DEXART, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DEXART, Giovanni

Antonello Mattone

Nacque a Cagliari da Melchiorre e da Marianna Jorge. Dai registri della parrocchia del quartiere di Castello risulta che venne battezzato il 22 ott. 1590.

In uno squarcio autobiografico inserito in un'allegazione forense del 1630 (Allegacion juridica por el doctor Juan Dexart juez de corte contra don Francisco Torrella), redatta per rivendicare antiche proprietà di famiglia, il D. ricorda che suo nonno Juan era venuto in Sardegna dalla Navarra e aveva sposato Maria Torrella, figlia del signore della "villa" disabitata di Capoterra. Il padre, che esercitava la professione di notaio e aveva svolto un ruolo importante, come "sindaco" dello stamento reale, nei lavori del Parlamento Elda (1602-1603) ed era stato successivamente capitano della città di Iglesias, morì il 5 luglio 1605, lasciando il D. "en edad menor, fragil, y expuesta a mil infortunios". Si prese cura di lui suo fratello maggiore Antioco, capitano di un tercio che combatté nelle Fiandre e prestò servizio in Lombardia.

La prima formazione scolastica del D. avvenne nel collegio gesuitico del castello di Cagliari, fondato nel 1564, in cui studiavano anche i figli della nobiltà e del ceto togato. Si iscrisse quindi nella facoltà di giurisprudenza dell'università di Pisa, frequentata da molti studenti isolani (dal 1600 al 1699 si addottorarono a Pisa ben 296 sardi: la Sardegna era la terza "nazione" studentesca, preceduta solo dalla Toscana e dalla Liguria). Il D. si laureò inutroque iure il 15 apr. 1615. Nel registro ufficiale dei dottorati viene definito "Dexart Johannes sardus calaritanus": dell'atto di conferimento del titolo, redatto dal notaio Andrea Felloni, furono testimoni il sardo Michele Bonfant, dottore inutroque, il cappellano pisano Annibale Agliata ed i cagliaritani Francesco Espa e Diego Pitzolo. Negli anni pisani il D. acquisì quella vasta conoscenza della tradizione romanistica del diritto comune romano-canonico che metterà soprattutto a frutto nell'attività di magistrato e negli studi giuridici degli anni successivi.

Rientrato in quello stesso anno in Sardegna, il D. acquistò una certa notorietà superando brillantemente le conclusioni della prova prescritta da un capitolo di corte del Parlamento Aytona (1598), secondo cui i dottori in utroque non potevano esercitare la pratica forense se prima non avessero sostenuto una sorta di pubblico esame. Da allora, per dieci anni, il D. esercitò l'avvocatura. Ci sono pervenuti soltanto pochi responsi legali e alcune allegazioni forensi, manoscritte e a stampa, ma dimostrano come già in questo periodo il D. possedesse una solida dottrina e una profonda conoscenza del diritto. Ben presto divenne uno dei più apprezzati e celebri uomini di legge del foro cagliaritano.

A conferma della stima di cui godeva basta ricordare questo episodio: nel 1621 il barone di Gesturi, Giuseppe Zatrillas, era impegnato in una lite con i suoi creditori, difesi dal D. (Patrocinium iuris pro creditoribus villae Gestori contra dominum eiusdem villae, Caller 1621). Zatrillas, conoscendo bene la sua integrità e il suo disinteresse, chiese, nonostante egli non potesse giudicare, il suo voto in giudizio, affermando: "Se Dexart mi sarà contrario, è certo che io medesimo lo dovrei essere, se potessi giudicare delle cose mie".

Nel 1624, come avvocato dello stamento militare, partecipò ai lavori del Parlamento convocato dal viceré Juan Vivas. Fu un duro momento di scontro tra i bracci parlamentari e l'autorità viceregia. Vivas, interpretando le sollecitazioni assolutistiche della corte di Madrid, aveva imposto un donativo straordinario per armare una piccola flotta di galee destinata a difendere i litorali sardi dalle incursioni barbaresche e da eventuali sbarchi nemici. Gli Stamenti rifiutarono di accordare il "servicio". Si sviluppò allora un braccio di ferro tra il Parlamento e il viceré, il quale, violando la tradizionale prassi pattista, riuscì infine a strappare il donativo. Le lotte parlamentari rivelarono in realtà un aperto contrasto tra le esigenze centralistiche della Corona e la vecchia teoria dello Stato a base parlamentaristica, eredità dell'età aragonese, tesa alla difesa dei privilegi locali. Il D. fu il portavoce degli interessi dello stamento militare e, in particolare, della nobiltà feudale cagliaritana. Il dibattito si articolò su questioni in massima parte procedurali.

