme del repertorio donatelliano, prima ancora dell'arrivo a Padova del grande maestro. Il monumento - completato come era uso nel Veneto da un rivestimento pittorico, che fu affidato a Pisanello - si compone di un grande baldacchino arabescato aperto da due putti (desunto dalla tomba del doge Tommaso Mocenigo ai Ss. Giovanni e Paolo a Venezia, del 1423) inserito in una cornice marmorea rettangolare e sormontato da una figura di Profeta; al suo interno si ambienta la scena della Resurrezione di Cristo. Si tratta di un rarissimo esempio di memoria funeraria italiana non destinata a conservare le spoglie del defunto e a presentarne l'effigie. A G. va ricondotta l'ideazione dello schema compositivo come l'esecuzione dell'apparato scultoreo, fatta eccezione per le figure del Cristo risorto e della coppia di Angeli cerofori posti ai lati della scena centrale, opere di diversa epoca e origine inserite dal maestro nella composizione.

Giunto in Veneto l'artista non dovette interrompere la sua produzione di terrecotte figurate, come testimonierebbe la Madonna in trono col Bambino, a lui attribuita, nella pieve di S. Maria di Pozzonovo presso Padova (Ericani).

Viene ricondotto alla paternità di G. anche il controverso altorilievo del Giudizio di Salomone, elaborato gruppo scultoreo inserito nell'angolo nordoccidentale del palazzo ducale di Venezia, pure attribuito a Bartolomeo Bono, ma che venne probabilmente eseguito dal maestro toscano, forse con la collaborazione di un secondo scultore, nel corso della prima metà del quarto decennio del secolo (Paoletti; Bellosi, 1988-89; Markham Schulz, 1997).

Reca invece il nome di G. il portale della basilica di S. Nicola a Tolentino, eseguito su commissione del condottiero Niccolò Mauruzi; questi, nel proprio testamento redatto agli inizi del 1435, chiedeva agli esecutori di provvedere ad allestire il monumento (Colucci).

Due epigrafi inserite nei piloni laterali del monumento precisano che l'impresa era stata commissionata dal Mauruzi nel 1432, ma che fu portata a termine tre anni più tardi, dopo la morte del patrocinatore, grazie all'interessamento di suo fratello Battista, che fece trasportare dal Veneto i marmi scolpiti da Giovanni. Sebbene nel Museo della Basilica di S. Nicola si conservi un ex voto risalente alla seconda metà del XVI secolo, dove il portale compare schematicamente rappresentato in una configurazione assai diversa dall'attuale, si dubita che l'opera abbia in realtà subito nel tempo alterazioni della sua forma originaria (Markham Schulz, 1997). L'elaborato complesso, di chiara matrice veneziana, si compone di due pilastri posti ai lati dell'apertura, decorati con tre ordini di Santi entro nicchie e sormontati da statue della Vergine e dell'Angelo annunciante; nel coronamento è posta una lunetta con le figure a tutto tondo della Madonna col Bambino tra S. Nicola e S. Agostino, sormontata da un'arcatura mistilinea che racchiude un altorilievo con S. Giorgio e il drago, al cui vertice è una statua del Padre Eterno. G. si dedicò personalmente alla realizzazione del S. Giorgio, della Madonna col Bambino e della testa della statua di S. Nicola, affidando la realizzazione del rimanente apparato scultoreo a collaboratori di differente livello qualitativo, coordinati nell'applicazione di progetti del maestro.

Forse si deve alla progettazione di G. anche la Tomba del beato Pacifico nella chiesa di S. Maria dei Frari a Venezia, fatta erigere da Scipione Bon, procuratore della Fabbrica dei frari, dopo la morte del beato avvenuta il 3 luglio 1432.

L'epigrafe, murata al di sotto della cassa, attesta che l'inumazione del corpo all'interno della sepoltura ebbe luogo il 21 luglio 1437. Il monumento è l'unico nella Venezia del Quattrocento a essere interamente realizzato in terracotta, in origine dipinta e dorata, e rivela l'intervento di G. anche nella decorazione figurata, in particolare nell'altorilievo con il Battesimo di Cristo, oggi alquanto consunto, che sovrasta il sarcofago (Meyer; Bellosi, 1988-89).

Diversi anni più tardi, nel febbraio del 1452, il nome di G. compare nuovamente nei conti dell'Opera del duomo di Firenze, in qualità di debitore delle spese di trasporto del blocco di marmo che ventotto anni prima aveva sbozzato e abbandonato nelle cave di Carrara, e che veniva allora rimosso da Jacopo di Sandro (Poggi). È lecito supporre che il maestro fosse però a quella data già morto, probabilmente nella seconda metà degli anni Trenta, quando viene improvvisamente a mancare ogni testimonianza della sua attività (Gilbert).

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