DELLA CASA, Giovanni

Enciclopedia Italiana (1931)

DELLA CASA, Giovanni

Giulio Dolci

Nato in Mugello, forse nel villaggio La Casa da cui traeva nome la sua nobile famiglia, il 28 giugno 1503, morto a Montepulciano il 14 novembre 1556. Studiò a Bologna, a Firenze e dal 1525 di nuovo a Bologna, donde si trasferì nel 1528 a Padova. Nel 1529, essendo a Roma, ebbe il titolo di chierico fiorentino, e, per procura di suo padre, un canonicato nella chiesa di S. Niccolò. Per calcolo, più che per inclinazione d'animo, ricevette gli ordini minori e solo nel 1547 il presbiterato. Scrisse in quel tempo capitoli berneschi, documento poco edificante del tenore della sua vita, e sonetti, che, come tutta la produzione in versi del D. C., sono opera più di cervello che di cuore, ma solenni e severi, di ampio respiro oratorio. Il 12 marzo 1537 fu nominato chierico della Camera apostolica ed ebbe l'ufficio di Commissario per la riscossione delle decime. Nel 1541 era a Firenze a esercitare l'ufficio suo; e là, mentre attendeva all'educazione dei nipoti, fu iscritto all'Accademia fiorentina. Tornato a Roma, fu nel 1544 eletto arcivescovo di Benevento, ma non visitò neppure la diocesi, essendo stato inviato come nunzio pontificio a Venezia, donde seguiva l'andamento del concilio di Trento. Quando Paolo III istituì la lega dei potenti d'Italia con la Francia contro Carlo V, egli tentò con una magnifica Orazione per la lega di attirarvi anche la repubblica; quando i Farnese, dopo l'assassinio di Pier Luigi, cambiarono politica e si accostarono a Carlo V per riavere Piacenza, egli scrisse l'Orazione per la restituzione di Piacenza la quale, sebbene non fosse poi recitata davanti all'imperatore, ebbe grandi lodi dai contemporanei e dai posteri. Incaricato di procedere per eresia contro Paolo Vergerio, rispose all'invettiva in cui il Vergerio gli aveva rinfacciato i trascorsi giovanili con una focosa dissertatio. Continuava frattanto a scrivere: sono di questo tempo i sonetti amorosi per la Querini, molte poesie latine, le traduzioni in latino da Tucidide, ecc. Alla morte di Paolo III (1549) il D. C. sperò invano i favori di Giulio III e, dopo aver venduto il chiericato di camera, si ridusse a vita privata, prima a Venezia, poi, nel 1552, a Badia di Nervesa. Paolo IV lo nominò segretario di stato, senza però crearlo cardinale.

La fama del D. C. è legata a un trattato di buona creanza, ch'egli compose tra il 1551 e il 1554 e ch'ebbe larga diffusione anche in lingue straniere, il Galateo, così chiamato dal nome di Galeazzo (lat. Galataeus) Florimonte, vescovo di Sessa (1478-1567) che lo incitò a comporlo. È un discorso che un vecchio illetterato rivolge a un giovane, il nipote del D. C., Annibale Rucellai, per insegnargli a evitare nei comuni rapporti sociali gli errori in cui potrebbe cadere. Frutto di esperienza della vita, nutrito di buon senso, il libretto svolge, con bella lingua e in stile elevato, senza ridondanze oratorie, un completo insegnamento che se può parere di semplice etichetta, è in realtà di morale. Il "conciossia cosa che" con cui il Galateo comincia, gli ha creato fama di libro scritto con ricercatezze pedantesche. In realtà niente vi è in esso di cattedratico; l'autore sa nascondere la mente ricca di dottrina, a cui affluiscono i ricordi delle molte conoscenze classiche specialmente ciceroniane, e pur nell'ampio periodo, sapientemente architettato, conserva per lo più una semplicità elegante.

Altre opere del D. C., oltre quelle menzionate, sono un Trattato degli uffici comuni, d'ispirazione e di fattura ciceroniana, scritto dapprima in latino e dall'autore stesso tradotto; le Vite del Bembo e del Contarini, piuttosto elogi che biografie; traduzioni da Demostene, da Tucidide, un'orazione funebre per i morti di Prevesa con un eloquentissimo elogio dell'Italia, e la Istruzione al card. Scipione Rebida. Tutte queste opere rivelano il carattere specifico del D. C. come letterato: una spiccata tendenza all'eloquenza, un'innata abilità di magnifico oratore; nel qual carattere del resto consiste il tono più singolare delle sue rime, che godettero a lungo di straordinario favore.

Scritti: Opere, Firenze 1807; Venezia 1728 e 1752, con biografia, di G. B. Casotti; Milano 1806.

Bibl.: L. Campana, Monsignor Giov. d. C. e i suoi tempi, in Studi storici, XVI, Pisa 1907; id., Istruzione al card. Scipione Rebida legato a Carlo V e Filippo II, in A. V. Cian, i suoi scolari dell'Università di Pisa, Pisa 1909, p. 121 segg.; C. Steiner, Vita di mons. G. d. C., innnanzi all'ediz. commentata del Galateo, Milano 1910; O. Battistella, Di G. d. C. e d'altri letterati all'abbazia dei conti di Collalto in Nervesa intorno alla metà del sec. XVI, Treviso 1904; A. De Rienzo, Mons. G. d. C. arcivescovo di Benevento, in Atti d. Società storica del Sannio, I (1923); G. Piquè, Il Galateo di mons. D. C., I: Storia e fortuna, Pisa 1896; G. Biadego, Galeazzo Florimonte e il "Galateo" di mons. D. C., in Atti del R. Ist. veneto, LX, ii (1901), p. 520 segg.; M. Galdi, De latinis Joannis Casae carminibus disputatio, in Mem. della R. Accad. di arch. lett. e belle arti di Napoli, n. s., I (1910), pp. 111-147; per le liriche volgari, B. Croce, in La critica, XXVIII (1930), pp. 410-17; G. Tinivella, Il Galateo di mons. G. D. C., Milano 1931.

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