Il D. è autore di due memoriali: il primo, a stampa, scritto in collaborazione con l'avvocato dello stamento reale, Girolamo Esgrecio (Substancial de las Cortes de Sardeña del año 1624, Caller 1624), rivolge tredici accuse al Vivas, contestandogli numerose irregolarità e attribuendogli il disegno di voler scindere in due lo stamento militare, contrapponendo il baronaggio del Capo di Cagliari alla piccola nobiltà e ai cavalieri del Capo di Sassari. Il secondo, manoscritto (Archivo de la Corona de Aragon, Consejo de Aragón, leg. 1172), firmato anche dall'arcivescovo di Cagliari, dal marchese di Laconi, dai conti di Serramanna, di Cuglieri e di Palmas, è un ricorso per nullità della sessione parlamentare e venne inoltrato, nel marzo del 1624, al Consiglio d'Aragona. Alle stringenti argomentazioni del D. rispose per respingerle, con un'ampia e dettagliata relazione a stampa, don Francisco de León, avvocato fiscale dello stesso Consiglio. Il D. si mosse in quest'occasione con estremo tatto e con ponderata cautela per evitare di perdere, con un'eccessiva personalizzazione della controversia, i favori del sovrano e della corte. Fu tuttavia un'esperienza importantissima nella sua maturazione intellettuale, giacché gli consentì di approfondire le procedure, il cerimoniale, la pratica e la teoria del diritto parlamentare sardo.

Nel 1626 il D. venne nominato "jurado en cabo" della città di Cagliari, senza dover percorrere, grazie alla sua notorietà, i gradi inferiori del consolato. In questo ufficio si dedicò a un'intensa attività amministrativa, correggendo molti abusi dei suoi predecessori e introducendo alcune innovazioni, dall'obbligo per i nobili e gli ecclesiastici di pagare le tasse municipali all'abolizione degli inutili doni del Comune al viceré. Ma il contributo più importante del D. durante la reggenza del Municipio si concretizzò nell'apertura dell'università di Cagliari. Già nel 1602 il Parlamento aveva chiesto al sovrano l'istituzione di un ateneo nella capitale del Regno. Nel 1620 Filippo III - dopo la bolla pontificia di Paolo V del 1607 - accordava un privilegio che consentiva la nascita dell'università. Le Constituciones hechaspor los Magnificos Conselleres de la Ciudad de Caller sobre la creación yfundación de la Universidad y Estudio general de la misma Ciudad, del 1º febbr. 1626, recano la firma dei consiglieri D., Filippo Sylvestre, Gian Giacomo Martis, Girolamo Aleu.

Il D. fu il compilatore delle Constituciones: egli si ispirò agli statuti e ai regolamenti delle università aragonesi, e in particolare di quella di Lerida, nei quali prevale il tipo di fondazione ad opera e cura del Municipio, anziché del principe o dei dignitari ecclesiastici. Manca infatti alle Constituciones cagliaritane la partecipazione degli studenti alla nomina dei professori e del rettore, secondo quanto avviene nelle antiche università spagnole (come Salamanca) o in quelle più recenti di modello umanistico (come Alcalá). Lo Studio venne posto sotto la protezione della Vergine Immacolata e dei santi Ilario, Lucifero, Eusebio. Le autorità accademiche erano: il rettore, il provvisore generale, il sindaco, secondo gli ordinamenti delle università iberiche, il clavario o tesoriere, il segretario, il corpo accademico, i collegi di facoltà, la giunta di facoltà. Le autorità, il corpo docente, i funzionari, gli studenti erano obbligati a prestare la professiofidei secondo la formula tridentina. Le facoltà erano quattro: teologia, giurisprudenza, medicina e filosofia. Per la facoltà di teologia, oltre alle quattro cattedre affidate ai gesuiti del collegio che si trasferirono all'università, ne vennero istituite due: una per le dottrine tomiste, l'altra per le scotiste. Nella facoltà di giurisprudenza vennero istituite sei cattedre: due di istituzioni, due di diritto canonico, due di Pandette. Per la facoltà di medicina due cattedre e per quella di filosofia una terza cattedra (dottrine aristoteliche) oltre a quelle mutuate dal collegio gesuitico. Studenti e docenti erano sottratti alla giurisdizione ordinaria e soggetti a quella delle autorità accademiche. Il corpo accademico era di cinquantaquattro membri (diciotto di teologia, diciotto di giurisprudenza, dodici di filosofia, sei di medicina).

Il D. fu uno dei professori della facoltà di giurisprudenza, dove insegnò (con uno stipendio annuo di 650 lire) "leyes ordinarias". Al D. venne, inoltre, promesso che, in caso di vacanza della prima cattedra di istituzioni, ricoperta allora dal dottor Giovanni Carnicer, "primario y decano" dell'ateneo, egli l'avrebbe ottenuta per la sua cultura e i suoi servigi. Il Municipio di Cagliari era, infatti, costretto a causa della scarsa disponibilità di fondi per la gestione dell'università (ammontavano in tutto a 3.000 ducati, di cui 2.000 degli stamenti ecclesiastico e militare, e 1.000 della città), a reclutare i docenti tra i giuristi, i funzionari e i magistrati residenti in Sardegna.

Il D. continuò in questo periodo ad assolvere importanti incarichi: nel 1626, come "cabeza" dello stamento reale, partecipò ai lavori del Parlamento straordinario Bajona. Nel dicembre dello stesso anno venne proposto dal viceré, don Geronimo Pimentel, nella terna per l'ufficio di avvocato fiscale patrimoniale: una carica delicata che faceva parte del "Consejo de Patrimonio" del Regno, con 300 ducati di salario e 500 di emolumenti. Nel 1627 il re concesse al D. l'ambita "plaça". In questo incarico il D. mostrò notevoli capacità nell'esercitare la giurisdizione regia e nel difendere gli interessi del Tesoro reale dalle usurpazioni baronali. L'anno successivo venne nominato giudice criminale della Reale Udienza, il supremo tribunale d'appello del Regno, istituito nel 1564 (col diploma del 5 luglio 1606 si separarono le attribuzioni della giustizia civile dalla criminale). La dottrina, l'esatta e imparziale amministrazione della giustizia, la fermezza e l'imperturbabilità del carattere, doti riconosciute dai contemporanei ("sujeto muy docto, y de grandes prendas", scrive di lui il cronista Giorgio Aleo), gli valsero la nomina, il 30 nov. 1630, alla prestigiosa carica di giudice di corte "en lo civil y criminal" della Reale Udienza. Nel 1633, durante i lavori del Parlamento presieduto dal viceré marchese di Bajona, venne deliberato di affidare al D. il compito - non portato a termine dal giurista Monserrato Rossellò, morto nel 1613 - di raccogliere e commentare i capitoli di corte inediti, o non compresi nelle due precedenti raccolte di leggi parlamentari, quella di Francesco Bellit del 1572 e quella di Pietro Giovanni Arquer del 1591. Per la pubblicazione del volume vennero stanziate 2.000 lire sarde. Dedicatosi al lavoro di ricerca, il D. raccolse sino al 1638 materiale che poi ordinò e commentò: l'opera, portata a termine nel 1641, vide la luce nel 1645.

Rimasta vacante la carica di reggente la Reale Cancelleria, primo ministro del governo viceregio, il 3 febbr. 1635, il viceré, marchese di Almonacir, scrisse a Filippo IV: "en caso que V. M. se serviesse en esta ocasión de honrar a algun natural del Reyno en premio de su antigua fidelidad y amor con que siempre ha servido a V. M., digo que don Juan Dexart es muy benemérito de esta plaça por sus grandes letras prudencia y cristianidad, virtudes tan conocidas come experimentadas en todo el tiempo que esta serviendo a V. M. en esta Real Audiencia". Tuttavia questa volta l'ascesa del D., nonostante la stima e i favori del viceré, conobbe una battuta d'arresto: gli venne, infatti, preferito il giurista iberico Francisco Corts.

La concessione nel 1632 della dignità cavalleresca e del privilegio di nobiltà mutò radicalmente la posizione sociale del Dexart. Prima era soltanto un qualificato esponente del ceto togato: egli aveva sposato Maria Naharro, figlia di Giovanni, tesoriere generale del Regno. Il titolo di nobiltà, dopo l'agiatezza economica e i successi nell'attività di magistrato e di giurista, schiuse al D. e alla sua famiglia le porte degli ambienti aristocratici cagliaritani.

I suoi sei figli poterono quindi inserirsi con facilità nei ranghi della feudalità e della nobleza locale: Melchiorre fu cavaliere di Santiago; Baldassarre sposò in prime nozze Paola Masones dei conti di Montalvo e in seconde Luigia di Castelvi dei baroni di Gesico; Marianna sposò Antonio Cervellon dei baroni di Samazzai; Gregoria fu moglie di Emanuele Delitala, tesoriere generale del Regno; Giovanna Maria sposò in prime nozze a Napoli il duca di Casamassimi, e in seconde Agostino di Castelvi, marchese di Laconi.

In questi anni il D., pur esercitando il suo ufficio di giudice della Reale Udienza, lavorò soprattutto alla raccolta dei capitoli di corte e collaborò, in varie occasioni, alle incombenze di governo: nel 1637, ad es., accompagnò il viceré nella visita ad Oristano dopo lo sbarco francese. Ma la sua preparazione giuridica e il suo equilibrio, la sua stessa profonda conoscenza della realtà sarda lo resero di fatto un punto di riferimento indispensabile per i viceré, che si rivolsero a lui per le più delicate faccende di Stato. Nel Parlamento del 1642 il viceré Fabrizio Doria duca di Avellano incaricò il D. di avviare le trattative con gli Stamenti per la concessione di un donativo annuale di 70.000 scudi, richiesto dalla Corona per far fronte alle gravi esigenze della guerra. Nel patrocinare la causa regia il D. mostrò molto tatto, prudenza e una rara capacità di mediazione che gli consentirono di far approvare senza contrasti la richiesta del sovrano. A conclusione dei lavori parlamentari, il Doria scrisse a Madrid, proponendo il nome del D. "para hazerle merced conforme a sus méritos y servicios". Filippo IV concedeva nel 1645 al D. la dignità di membro del Sacro Regio Consiglio di Napoli e una pensione di 200 scudi per un suo figlio. L'importante magistratura nel tribunale supremo napoletano (sono, infatti, assai pochi i togati sardi che hanno ricoperto le più alte cariche dei regni spagnoli o dei domini italiani) fu il naturale coronamento del suo cursus honorum. Il giurista Antonio Canales de Vega, suo allievo ed amico, scrisse nel 1645 nell'elogio del D. che precede gli Acta Curiarum: "giusto egli era che per retto giudizio della patria toccasse il sommo degli onori chi aggiunto aveva quello della virtù". Il giureconsulto sassarese Pietro Quesada Pilo lo definì ampollosamente "syderus hujus archiguberni".

In quello stesso anno furono finalmente pubblicati i Capitula sive Acta curiarum Regni Sardiniae sub invictissimo Coronae Aragonum imperio concordi trium brachiorum aut solius militari voto exarata, Calari 1645. Il D. dovette contribuire in proprio alle spese dell'edizione dei tre grossi volumi in folio, giacché la somma stanziata nel 1633 per la stampa della raccolta si era rivelata nettamente insufficiente.

L'opera, dedicata a Filippo IV, è divisa in otto libri suddivisi in titoli e in capitoli. Ogni libro tratta una determinata materia e raccoglie e ordina tutti i capitoli di corte sull'argomento. Il D. corredò di erudite annotazioni i primi tre libri ma non gli ultimi cinque, giacché l'affrettata pubblicazione dell'opera gli impedì di terminare il lavoro. Pare che, in un secondo tempo, il D. completasse il commento (peraltro mai ritrovato) e progettasse di pubblicarlo in un volume a parte, ma il trasferimento a Napoli, i suoi mutati interessi e infine la morte ne avrebbero vanificato il proposito. Egli inserì nella collezione i decreti reali, con i quali i capitoli di corte erano stati solennemente approvati, alcune prammatiche sanzioni emanate dai re di Spagna per la Sardegna, nove concordati e quattro ordinazioni regie relativi alla demarcazione dei confini entro i quali doveva esser contenuta la giurisdizione dei tribunali regi e quella dell'Inquisizione. Nel Proemio, che assume il carattere di un'ampia e dotta dissertazione giuridica, il D. si soffermò soprattutto sulla natura contrattualistica dei capitoli di corte che - in quanto concessi in vim contractus, cioè atti a cui corrispondevano determinati obblighi, frutto, appunto, di un accordo fra le parti - dovevano essere considerati leges pactionatae e quindi aventi forza di legge irrevocabile, al contrario di quelle emanate per semplice e diretta volontà sovrana: una loro eventuale modifica avrebbe potuto verificarsi soltanto con il consenso dell'altra parte, ovvero di chi aveva votato i capitoli stessi. Il vincolo derivante da questi accordi non poteva perciò decadere se non in presenza di un altro accordo tra le parti, ed esso rimaneva valido in perpetuo anche per i successori del sovrano precedente. L'impianto contrattualistico della dissertazione del D. condiziona anche la ricostruzione storica dell'origine delle Cortes in Sardegna. Il D. affermò (e questa sua affermazione influenzò a lungo la storiografia successiva) che nel primo Parlamento, convocato nel 1355 da Pietro IV d'Aragona, non vi fu un vero e proprio contratto tra sovrano e Stamenti in quanto il re non aveva emanato leggi né concesso capitoli e grazie in forma di legge; soltanto nel Parlamento convocato nel 1421 da Alfonso V il Magnanimo si sarebbero potuti individuare, secondo il D., tutti gli elementi capaci di dare una precisa caratterizzazione al sistema contrattualistico del do ut des: dalle convocazioni formalmente ineccepibili alle rappresentanze regolari, alle richieste degli Stamenti, all'offerta del donativo, all'approvazione regia.

Per la sua elaborazione teorica sulla natura delle istituzioni parlamentari, per la difesa dell'antica autonomia del Regno, dei privilegi stamentari e della tradizione pattista, il D. si colloca in un'area culturale decisamente catalano-aragonese. Nel proemio e nei commenti dei Capitula egli s'ispirò non soltanto al vasto filone di studi e di trattazioni sull'ordinamento costituzionale della Corona d'Aragona (Tomás de Mieres, Jaime Cáncer, Juan Pedro Fontanella, Jaime de Callis, etc.), tesi a tutelare le libertà regionali dal centralismo asburgico, ma anche alle correnti e alla produzione giuridica del Regno di Napoli e della Sicilia (Cagnoli, Muta, Tapia, Mastrillo, Borrello, etc.). Il D., che è stato considerato "uno dei maggiori giuristi sardi d'ogni tempo" (Marongiu), pone in evidenza, nella sua opera maggiore, i pregi, ma anche i limiti della scuola giuridica isolana del sec. XVII come, ad es., la trascuratezza dell'analisi storica, il peso dell'erudizione, l'attenzione predominante alla casistica e all'esegesi, la mancanza di un rinnovamento umanistico degli studi.

Il 10 luglio 1645 il D. entrò in carica come consigliere del Sacro Regio Consiglio di Napoli. Il salario annuo era di 1.000 ducati e di una cifra incerta di emolumenti. Sappiamo pochissimo della sua vita napoletana. Certo, egli, per la fama di magistrato e per la sua posizione sociale, non fece fatica ad introdursi nell'ambiente dei togati e dei ceti privilegiati partenopei. Ospitò ed aiutò, ad es., l'avvocato algherese Giovan Battista Buragna, incarcerato a Cagliari dal viceré conte di Monteleone e poi profugo a Roma presso il conte di Oñate, agevolando la ripresa della sua attività forense.

A Napoli attese, inoltre, alla stesura definitiva e alla pubblicazione del suo secondo importante volume: Selectarum iuris conclusionum in sacro regio Sardiniensi praetorio digestarum et decisarum centuria, Neapoli 1646. Si tratta di una raccolta di cento decisioni su importanti questioni giuridiche di diritto comune e di diritto "patrio", di argomento prevalentemente civilistico, pronunciate dalla Reale Udienza di Cagliari nel periodo in cui il D. era giudice.

In un latino piano e scorrevole egli vi commentò le decisioni con un ricchissimo apparato critico di note e di erudite delucidazioni, mostrando ancora una volta una profonda padronanza del diritto e una vasta conoscenza della legislazione del suo tempo. La Reale Udienza sarda fu un organismo che - come avvenne altrove con il Senato regio di Torino, la Rota fiorentina, la Rota civile e criminale di Genova, e con lo stesso Sacro Regio Consiglio di Napoli - favorì la crescita di una scuola giuridica locale e la formazione di una accreditata giurisprudenza di diritto comune con coloritura regionale, ma pure, al tempo stesso, con impronta cosmopolitica. Ciò spiega l'interesse che le Selectarum iuris conclusionum suscitarono presso i giuristi contemporanei, sia italiani, come Giovanni Girolamo De Filippo, reggente del Supremo Consiglio d'Italia, Giovanni Battista De Luca, Giuseppe Romani, sia spagnoli, come Miguel de Cortiada e Cristobal Crespi de Valdaura, vicecancelliere del Supremo Consiglio d'Aragona.

Nell'autunno del 1646 il D. venne inviato dal Sacro Regio Consiglio in missione a Catanzaro, nella provincia di Calabria Ultra, per far fronte a una situazione giudiziaria estremamente deteriorata. Ed a Catanzaro il D. morì il 18 dic. 1646.

Fonti e Bibl.: Cagliari, Arch. arcivescovile Quinque libri, Castello, reg. 1584-1593, c. 18v; Arch. di Stato di Cagliari, Antico Arch. Regio, Atti dei Parlamenti, voll. 167, 169; Cagliari, Bibl. univers., Fondo Baille, sala piccola 6.3.2., Stampe relativeagli Stamenti e alle Visite Reali; Sassari, Bibl. comunale, Sala Tola, III D.2., Miscellanea di allegazioni forensi; Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón, Consejo de Aragón, legajos 1052, 1090, 1137, 1173, 1360; Acta graduum Academiae Pisanae, II, 1600-1699, a cura di G. Volpi, Pisa 1979, p. 83; M. Canepa, Le Constituciones dell'Università di Cagliari, in La Regione, II (1925), 2, pp. 1 ss.; N. Toppi, De origine omnium tribunalium nunc incastro Capuano fidelissimae civitatisNeapolis existentium, II, Neapoli 1659, p. 631; G. Aleo, Storia cronologica di Sardegna (1637-1672), a cura di Atanasio da Quartu, Cagliari 1926, ad Ind.; P. Quesada Pilo, Controversiarum forensium utriusque iurismiscellaneam..., Romae 1665.

Cfr. inoltre: G. Simon, Lettera al cavaliere don Tommaso de Quesada sugli illustri coltivatori della Giurisprudenza in Sardegna fino alla metà del sec. XVIII, Cagliari 1801, pp. 10 ss.; G. Manno, Storia di Sardegna, III, Torino 1826, pp. 283-293; P. Tola, Dizionario biogr. degli uomini ill. di Sardegna, II, Torino 1837, pp. 42-49; P. Martini, Biografia sarda, II, Cagliari 1838, pp. 61-74; G. Siotto Pintor, Storia letter. di Sardegna, I-IV, Cagliari 1844, ad Indicem; F. Sclopis, Storia della legislazione ital., II, Progressi, II, Torino 1863, pp. 354 s.; C. Soro Delitala, Profili di una storia sulla legislazione in Sardegna, in Rivista econ. della Sardegna, I (1877), 6-7, pp. 16 ss. Fra gli studi più recenti: R. Di Tucci, Istituzioni pubbliche di Sardegna nel periodo aragonese, I, Le fonti, Cagliari 1920, pp. 63-65; F. Loddo Canepa, Le pubblicazioni ufficiali del Regno di Sardegna, in Mediterranea, V (1931), 8-10, pp. 45-57; A. Marongiu, IParlamenti di Sardegna nella storia e nel diritto pubblico comparato, Roma 1932, ad Indicem; A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, Roma 1934, pp. 63-65; Id., L'autonomia del "Regnum Sardiniae" nell'epoca aragonese-spagnola, in Arch. storico sardo, XXV (1957), pp. 214 ss.; F. E. de Tejada, Cerdeña hispánica, Sevilla 1960, pp. 124-127; A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel Medio Evo e nell'età moderna, Milano 1962, pp. 448-452; R. Gibert, Historia general del derecho español, Granada 1968, pp. 413 s.; F. Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793, I, Gli anni 1478-1720, a cura di G. Todde, Sassari 1974; A. Marongiu, Saggi di storia giuridica e politica sarda, Padova 1975, pp. 188 ss., 196 ss.; B. Anatra, Corona e ceti privilegiati nella Sardegna spagnola, in B. Anatra-R. Puddu-G. Serri, Problemi di storia della Sardegna spagnola, Cagliari 1975, pp. 65-90; G. Sorgia, La Sardegna spagnola, Sassari 1982, pp. 126-131; A. Mattone, Problemi di storia del Parlamento sardo (XIV-XVII secolo), in Assembleee di Stati e istituzioni rappresentative nella storia del pensiero politico moderno (atti del convegno internazionale tenuto a Perugia 16-18 sett. 1982), I, Rimini 1983, pp. 151 ss.

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